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SUMMAGA

Lunedì, 19 maggio 2008

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Se non avessi avuto il tempo di preparare preventivamente il mio GPS con i punti di possibile interesse, forse non l’avrei trovata. Il fatto che si parli di abbazia mi porta sempre a pensare ad una struttura di tipo monasteriale: loggiati, cortili, celle; e nei dintorni non vedo nulla di simile. Spero nel fatto che i riferimenti di posizione siano esatti, e mi addentro lentamente per una strada secondaria di questa frazione di Portogruaro; da lontano ho intravisto un campanile in quella direzione.

Un viale affiancato da modeste abitazioni guida lo sguardo verso il fondo dove spicca la facciata di una chiesa. Sui lati, mamme che capisco essere in attesa dei loro bimbi che giocano rumorosamente in un campo da pallone, forse l’oratorio; suscito la curiosità di qualcuna di esse mentre, a passo d’uomo, cerco un posto dove lasciare il mio jeeppino senza disturbare la visione prospettica del luogo. Noto che ad altri non importa per nulla, e parcheggiano il loro mezzo dove capita.

Evidentemente dell’abbazia di cui si parla non rimane altro se non la chiesa, forse un pozzo inserito nel ben curato verde di un prato, forse qualche reperto archeologico appoggiato al muretto di cinta.

Il primo pensiero è che non si tratti di un’esplorazione tra quelle che suscitano il mio interesse; una chiesa come tante, dove il romanico che cerco è ormai cancellato dagli interventi dell’uomo moderno.

Un’idea che cambio immediatamente, non appena varco il portale d’ingresso.

Una volta all’interno ho la sensazione che le dimensioni dell’aula si siano improvvisamente modificate, ampliando quello spazio che dall’esterno non sono riuscito ad intuire. Un magnifico colonnato in laterizi ospita diversi affreschi, ma già l’occhio si abitua alla penombra del luogo e mi consente di scorgere la vastità delle pitture dell’abside. Una piacevole sorpresa.

Mi incammino per la navata di sinistra. Mi soffermo sull’immagine che decora una delle prime colonne. La didascalia identifica a chiare lettere Santa Margherita, anzi Margareta, come scritto. Se fosse stata una pittura attuale, sarebbe difficile l’identificazione, perché di sante con quel nome ne vengono annoverate molte; ma ai tempi dove mi sembra di poter collocare l’opera si parlava solo di Santa Margherita d’Antiochia, l’unica martire con quel nome presente nel testo della Biblioteca Sanctorum di De Natalibus, opera edita nel 1493 e quindi in un periodo molto vicino. La sua iconografia la vorrebbe in compagnia di un drago soggiogato, ma non posso dire se questo attributo vi fosse in origine ed ora si sia perso, cancellato da quel nulla che vedo nella zona ai piedi dell’immagine. Peraltro è ancora visibile la corona che le cinge il capo, cosa presente in molte raffigurazioni. Interessante anche quello che dovrebbe essere un ramo di palma che stringe nella mano destra, classico simbolo del martirio, ma che qui, caso raro, molto propriamente sembra dipinta con i datteri perché tradizione vuole che di tale specifica pianta si tratti. Anche se, a ben vedere, a me sembrerebbe più simile ad una piuma di pavone; però questo attributo è relativo a Santa Barbara. Ma i legami dell’iconografia sono talvolta misteriosi. Per scrupolo consulto il Dictionnaire Iconographique dell’abate Migne, pubblicato nel 1850; lo faccio giusto per verificare se vi siano altri personaggi con piume di pavone. Trovo Santa Barbara e non altri, come mi aspettavo; comunque leggo di lei e scopro un passaggio che mi illumina; testualmente ”Voir pour le surplus des détails au nom Marine (sainte).”. Non è forse vero che Santa Marina è conosciuta in occidente come Santa Margherita d’Antiochia? Non dico altro.

Su diverse colonne vedo altri affreschi, con santi e papi, ma sono figure per me irriconoscibili; troppo scarse le informazioni superstiti dalla corrosione del tempo.

Rivolgo lo sguardo alla parete e scopro una sequenza di affreschi; quadri di personaggi che mi chiedono di essere riconosciuti, quasi che il mio lavoro fosse per loro di conforto.

La prima che incontro è una figura maschile; stringe nella mano sinistra la palma, e quindi si tratta di un martire. Nella mano destra un bastone da pastore. Ciò che però ne consente l’identificazione certa sono le figure di vari animali che si aggirano dietro di lui: a destra un leone, al centro forse una capra, a sinistra un bue. Si tratta di San Mamete di Cesarea, che nella parte della sua vita durante la quale fu pastore trovò alimento nel latte degli animali, anche fiere, che accudiva ed addomesticava. Ho avuto modo di incontrarlo anche in un’altra esplorazione, sui monti di un paesino del Canton Ticino, a Monte Carasso. Mi interessò perché viene conosciuto con una grande diversità di nomi; dapprima, in arte bizantina, come Mamas, poi con vari nomi similari, tant’è che è statisticamente più conosciuto come San Mama di Cappadocia, soprattutto nelle regioni del nord est. Peraltro è da dire che il già citato Catalogus Sanctorum della fine del ‘400 lo riporta proprio come Mamete, anche se solo nelle schede biografiche perché negli indici è invece citato come Mammes. Pover’uomo, un vero alias vivente.

Al suo fianco un altro martire di facile e certa identificazione; porta nella mano destra un secchiello ricolmo d’acqua e sembra versarlo su una costruzione ai suoi piedi. Un’iconografia indiscutibile. Si tratta di San Floriano di Lorch, soldato romano, che la tradizione vuole che abbia salvato una casa dal fuoco. Il paese di Lorch si trova sul fiume Enns in Austria, ed era il sito romano di Lauriacum, peraltro da diversi agiologhi confuso con altre Lorch in Germania. Non a caso è proprio a Lorch in Austria che si trovano i più importanti luoghi di devozione al santo, che non solo è patrono della zona, ma anche, e più che giustamente, dei pompieri; bellissima l’immagine che lo ritrae in un’emissione filatelica austriaca del 1996 titolata proprio al feuerwehren San Floriano. Evidentemente anche ai tempi in cui fu dipinto l’affresco il legame tra Veneto ed Austria era molto forte. Mi rimane una curiosità; chissà a cosa si riferisce il resto della scritta, forse il finale di una parola, che si trova sotto l’edificio in fiamme: ITA. Mistero.

Nel quadro successivo una figura probabilmente femminile, come farebbe pensare il volto. L’immagine nel complesso è molto rovinata. Riesco ad intuire che regge qualcosa nella mano destra, ma non sono in grado di comprendere cosa sia. In assenza di certezze, meglio astenersi. Un comportamento che deriva dal vissuto di mio padre, che diceva più sinteticamente: “Nel dubbio, astienti”. Seguo il suo consiglio.

La sequenza dei quadri si completa con una scena che raccoglie una figura con barba bianca ed un papa assiso in trono. Anche qui non trovo certezze. Provo a pensare alle immagini di santi che classicamente tengono il Libro in mano. San Tommaso d’Aquino e Sant’Antonio da Padova, non hanno la barba. San Benedetto, ha il saio nero. San Domenico, ha il saio con scapolare e cappuccio bianco. A questo punto rimangono solo i Profeti ed i Dottori della Chiesa. Ne esco sconfitto, ma non domo. Dovessi comunque esprimermi, a sensazione ci vedrei bene Sant’Antonio abate, che talvolta viene raffigurato con in mano un libro o un foglio sul quale scrive. Normalmente è anche dipinto con un bastone a T ed in compagnia di un porchetto; quest’ultimo particolare forse lo posso ritrovare in quella virgola scura che noto sul bordo inferiore sinistro del riquadro: che sia la coda del maialino? E della figura papale cosa dire? Qui proprio non mi cimento nemmeno. Ormai ho dato tutto, come si suol dire.

Prima di giungere all’abside centrale, su una colonna trovo quanto rimane di un affresco che ritraeva sicuramente la Madonna, posti i piedi sul sole e sulla luna; un probabile riferimento all’Apocalisse di Giovanni, dove si legge: ”Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle”; qui le stelle sono scomparse per sempre con il resto della figura. Sotto di lei alcune figure oranti, religiosi di ordini diversi, a dar credito al colore del saio, tra i quali un benedettino dal saio nero, a sinistra; al centro uno stemma con leone rampante sormontato dalle insegne vescovili. Una scritta richiede alla Vergine intercessione e grazia. La datazione risale a qualcosa dopo il 1500.

Sono alle prese con la stabilizzazione del mio apparecchio fotografico; per effettuare le riprese in luce naturale, come a me piace fare, è necessario tenerlo ben fermo, e per questo uso come appoggio tutto ciò che lo è per natura: colonne, pareti, tavoli, panche. Quando lavoro in modo programmato ho sempre al seguito un prezioso cavalletto, ma qui sono in vacanza, e quindi… Una gentile signora probabilmente riconosce il problema nel mio comportamento; mi si avvicina e mi chiede se deve accendere le lampade che illuminano l’abside; la ringrazio ma rifiuto; preferisco la suggestione dei fasci di luce che entrano dalle finestre. Dopo poco, qualcuno accende comunque l’illuminazione elettrica. Forse è meglio così.

Ed ecco che ho raggiunto l’abside. Basta alzare lo sguardo [su105 o] per avere un’immediata sensazione di grandiosità, pur con pitture che mostrano diverse zone perdute.

Nel punto più zenitale, l’immagine della Madonna che regge il Bambino in grembo è racchiusa in una cornice ovale, la mandorla, ed attorniata da angeli con le ali spiegate. Appena sopra il suo capo noto qualcosa di curioso; in un medaglione incorniciato in rosso, fuori dalla mandorla, spuntano tre zampe di un animale che mi sembra avere gli zoccoli bipartiti, come quelli dei bovini; forse il bue, emblema di San Luca evangelista. Del resto, proprio a sinistra, scorgo anche l’aquila, emblema di San Giovanni evangelista.

Nella parte superiore del semicilindro absidale è raccolto l’insieme delle immagini degli Apostoli, il Cristo al centro. Questa è una raffigurazione frequente del cosiddetto Collegio Apostolico. Non è per nulla facile riconoscervi i singoli personaggi, ad eccezione di San Pietro; in questo caso lo vediamo alla destra del Salvatore, con le chiavi in mano ed in chiara evidenza. Gli altri, seguendo una tradizione iconografica che si è estesa sino al secolo XIV, stringono in mano solamente un rotolo. In assenza di didascalie, l’attribuzione della raffigurazione è praticamente impossibile. Talvolta la sequenza da sinistra a destra è un dato informativo, perché Sant’Agostino ne formalizzò la posizione attribuendo loro anche uno specifico scritto. La sequenza, però, partirebbe con Pietro all’estrema sinistra, e questo non è il caso, com’è evidente.

Nell’ultimo settore, il più inferiore, è rimasta affrescata solamente una zona centrale, attorno a quell’unica finestra che divide in due la scena. Si tratta dell’illustrazione di una delle parabole riportate nel Vangelo di Matteo che al capitolo 13 racconta di dieci vergini, metà delle quali si comportò stoltamente mentre l’altra metà fu avveduta. La narrazione riporta che tutte si misero all’opera per accogliere lo sposo, ma le cinque stolte non si premurarono di aver olio a sufficienza per le loro lampade e furono costrette ad allontanarsi per approvvigionarsene; quando lo sposo arrivò, le vergini savie, che avevano con sé la scorta dell’olio ed erano quindi presenti, entrarono in casa con lo sposo; più tardi si presentarono le stolte, ma lo sposo le cacciò non riconoscendole. Interessante questa sequenza temporale dei due quadri, da sinistra a destra; prima l’accesso delle savie, accettate dallo sposo nelle vesti del Signore, poi la cacciata delle stolte, con un gesto della sola mano.

Anche per raggiungere la navata di destra passo sotto un arco affrescato. L’immagine è ricca di colore, solamente in basso la pittura è rovinata e intuisco la presenza di una piccola figura umana, grigia tanto da apparire come un fantasma. E’ il povero Isacco nelle mani di Abramo, prima che Dio interrompa l’atto omicida. In alto a sinistra è rappresentato un tondo fiammeggiante con volto umano. Un sole forse, dall’aspetto corrucciato, addirittura di rimprovero. O forse è solamente il volto dell’angelo salvatore con l’aureola. E' l’ambiente desertico che si vede intorno a favorirmi questa particolare visione assolata; un po’ di pensiero in libertà.

La navata di destra, laddove termina, mi riserva una incredibile sorpresa. L’ambiente mi rivela una struttura che chiaramente dimostra di appartenere alla più antica costruzione; un parallelepipedo sgrezzato nella pietra, blocchi di pietra al pavimento, affreschi quasi disegni monocromi. Un sacello, il luogo dei riti del primo millennio cristiano, forse lo stesso germe dal quale ha avuto origine la chiesa, il cui sviluppo ha però preservato. La cosa che mi lascia maggiormente meravigliato è la fattura degli affreschi, che ho trovato identica nel velario di una remota stanza, di difficile accesso, ricavata sopra l’esonartece della chiesa di San Vincenzo a Pombia, il mio piccolo paese avito in provincia di Novara. Ecco il lavoro di un contadino che raccoglie le uova delle sue galline, ben curate e custodite in una gabbia il cui tetto le protegge dalle intemperie. Ecco due armigeri in lotta tra di loro, mentre qualcuno sembra rimproverarli, il dito indice alzato. Ecco un mostro alato, la lingua fiammeggiante, un drago, mezzo serpente, mezzo lupo o che altro, che un arciere pone ad obiettivo dei suoi dardi. Forse mi trovo di fronte alla più antica raffigurazione del tema medioevale del combattimento tra i Vizi e le Virtù. Questo tipo di rappresentazione, che qui si esprime perfettamente nelle due diverse immagini, guerriero contro guerriero, guerriero contro mostro, è consolidata infatti anche nell’iconografia dei più antichi luoghi romanici, sulla scorta di testi e scritti che sin dal V secolo ne sviluppavano la rappresentazione. Una scoperta nient’affatto insignificante, se tale fosse.

Mentre sono concentrato sugli scatti fotografici che mi consentiranno di studiare i dettagli in un secondo tempo, la chiesa viene animata da un gruppo di bambini; in prima fila, davanti all’altare, ascoltano le parole di un sacerdote che illustra argomenti cristiani. Mi accorgo che sono più interessati, o quantomeno curiosi, alle mie azioni piuttosto che a quelle del Signore. Mi sento a disagio, e così mi allontano in silenzio e scompaio allo loro vista.

Fuori il cielo si è rannuvolato. Un’altra umida prospettiva per il domani.

 

 

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ISSN 2284-3620

Ultimo aggiornamento: 19 aprile 2016