Caorle
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CAORLE

Giovedì, 15 maggio 2008

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“Di là dal fiume e tra gli alberi” (Across the river and into the trees), così Ernest Hemingway nel 1950 titola il suo romanzo autobiografico che racconta di questi luoghi.

Chiedo ad un passante come faccio a raggiungere Caorle, e mi risponde con la stessa frase. Ma quale fiume? Non ha importanza, da qualsiasi parte io mi diriga Caorle è completamente accerchiata da canali e fiumi; un’isola, un forte, in laguna. E’ impossibile raggiungerla senza andare “di là dal fiume”. Navigo a vista.
Seguo un canale che si inoltra nell’abitato, fino a raggiungere il centro del borgo, dove il naviglio si allarga un poco, non tanto da poterlo chiamare porto ma abbastanza da poter ospitare l’approdo delle variopinte barche dei pescatori caorlotti; un’arteria vitale ed il suo cuore pulsante.

Mi soffermo sul fronte del mercato del pesce, che affaccia proprio agli ormeggi. Chi lavora, chi osserva, chi ciacoa. Alla sinistra mi incuriosisce una costruzione in mattoni (saprò in seguito che è la Casa del Pescatore, costruita nel 1923; più recente di quanto sperassi). Nella facciata sono incastonati due bassorilievi. In quello di maggiori dimensioni è riconoscibile il leone di San Marco, simbolo veneziano di immancabile richiamo a chi, per lungo tempo, ebbe giurisdizione sulla zona. In posizione inferiore, quasi nascosto da due inopportuni ed invadenti tendoni parasole, quello più piccolo mi chiede di studiarlo, seppur brevemente.

Vi riconosco lo stemma della città, con San Michele arcangelo che sovrasta il castello con le tre torri, le braccia aperte a proteggerlo. Ad una prima occhiata si può notare come le mani dell’arcangelo sembrino forate; d’acchito penso che probabilmente in origine, rifacendomi ad uno schema iconografico tradizionale, tenesse nella mano sinistra la bilancia, simbolo della giustizia divina, e nella destra la spada, emblema del difensore della fede. Osservando con maggiore attenzione, però, mi sembra che non si tratti di fori, ma più semplicemente di una postura della dita, che sembrano trattenere tra pollice ed indice, il palmo rivolto verso il basso, qualcosa di rettangolare, di solido; le stesse torri sembrano incomplete nelle merlature, e non per deterioramento del tempo. Forse lo scultore ha voluto rappresentare Michele mentre costruisce il fortilizio, ne partecipa alla fondazione, crea un baluardo per la fede? Del resto anche le maniche rimboccate mi inducono a pensare che la figura ricordi più un possente muratore piuttosto che un essere angelico. Mi piace questa visione.

Ci dirigiamo verso il mare, attraversando il nucleo storico, in direzione della cattedrale.

Ci conducono stretti vicoli sui quali si affacciano abitazioni variopinte, con quei toni pastello che emanano un senso di pulito e di fresco.

Suggestivi slarghi mantengono quella denominazione tradizionale di campo [ca030 O], affatto locale, che nelle agricole pianure d’altrove sarebbe intesa ben diversamente.

Talvolta il salmastro testimonia la sua presenza, un monito perenne, violando l’opera dell’uomo che vorrebbe contrastarne l’inesorabile avanzata.

Qualcuno ha abbellito una grigia facciata con un dipinto cui il trascorrere del tempo ha però ucciso i colori originari, rendendoli simili allo sfondo. Il soggetto peraltro suscita la mia attenzione. Come in molteplici casi ormai divenuti argomento di storia, la rappresentazione italiana di un’antica caravella, pressoché ovunque la si trovi, conserva un’anomalia, per così dire, eolica, qui ben riprodotta; sono certo che ognuno di noi ricorda le famose monete d’argento da 500 lire, quella prima emissione presto ritirata ed ora difficile da reperire; ma ancor’oggi è sufficiente avere un amico che fuma quelle sigarette nazionali che si presentano nel brillante pacchetto verde, la caravella stampata in nero, per avere sott’occhio l’evidenza del fenomeno: il vento in poppa per le vele, in contrasto con la direzione della banderuola sull’albero maestro. In questo affresco anche la banderuola posta sul castello di poppa segue la stessa sorte. Mi sembra di rilevare un’altra particolarità di questa composizione. Il sole, alla destra, ha in centro un foro, segnato dalla ruggine. Mi lascia pensare che sia scomparso uno gnomone, e con esso la meridiana cui voleva dar vita; una meridiana dell’ora tarda, però, visto l’orientamento a settentrione della parete.

Riprendiamo il percorso guidati a vista della prospettiva imponente del campanile, di foggia curiosa, quasi più simile ad un minareto che ad una torre campanaria. Nella direzione della piazza della cattedrale ci guida anche il vociare festoso di un nugolo innumerabile di ragazzini che ha preso possesso dei dintorni; più di una volta devo prodigarmi per schivare le esuberanze ciclistiche.che li porta a sfrecciare in libertà per calli e campielli.

Siamo arrivati di fronte alla cattedrale.

 

LA FACCIATA DELLA CATTEDRALE

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Ai lati del portone centrale d’ingresso noto, inseriti in cornici di mattoni bicolori, due bassorilievi, protetti da un vetro che offusca quello che sarebbe un abbacinante candore, in pieno riflesso di sole. Il filtro vitreo dona un tenue colore erbaceo a ciò che in realtà è scolpito, con ogni probabilità, nel bianco marmo che gli antichi Greci ricavavano dalle cave dell’isola di Paro; materia prima di ben più famose e quotate opere scultoree della classicità ellenica. Mi sento di fronte ad un primo contatto con quello spirito bizantino che tuttora aleggia in questi luoghi. La porta d’Italia verso il fascinoso Oriente.

La scultura a sinistra rappresenta un santo ed è di facile identificazione grazie alla didascalia in lettere greche che rivela come l’effige sia quella di San Agatonico. La sua presenza non mi meraviglia, perché pur non essendo un nome tra quelli diffusi, in realtà si tratta di un santo molto venerato nel vicino Oriente; il rito bizantino gli dedica addirittura uno specifico Ufficio, in associazione con altri santi martiri uccisi assieme a lui verso la fine del III secolo, nel contesto della persecuzione ai cristiani voluta dall’imperatore Massimiano.

Marmo ellenico, didascalie in lettere greche, santi di Bisanzio.

A destra, invece, la figura non ha una chiara didascalia, però vedo diversi attributi, particolari che potrebbero consentirne l’identificazione. Questo è il lavoro che mi piace, anzi mi intriga proprio; porta in affioramento il mio spirito di scoperta; e così mi entusiasmo. Lascio la questione in sospeso e mi riprometto di analizzare in un secondo momento il materiale fotografico che rilevo, nel dettaglio, scientificamente. Lo stimolo maggiore ad indagare mi viene dalle indicazioni che mi ha fornito quel pieghevole illustrativo che ho usato come riferimento per la visita; presenta un’interpretazione che mi lascia molto perplesso. I più parlano di San Guglielmo da Tolosa, ma taluni pongono in alternativa San Giorgio. Una situazione ambigua dove, forse, io stesso ho possibilità di movimento. Quantomeno mi divertirò nello studio. Lo vedremo.
(qui si può leggere lo studio in formato .pdf - 2,5 Mb)

Alzo gli occhi sopra il portone centrale e trovo un’architrave con un’iscrizione sottolineata da un motivo floreale; in questo caso non vi sono problemi di leggibilità, eccellente l’incisione, i caratteri usuali alla lingua latina. Vi leggo

VT VICIIS PVRGES MENTEM VIRTUTIBVS ORNES
HANC ADEAS SACRAM PECCATOR SEDVLVS AVLAM

Un invito al peccatore a frequentare assiduamente il luogo sacro per mondarsi da vizi ed acquisire virtù spirituali. Certo che la costruzione della frase è quantomeno curiosa, per quel che di latino ricordo.

 

L’INTERNO DELLA CATTEDRALE

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Entro e scopro una chiesa rinnovata. Non fosse per pilastri in mattoni che si alternano a colonne in marmo, a prima vista non trovo obiettivi per il mio interesse al romanico, scopo delle mie peregrinazioni.

Mi attira però l’abside laterale che chiude in fondo la navata di sinistra, delle tre che delineano la pianta dell’edificio. Nella volta emisferica di copertura emerge un affresco che ha combattuto l’erosione del tempo, verosimilmente bloccata da un’opera di conservazione e, forse, di restauro. Nella parte inferiore è rappresentato uno stuolo di figure incappucciate, in saio bianco, forse disciplini o comunque appartenenti a confraternite similari. Costoro si presentano in posizione implorante verso la figura centrale che li sovrasta e che raffigura la Madonna con il Bambino, della cui pittura poco è rimasto. Ai suoi lati di identiche dimensioni, due figure di santi che non ho modo di riconoscere. In seguito mi renderò conto che anche le fotografie che ho scattato non mi consentiranno l’identificazione. E’ la prima visita, del resto; ho ancora l’impostazione mentale del turista, e non del ricercatore iconografico. O forse sono distratto dal pensiero del soldato nel bassorilievo sul frontale.

Nella navata trovo, sopra un confessionale, un dipinto piuttosto interessante, non tanto per la qualità pittorica, ma piuttosto per la composizione del contesto. Rappresenta la nascita di Maria. Il luogo e la dislocazione dei personaggi mi è noto ed è del tutto simile a quello proposto da un pittore di zona, il veneziano Carpaccio, la cui opera è custodita a Bergamo. Al centro della scena la levatrice che tiene in grembo la neonata e si accinge a lavarla nel bacile di rame; una donna le porge un panno, che servirà ad asciugarla o ad avvolgerla. In posizione arretrata, sulla destra la madre Sant’Anna è adagiata in un letto incassato in una nicchia della parete e protetto da tende; un’amica premurosa le porge una tazza, che tradizione vuole che sia di brodo caldo, per ritemprare le forze perse nel travaglio del parto. Sulla sinistra, in disparte, osserva la scena la figura maschile del padre San Gioacchino. In questo dipinto, in più, diversi angeli e cherubini.

Attraverso la navata centrale e passo direttamente a quella di destra.

Posta sopra un confessionale, raccolgo l’immagine di un dipinto il cui soggetto mi ha frequentemente attirato, racconto di vita e di costume. E’ il momento dell’ultima cena di Gesù con gli apostoli. Tavola imbandita, tovaglia candida, posate lucenti, pani fragranti, frutta fresca offerta da un fanciullo servitore. In primo piano qualche anacronismo stilistico nel tavolinetto e nell’anfora riccamente cesellata, dotata di beccuccio per facilitare la mescita del liquido che potrebbe contenere. Di spalle ed isolato, come in talune versioni iconografiche, posso identificare l’Iscariota; la situazione ricorda un dipinto fiorentino di identico tema ed attribuito al Perugino, con il traditore che sembra tenere nella mano destra, nascondendolo, il sacchetto dei denari frutto dell’inganno. Chissà quale interesse sta richiamando l’attenzione dell’apostolo all’estrema destra del dipinto, che osserva concentrato qualcuno o qualcosa fuori dalla portata della vista di noi osservatori.

Poco oltre, fumetto ante litteram, in una cornice floreale alcune scene della vita di Santa Lucia contornano l’immagine della Santa, riconoscibile per la palma del martirio in congiunzione con il piattino che contiene gli occhi; un attributo, questo, frutto di una leggenda che racconta come se li fosse cavati da sé per non andare sposa a chi l’aveva denunziata come cristiana, rendendola quindi oggetto di persecuzione. Una leggenda entrata tanto a fondo nel sentito popolare da sostenere l’iconografia classica. Sullo sfondo del quadro centrale osservo che gli edifici rappresentati sembrano proprio nella sequenza di costa della città dove mi trovo; a sinistra il campanile circolare con la chiesa ed a destra l’altra chiesa, quella che si trova direttamente sul mare. E’ verosimile che l’artista abbia proprio voluto questo effetto di localizzazione; e con accettabile libertà ha però posto la Santa in un’isola sassosa in mezzo ai flutti. Noto in questo affresco una particolarità che, per quanto mi riguarda, posso dire più unica che rara; non mi risultano raffigurazioni di Santa Lucia con la corona sul capo; è un attributo che talvolta vuole significare una nascita nobiliare, anche se non reale come in Santa Caterina d’Alessandria o in Santa Margherita, oppure che viene riservato alla Madonna. Comincia a risvegliarsi in me quello spirito di osservazione che mi porta ad appassionanti scoperte, anche se poi mi rendo conto di non essere stato né il primo, tantomeno l’unico, a farle. O forse sì?

A fianco, un dipinto con toni cupi e di recente fattura rappresenta un momento della vita monacale di Santa Rita da Cascia, mentre riceve le stimmate sulla fronte dal crocifisso; la si riconosce dal mazzo di rose, dall’abito monacale, dal crocefisso dal quale emana un raggio.

Mi avvio all’uscita, tralasciando molto ma soddisfatto del poco, non prima di aver preso ricordo di un angolo suggestivo, reso tale dalla luce naturale che illumina l’ambiente con soffuso chiarore. Sono opere di recentissima produzione e adornano due nicchie: Sant’Antonio e San Giuseppe. Entrambi reggono il Bambino. Accetto di buon grado la sua benedizione e dopo aver salutato con riverenza l’immancabile ed imponente San Cristoforo, sotto la cui protezione io stesso mi pongo ché sono un pellegrino, esco a ricercare il sole che nel frattempo si è celato dietro un plumbeo velo.

 

Quattro passi nei dintorni.

Svolto a sinistra dove, tra la cattedrale ed il mare, un giardino è segnato al centro da una scultura che ricorda un capitello, probabilmente utilizzato come vera da pozzo. Sullo stesso giardino affaccia un loggiato che protegge alcuni affreschi dove una didascalia riporta al culto di San Rocco; in effetti si tratta di quanto rimasto di un oratorio a lui dedicato. Un vetro li pone al riparo dai vandalismi, ma nel contempo ne impedisce, durante il giorno, una visione completa, offuscata dal riflesso del cielo meridionale a mare. Riesco a rilevare lo scritto, in parte cancellato.

COME S ROC… …TO IN LALEMAGNA AD AQVILEIA
PRESO E MESSO IN PRESON LANGELO DI DIO LI APAR
SE IN FIGVRA

E’ evidente come l’artista non stia parlando del Santo, ma di qualcuno, forse il committente dell’affresco, che “come” il santo viene “messo in preson”; curiosa dizione che mi ricorda le cadenze del locale dialetto.

In lontananza, alla fine della diga che svolge anche funzione di passeggiata a mare, si erge il settecentesco santuario della Madonna dell’Angelo, oggetto di particolare devozione da parte dei pescatori.

Lascio ad altri tempi la visita della chiesa; non rientra nelle costruzioni romaniche che sono il mio interesse attuale.

La mia attenzione adesso è concentrata sull’identificazione del bassorilievo della facciata. Sarà veramente San Guglielmo? Già la mente è attiva; rimugino, elaboro, valuto e mi predispongo ad entrare nel merito della questione. Cammino per le calli con il pensiero altrove. Per ora mi rimane il dubbio, e con questo lascio Caorle non prima di aver soddisfatto quel poco di turista che mi è rimasto: una visita alle vie del commercio, un po’ di folla, una passeggiata lungo il porto, un caffè in pasticceria. Cose venali; una perdita di tempo. Il lavoro mi attende. Ma non ero in vacanza?

 

 

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ISSN 2284-3620

Ultimo aggiornamento: 19 aprile 2016