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SESTO AL REGHENA

Mercoledì, 21 maggio 2008

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Ormai la vacanza è prossima al termine; mi rimane un solo pomeriggio disponibile. Lo vorrei dedicare ad un viaggetto senza particolari mete, magari gironzolando un po’ più lontano rispetto a quanto già fatto, giusto per attraversare qualcuna di quelle zone che ancora non abbiamo percorso. In pratica, un viaggio in jeeppino e niente più. Alla deriva. Mi pongo solo un limite di distanza osservando la cartina del pieghevole che mi è stato ispiratore in questi giorni. Vi leggo una nota che potrebbe comunque identificare un punto di qualche interesse, anche se poco promette con quella sola ed unica riga, null’altro, inserita al piede della descrizione di Gruaro: Abbazia di Sesto al Reghena del VIII secolo. Se arriviamo fin lì, bene, altrimenti, pazienza; probabilmente avremo perso poco.

Arriviamo nel pomeriggio avanzato, e prima ancora di aver raggiunto l’abbazia mi rendo conto di aver commesso un enorme errore di valutazione. Ma di questo non posso far altro che dar colpa a coloro che hanno preparato quel pieghevole di storia e cultura del Veneto orientale, e che hanno trascurato di porre in evidenza quello che mi sembra un vero gioiello, probabilmente unico nella regione.

Percorro la strada che proviene da Concordia Sagittaria, qui chiamata Julia Concordia, ed attraverso il piccolo ponte sul fossato che conduce verso il portale d’accesso al nucleo medioevale; sul fondo già intravedo la struttura che ritengo essere dell’abbazia. Mi incammino per la via che apre lo sguardo su scorci suggestivi, testimoni di tempi remoti, e sulla quale affacciano abitazioni che forse furono di notabili e devoti residenti. Mi soffermo ad osservare un palazzo imbandierato che mostra in questo la sua funzione pubblica; una fascia sotto la falda del tetto è affrescata a tre quadri con temi allegorici.

Ormai siamo arrivati sulla piazza antistante l’accesso all’area dell’abbazia.

 

L’ABBAZIA

L’ingresso si apre in un torrione che ebbe evidenti funzioni difensive. Un affresco racconta di quali fossero le entità alle quali si dovesse prestare il giusto rispetto: sopra tutti Venezia, simbolicamente impersonata dal leone di San Marco, poi l’Abate, rappresentato dal suo stemma con il cappello prelatizio dal quale scendono sei nappe per parte, su tre livelli secondo quanto dettato dall’araldica ecclesiastica. Una data su uno stemma a bassorilievo: MDXXI, il 1521. Combinazione vuole che sia la stessa data che ho trovato nel medaglione di San Giovanni Battista posto sulla facciata della chiesa di Meolo.

Attraverso il portale ed accedo ad un ampio cortile sul quale domina una torre, ora campanaria, ma probabilmente nata come sistema di avvistamento per la difesa del luogo. Sulla corte si affacciano diversi edifici che suscitano il mio interesse, primo fra tutti quella loggetta che risulta essere l’accesso alla chiesa, poi l’attuale sede del Municipio che certamente fu sede degli abati come dimostrano gli stemmi affrescati sulla facciata. Dalla parte opposta un palazzo palesa, nella sua curiosa composizione di elementi, una vita architettonica più volte rivista durante il trascorrere di diverse epoche.

Sul fianco destro della torre un portale ad arco; lo oltrepasso e scopro che mi introduce in un vasto giardino; da qui ho una visione completa di un lato della chiesa, lungo il quale mi avvio con lo scopo di percorrere il perimetro esterno. Sul muro si aprono trifore e spuntano chiavi di tenuta. Rivolgo lo sguardo al sommo della parete, e scopro che nella parte inferiore lo spiovente del tetto è completamente decorato con affreschi a motivo floreale e geometrico; una cura del particolare che doveva regalare alla struttura una particolare e smagliante bellezza artistica.

Proseguo nel cammino perimetrale e sbuco nella parte opposta al giardino, dove si trova un edificio addossato alla antiche mura di recinzione; pur non mostrando a prima vista la stessa età dell’intero complesso abbaziale, in realtà denuncia la sua vetustà con l’integrazione di una delle torri di guardia che sorgevano sulle mura difensive originarie.

Nel prato che lo fronteggia è delimitato, forse direi meglio disegnato da un impianto murario di moderna fattura, quello che potrebbe rappresentare il corpo originale di una chiesa probabilmente edificata in un tempo anteriore a quello dell’abbazia, o comunque all’esterno del suo perimetro. Osservo la mancanza di parallelismo con i muri della chiesa e per curiosità verifico gli orientamenti con la bussola del mio GPS. Questa primitiva struttura è perfettamente allineata con i punti cardinali, contrariamente a quanto si rileva nell’attuale costruzione; una mappa posta all’interno della chiesa me ne darà conferma. Interessante questione.

Da questo punto di vista si evidenziano ancor di più le differenti fasi costruttive ed i moduli con i quali è stato composto l’intero impianto funzionale della chiesa, con altezze a crescere dall’ingresso sino alla cupola che qui non è tale; infatti l’intera struttura si ispira alle semplici e rettilinee forme geometriche di quelle che nella vita del medioevo “fuori mura” furono i luoghi dove i fedeli spontaneamente si raccoglievano in preghiera, senza che vi fosse né una particolare dedicazione né tantomeno un’architettura specifica; in pratica era la casa più grande del villaggio con il classico tetto a falde; le “casazze”, così chiamate nell’area della Liguria e della Sicilia.

Rientro nel cortile e mi dirigo verso il portico sotto il quale si apre il portone d’ingresso alla chiesa. Quanto vedo in questa struttura esterna mi fa presagire che all’interno avrò più che una sorpresa. Diversi affreschi decorano le pareti che accolgono il visitatore ed a lui indicano la via d’accesso.

 

L’INGRESSO ALLA CHIESA

Sul muro di sinistra siede in trono la Vergine; seduto sulla sua gamba è il Bambino che benedice con tre dita, secondo uno schema ortodosso non così raro da suscitare un particolare interesse, però nemmeno così frequente sotto l’aspetto iconografico; nell’altra mano tiene lo stelo di un giglio fiorito, simbolo dell’offerta di purezza. Una rappresentazione di stile bizantino conosciuta anche come “Madonna in maestà”: il capo velato, lo sguardo fisso, il vestito a colori sgargianti e riccamente decorato di rose. Il Bambino volge lo sguardo verso la figura di sinistra, nella quale riconosco San Giovanni Battista; infatti dalla tunica spunta, a diretto contatto col suo corpo, il vestito di pelo di cammello che sempre lo contraddistingue e con la mano indica una specie di medaglione sul quale è riprodotto, intuisco più che vedere, l’agnus dei con l’aureola ed una lancia; forse è stata la mancanza di spazio che ha impedito all’artista di dipingere la più classica asta con il vessillo al vento, anche se avrebbe potuto scegliere l’altrettanto classica, e dimensionalmente ridotta, croce astata; oppure il pittore ha commesso un errore? Passo oltre e mi concentro sulla figura di destra. Il rotolo che tiene in mano mi porta a pensare che si tratti di un apostolo, così come lo sono negli affreschi che ho trovato a Summaga; quindi il bastone da pellegrino e la conchiglia che porta al fianco allacciata ad un nastro a tracolla mi conduce all’identificazione di San Giacomo il Maggiore. E’ curioso il fatto che questo stesso gruppo pittorico sia stato ripreso successivamente nel ‘500 da Jacopo da Ponte, un pittore che possiamo dire di zona essendo originario di Bassano; in un dipinto, ora custodito a Monaco, sono invertite le posizioni dei due santi, ma sono mantenuti gli stessi personaggi. Sotto di loro, in una fascia di cornice, due figure di fantasia; alla sinistra un dolce volto ed un corpo alato; alla destra un mostro corazzato, il posteriore da leone, con il lungo collo e la testa d’uomo barbuto, (una raffigurazione che prende il nome di manticora); probabilmente una rappresentazione del bene e del male, l’angelo ed il diavolo.

All’estrema sinistra emerge [se240 v] dalla foschia del degrado un volto di santo, una mano, un bambino in spalla. Quanto basta. E chi potrebbe essere se non San Cristoforo, il traghettatore del Signore per eccellenza?

Sopra il portone d’ingresso, una struttura ad arco a sesto acuto, posta in perfetta simmetria con una coppia di trifore che lo sovrastano, mi porta a pensare quale fosse l’originale dimensione del varco d’accesso alla chiesa, più ridotto rispetto all’attuale. La lunetta dell’arco è affrescata con l’immagine di un arcangelo, riconoscibile come tale dall’aureola. Non so identificarlo con certezza; posso solo presumere che, vista la dedicazione della chiesa a Maria e visto che non riesco a vedere attributi significativi, si tratti allora dell’angelo dell’Annunciazione, ossia San Gabriele Arcangelo. Sull’arco che ne delimita l’immagine è dipinta una scritta che mi incuriosisce sia per contenuto che per sintassi; vi leggo
… VT NOS TE PELLAT (ADTIQV) VOLIT ET AB ALTO SEPIUS TE PLUO? VENIAT AD ISTUD VISERE NOSTR…
Mi piacerebbe capire a cosa si riferisce; mi riprometto di sottoporre la questione a chi più di me conosce le sacre scritture. Non sono ancora entrato e già mi rendo conto di avere materia per analisi future, che forse altri hanno già ben portato a termine; mi auguro non sia che, come purtroppo frequentemente accade, i risultati di tali ricerche rimangano invisibili ai più, tuttora rinchiusi in scrigni ermetici che custodiscono il tesoro della conoscenza; a chi giova se non diffuso?.

Sulla destra è dipinta una scena dove si riconosce un uomo, la barba bianca, che veste un saio; dietro di lui, quasi a circondarlo, una specie di serpente la cui testa si è quasi persa nella rovina della pittura, ma sul cui corpo contorto, davanti al frate, spiccano ancora un paio di alette o corna: un drago, insomma. Nella mano sinistra della figura vedo, non senza qualche difficoltà, una corda che termina con un laccio sul collo della bestia, a trattenerla; forse è lo stesso cordone, accessorio del saio che non sembra esserne cinto. Noto anche che la immonda creatura ha la coda annodata; un’immagine particolare che ricorre nelle scene che illustrano brani dell’Apocalisse di San Giovanni. In questa raffigurazione alcuni identificano San benedetto da Norcia, appunto il fondatore dell’Ordine dei Benedettini cui l’abbazia ed il monastero erano affidati in cura. Ritengo che l’identificazione possa essere discussa, soprattutto a motivo del fatto che non ho trovato alcuna iconografia che accoppiasse San Benedetto con un drago; casomai con un piccolo serpente che fuoriesce da un calice, a ricordo di un episodio di avvelenamento di cui fu oggetto il Santo. Nemmeno nei pur vasti elenchi che consentono di porre in correlazione gli attributi di santi con draghi, quali quelli dell’abate Migne del 1850 o del prevosto Husenbert del 1860, e nemmeno nella più recente opera del Casagrande del 1932 o del Thoumieu del 1997. Nemmeno nella Legenda Aurea di Jacopo da Varagine e nemmeno nell’elenco di iconografie a lui dedicate e redatto da Cassanelli e Guerriero nel 2004. Posso pensare che, come frequentemente accade, si tratti semplicemente di una rappresentazione esasperatamente simbolica della lotta del santo contro il male, cioè il Demonio che in vita lo tentò, ma i dettagli che rilevo sono troppo specifici per valutare positivamente questa interpretazione. Qui il drago non tenta l’uomo, ma è l’uomo che soggioga il drago. Mi convinco sempre più di trovarmi in presenza di qualcun altro. Una ricerca approfondita mi porta a scoprire un’iconografia che si adatta con significativa precisione al nostro personaggio: il frate, il laccio, il drago. Si tratta di San Bernardo di Mentone, fondatore di diversi ospizi alpini tra i quali il più famoso al Passo del Gran San Bernardo, dove si allevarono per secoli i simpatici cagnoni frequentemente ritratti con il barilotto di liquore al collo, panacea nel salvataggio dei dispersi nelle tormente di neve. Di lui non è facile trovare storie, ma tra le rarità è un testo edito a Parigi nel 1862 e redatto da un non ben identificato canonico del Monastero del Gran San Bernardo; in questo documento si legge proprio: “… l'archidiacre passe ce lien miraculeux au cou d'un dragon …. C'est ainsi qu'on représente saint Bernard, pour désigner qu'il a, nouveau saint Georges, vaincu et enchaîné le dragon de l'Apocalypse.”. Nelle mie raccolte di immagini vi sono diversi riscontri iconografici che lo ritraggono in questa foggia. Non ho più alcun dubbio; è proprio lui. La scoperta mi entusiasma soprattutto perché l’immagine è tutt’altro che usuale, dando credito a quanto leggo nella Biblioteca Sanctorum dove si dice “Rare e non anteriori al sec. XV, sono le raffigurazioni del santo”. Lascio agli studiosi locali il duro compito di scoprire i motivi che hanno condotto San Bernardo da Mentone a Sesto.

 

IL VESTIBOLO E L’ATRIO

Varco la soglia e mi trovo immerso in un’atmosfera di fresca penombra, alla quale la vista non reagisce immediatamente. E’ necessario un breve tempo di adattamento per cui la visione si faccia più nitida e chiara, e vedo qualcosa che mi lascia esterrefatto.

Un insieme di decine di figure, dai vibranti colori, compone un immenso affresco che copre l’intera parete di destra. L’attenzione cade subito sulla zona centrale dove riconosco la raffigurazione dell’incoronazione della Vergine da parte del Salvatore; in tondo cherubini e serafini ed angeli musicanti, nella gioia dell’evento. Tutti i personaggi attorno vi sono rivolti con attenzione. Mi rendo conto che l’affresco è un vero e proprio gioco enigmistico per l’iconografo, una sfida palese, un piacere per la ricerca; conto qualcosa come 100 diverse figure tra femminili e maschili, di sante, santi, ecclesiastici e personaggi biblici. Pochissime di loro sono corredate di una didascalia, e solamente per alcune tra le figure che si trovano nella fila superiore; la composizione mi ricorda le foto di classe che risalgono ai miei tempi di scuola, dove panche di diversa altezza consentivano la ripresa dei volti di tutti, alti o bassi che fossero, con le ragazze in primo piano. Anche in questo caso la prima fila è occupata completamente da raffigurazioni di sante, la seconda da vescovi e papi, per salire poi verso santi e profeti. L’idea mediatica del Paradiso. Credo sin d’ora che un giorno o l’altro riuscirò a trovare il tempo ed il coraggio per dedicare uno studio iconografico completo a costoro; avrò di che divertirmi. Nel frattempo, però, qualche riconoscimento veloce mi è possibile almeno dove gli attributi sono in evidenza. Sant’Agata reca in mano un vassoio con i seni che le sono stati rescissi nel martirio; si narra che fu San Pietro, apparsole nottetempo, a risanarla anche se a poco servì, perché poi venne uccisa rosolandola su un letto di braci. Santa Maria di Magdala, cioè la Maddalena, porta i capelli sciolti ed il vestito sfarzoso, ed offre il vaso d’unguento con il quale avrebbe voluto cospargere il corpo di Gesù morto. Dalla parte opposta dell’affresco Santa Dorotea con un cesto di fiori e frutti che, dopo la morte, un angelo consegnò in suo nome a colui che la schernì sulla via del martirio. In questa zona della parete, San Nicolò di Myra [se320 o] che sopra il Libro porta i tre sacchetti d’oro, dati da lui in dote a tre ragazze di povera famiglia. Primo della fila superiore, San Giovanni Battista veste con pelo di cammello e porta in braccio l’agnello. Tra i personaggi biblici di questa fila, Tobia stringe al petto il pesce catturato sul fiume Tigri; le interiora, su consiglio di un angelo, servirono a cacciare demoni ultraterreni ed a curare malanni umani.

Voglio dedicare un’attenzione particolare a questa singolare immagine; papi e vescovi sono da sempre il mio cruccio, difficilissimo per me identificarli tanto sono simili tra loro e forse per questo mi attraggono ancora di più. Questo personaggio è sicuramente un papa; lo dice il triregno sul capo. Ed è pure un santo; si intravede l’aureola. Nella mano destra tiene una specie di pezzuola oppure un sacchetto. Ma quello che lo distingue dagli altri è il quadretto che sostiene con la mano sinistra; mostra due volti. Non fosse per un puro caso che in ricerche precedenti ho trovato questa immagine, non saprei come cavarmela. Questo unico riscontro iconografico l’ho scoperto visitando, virtualmente via Internet, il museo dei Francescani a Greve in Chianti (cui un giorno o l’altro dedicherò un viaggio reale in visita parenti) dove un’immagine davvero illuminante mostra una piccola finestra con la figura di San Silvestro I papa, un raro oggetto cinquecentesco in vetro dipinto. Il Santo ha in mano lo stesso oggetto con i due volti. Svelato il personaggio, resta da capire di chi siano i due volti. Mi viene in soccorso l’insostituibile Jacopo da Varagine e la sua Legenda Aurea. Si narra che l’imperatore Costantino avesse intenzione di uccidere tremila fanciulli per curare una malattia bagnandosi nel loro sangue; mosso però a pietà dalle implorazioni delle madri, si rassegnò a morire pur di salvare i loro figli. Lascio che l’avvenimento sia descritto nella narrazione originale.

Fece restituire i ragazzi alle loro madri, portando infiniti doni e carriaggi, di modo che le madri, che erano venute piangendo, tornarono a casa piene di gioia. L'imperatore tornò a palazzo. La notte seguente gli apparvero Pietro e Paolo che dissero:
- Poiché hai avuto orrore di versare sangue innocente, il Signore Gesù Cristo ci ha mandati per darti un consiglio su come recuperare la salute. Vai da Silvestro, che sta nascosto sul monte Soratte; ti mostrerà una piscina: quando ti sarai immerso tre volte in essa, guarirai completamente dalla lebbra. Per parte tua restituirai la grazia a Cristo distruggendo i templi degli idoli, restaurando le chiese di Cristo, e diventando infine suo fedele.
Costantino si svegliò e mandò immediatamente dei soldati da Silvestro. Quando li vide arrivare Silvestro pensò di essere stato chiamato alla palma del martirio; perciò si raccomandò a Dio, rin-cuorò i suoi e si presentò senza paura a Costantino. Costantino gli disse:
- Ci rallegriamo di vederti giungere sino a qui.
Silvestro lo salutò a sua volta, e l'imperatore gli narrò il contenuto della sua visione, e gli chiese poi chi potevano essere quei due dei che gli erano apparsi. Silvestro gli spiegò che erano apostoli di Cristo e non dei. Pregato da Costantino Silvestro si fece portare dei ritratti degli apostoli. Non appena l'imperatore li vide esclamò che erano proprio quelli che gli erano apparsi. Silvestro lo fece catecumeno e gli impose di digiunare per una settimana e di aprire le carceri.
(da “Legenda Aurea”, Jacopo da Varazze, Einaudi Editore, Torino, 1995)

Un tributo dovuto.

Se sinora ho vissuto il Paradiso, la parete opposta per contrasto mostra indiscutibilmente come sarebbe l’Inferno. Satanassi variopinti e spaventosi si prodigano per cucinare i dannati nei modi più diversi ed orrendi, bollendoli in enormi pentoloni, abbrustolendoli su graticole roventi, arrostendoli a fuoco lento o sotto una pioggia di faville brucianti. Qui i personaggi sono anonimi, ma forse non lo erano nella mente dell’artista.

Mi rivolgo nuovamente verso il Paradiso per scoprire che l’affresco non ricopre completamente la parete; al termine di sinistra una decorazione dipinta a marmi e colonne incornicia, con tecnica trompe l’oeil, la Vergine in trono con il Bambino benedicente. Entrambi volgono lo sguardo, assieme a San Pietro che si trova sulla destra, verso San Giovanni Battista vestito di pelo di cammello che impugna il bastone dalla lunga croce. Ai piedi di San Pietro è dipinta una piccola figura maschile che sembra nell’atto di offrire qualcosa che però non riesco ad identificare (un agnello?); potrebbe trattarsi del committente dell’opera. Mi è evidente che il soggetto principale cui l’opera si ispira riguarda il Battista, sul quale convergono gli sguardi di tutti gli altri personaggi; lui, in atteggiamento molto naturale, riposando su una gamba, quasi timoroso e riverente alza l’indice della mano destra ad indicare il Divin Fanciullo.

Proseguo nell’atrio e la mia attenzione viene attirata da un affresco che si propone sulla parete di fondo, a destra dell’ingresso nella chiesa. Capisco dai resti delle pitture di cornice che sono rimasti circa i due terzi del quadro originale, ma il soggetto è comunque riconoscibile, anche se non facilmente. Non vi sono rappresentati santi, infatti mancano le aureole sopra il capo dei personaggi; un elemento che peraltro potrebbe anche non esserci. Ma il tema è molto particolare. Sulla sinistra tre personaggi; quello in primo piano è a cavallo ed indica agli altri due una sorta di sarcofago trasparente dove è adagiata una figura; pur nella rovina della pittura intuisco che a fianco di questo vi sono altri due corpi; sullo sfondo, alberi e rocce. E’ un tema medioevale poco conosciuto e che risale ad alcuni scritti d’origine francese dove si racconta dell’incontro di tre nobili e giovani cacciatori con tre cadaveri, situazione che appunto per questo è tradizionalmente conosciuta come “l’incontro tra i tre vivi ed i tre morti”. I sei personaggi, anche i morti, discutono tra di loro ed i vivi si renderanno conto che i morti sono loro stessi oltre la vita; una sola frase per trarne l’insegnamento morale: “vous êtes ce que nous avons été ; vous serez ce que nous sommes”.

Nell’atrio alle pareti sono appesi alcuni estratti d’affresco probabilmente posizionati altrove in origine e qui salvati e custoditi. San Cristoforo si appoggia sul bastone miracolosamente fiorito dopo aver trasportato il Bambino oltre il fiume. La Vergine sorride al Bambino sotto l’occhio attento di San Giovanni Battista che con un “fumetto” indica l’agnus dei e di San Pietro con una verga in mano; una composizione già vista poco distante. Frasche, vasi di fiori e mitologici grifoni come decorazione.

Si sta facendo tardi e mi verrebbe da dire tempus fugit, ma tante sono le cose che mi affascinano e che non mi aspettavo di trovare. Del resto non sono ancora entrato in chiesa, ed è meglio che lo faccia subito se non voglio perdere l’occasione di proseguire nell’esplorazione, pur nella limitazione imposta dal poco tempo ancora a disposizione.

 

L’INTERNO DELLA CHIESA

Entro e quello che vedo è seducente; ogni superficie è affrescata: colonne ed archi, pareti e volte. Tutto quadri e riquadri, medaglioni e decori, tutti dipinti in vivace policromia e simmetrica geometria. Non mi basterebbe un’intera giornata per costruire un inventario fotografico che fosse degno del luogo ed al quale rendesse il giusto merito. Penso ancora alla sintesi di quel pieghevole: una sola riga di indicazione direzionale “A pochi chilometri da Gruaro…”. Ignobile. Farò del mio meglio per por rimedio.

Mi avvicino all’abside principale nel cui semicatino è rappresentato in modo imponente il momento dell’incoronazione della Vergine da parte del Figlio; all’evento assiste una schiera di figure sante i cui titolari mi piacerebbe identificare, non fossi così poco attrezzato. Proseguendo verso il basso trovo due quadri che raffigurano il momento dell’Annunciazione e quello della nascita di Gesù, per proseguire nel livello inferiore con le nicchie dove si trovano personaggi santi.

L’ora tarda, o forse il solito temporale di pomeriggio avanzato, non è più in grado di fornire una luminosità sufficiente al mio occhio, tanto meno a quello elettronico della mia fotocamera. Corro, mi affretto, ma già penso a quando potrò ritornare per fare un lavoro come a me piace. Qui ne vale veramente la pena; sarebbe la doverosa valorizzazione di un’opera d’arte, condotta sui binari della pur semplice diffusione della sua conoscenza.

Ho il tempo per soffermarmi su una parete a destra, dove tra quadri con scene di vita di santi compare una curiosa raffigurazione di un albero. Non è facile incontrare questa immagine che viene denominata “Albero di Jesse” ed in pratica rappresenta la genealogia della natura umana del Cristo. La base formativa del tema viene data da un passo della Bibbia nel libro di Isaia (11) dove si legge che dalla stirpe di Isai, ovvero Jesse, padre di David, nascerà il Messia. In questo affresco riesco a distinguere al centro il Cristo crocefisso e nel punto più alto la colomba dello Spirito Santo; ai lati, al termine di ogni ramificazione, un personaggio biblico che nella penombra del tardo pomeriggio non riesco a riconoscere, malgrado la presenza delle didascalie. Devo assolutamente tornare per documentare nel dettaglio questo raro esempio che, per quanto nelle mie conoscenze, nemmeno gli studi specifici hanno catalogato.

In zona scopro il passaggio dove una scaletta consente l’accesso alla cripta, luogo che sempre suscita speciali emozioni. Scendo e mi trovo in un ambiente particolarmente suggestivo, cui partecipa anche un sapiente sistema di illuminazione. In questo modo l’attenzione del visitatore è condotta al centro dell’ambiente, dove è posta una preziosa opera scultorea di età longobarda, probabilmente realizzata in quel candido marmo pario già materia prima di molte sculture di quell’epoca; a risalto, croci e motivi floreali. Si tratta dell’urna che raccoglie le reliquie di Sant’Anastasia di Sirmio, una martire dei primi secoli del cristianesimo, unica con quel nome ricordata nel Catalogus Sanctorum di De Natalibus. Mi rendo conto che si avvicina l’ora dei Vespri; non voglio dare il benché minimo disturbo alle funzioni religiose e così lascio la cripta con sollecitudine e con estremo rammarico.

Nella chiesa scorgo una figura che siede sulle panche nel presbiterio. Silenziosamente mi incammino verso l’uscita seguendo la navata di destra. Però non posso fare a meno di arrestarmi in prossimità di una parete, nella quale è incastonato un medaglione di bronzo. Durante il mio girovagare per chiese ne ho trovato solamente un altro identico, nella chiesa di San Teodoro a Cantù. Nell’anello esterno si legge OSCULANTIBUS CRUCEM HANC IN ECCLESIAM POSITAM ET RECITANTIBUS PATER INDULGENTIA 200 DIERUM SEMEL IN DIE; all’interno una croce sui cui bracci è iscritto IESUS CHRISTUS DEUS HOMO; nelle quattro sezioni anulari interne si trovano le parole VIVIT REGNAT IMPERAT e la data MCMI. Fu proprio nel 1901 che venne prodotto questo sigillo, poi distribuito a tutte le chiese d’Italia ad opera del fondatore dell’Azione Cattolica in onore all’anno giubilare; chiunque ne baciasse la croce e recitasse un Pater Noster almeno una volta al giorno otterrebbe l’indulgenza per 200 giorni. D’ora in poi non dimenticherò di cercarlo durante le mie visite. Ancor più curioso è peraltro il riquadro che si trova appena sotto; su uno sfondo rosso cupo sono stati incisi numerosi graffiti, composti da semplici graffi nella pittura. L’azione è sicuramente precedente alla posa del medaglione; noto che per riportare alla luce la zona è stato necessario eliminare gli strati di intonaco che l’hanno ricoperta. Anche i simboli che sono incisi destano curiosità; vi vedo predominanti le croci greche talvolta inscritte in un cerchio, ma trovo anche una stella a cinque punte il cui simbolismo, in tale contesto, è quantomeno enigmatico se non inquietante; ricorre in vari punti anche la lettera S maiuscola, tracciata in stile antico. Chissà a quale punto obiettivo di devozione facevano riferimento.

Definitivamente mi allontano verso l’uscita e ritorno nel cortile, proprio mentre odo provenire dalla chiesa la voce polifonica di un coro che intona un canto liturgico. Mi piacerebbe rientrare ed ascoltare nell’avvolgente penombra queste melodie che solo la voce umana riesce a produrre, quando ben preparata. Ma l’ora è tarda e mi attende il viaggio, seppur non lungo, di rientro alla mia temporanea sede di vacanza.

Uno sguardo all’indietro, una promessa di ritorno. Ben attrezzato, naturalmente.

 

 

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Ferruccio C. Ferrazza
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ISSN 2284-3620

Ultimo aggiornamento: 19 aprile 2016