Concordia
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CONCORDIA SAGITTARIA

Lunedì, 19 maggio 2008

Qualche giorno di tempo incerto non mi ha invogliato ad uscire per esplorazioni impegnative. Per questo ho avuto modo di approfittare a pieno del supporto tecnologico offerto dall’albergo. Fortunatamente ho con me il mio PC portatile, che ipotizzavo di utilizzare per scrivere in santa pace qualche articolo; ora mi è più utile per investigare sui dintorni: navigare il mondo Internet, al mare. In un paio di occasioni, sul mare. I temporali sono stati tanto violenti da allagare i dintorni, bloccando anche il servizio Internet. Ma durante i periodi di attività ho trovato descrizioni di luoghi che potrebbero rivelarsi di notevole interesse. Nel mondo telematico mi muovo agevolmente, così ho facilità nel rilevare le posizioni geografiche dei diversi punti che vorrei visitare; ne inserisco le coordinate nel mio piccolo ma fidato GPS; prendo qualche appunto per costruire una sorta di priorità di visita; più vicini, più interessanti. Tutti raggiungibili in un pomeriggio. La mattina, lascio alla moglie il piacere della spiaggia, sempre che la meteorologia non sia avversa.

Il cielo mostra segni propizi. Scelgo a caso Concordia; conosco la strada per arrivarci; ho notato un cartello indicatore quando siamo andati a Caorle.

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Un fiume, piccole case dipinte in colori pastello che si specchiano nelle acque lente di uno dei tanti fiumi che hanno dato vita alle comunità agricole. Tranquillità. Afa; tutto ciò che nei giorni scorsi è stato intriso di pioggia, cerca di asciugarsi.

 

LA CATTEDRALE

Ho come obiettivo la visita alla cattedrale dedicata a Santo Stefano. Trovo un agevole parcheggio per il mio jeeppino. Ci avviamo verso la vasta piazza che si apre sul fronte della chiesa e, durante il breve percorso, scopro che altri sono gli elementi che fanno di Concordia una città di interesse archeologico. Una mappa, posta in bella vista su un recinto, mi dettaglia l’antica struttura romana con la tipicità dei percorsi ordinati, modulari e perpendicolari tra loro. Oltre il recinto la parte all’aperto del locale museo archeologico lascia scoperti i risultati degli scavi; rivelano la struttura di una basilica paleocristiana a dimostrazione di come il sito sia di antichissima origine e fosse di significativa rilevanza sociale. Non a caso, nei pressi della cattedrale transitava la via Annia, una fra le più importanti arterie commerciali del nord-est, canale di scambi con l’Oriente.

Prima di entrare in chiesa osservo la struttura del campanile, arricchita nella parte superiore da bifore di diversa dimensione e da decorazioni ad archetti sotto la falda del tetto. E’ di tutta evidenza che il campanile non ha subito rimaneggiamenti nel corso della sua vita; gli stessi mattoni che lo compongono sono di colore più maturo rispetto a quelli del resto della chiesa, la cui facciata, soprattutto, è sicuramente opera di un rifacimento recente.

Varco il portale d’ingresso, peraltro un’opera pregevole nella sua modernità.

L’interno della chiesa non mostra elementi sui quali porre la mia attenzione: nessun affresco sulle pareti o sulle volte sopra l’altare; poi un colpo d’occhio, nel frattempo adattato alla scarsa luminosità, sulla parete della navata di sinistra. Un affresco, malridotto dal tempo, mi illustra con tratti di ingenuo dinamismo un paio scene di vita, per quel che rimane di leggibile.

Nel primo quadro, una teoria di figura maschili sfila davanti ad un altare sul quale è posta una piccola statua, un’immagine maschile che regge un ramo di palma, simbolo del martirio. La scena potrebbe svolgersi in una chiesa; colonne e catini d’abside lo confermerebbero. I personaggi sono abbigliati con eleganza, mostrando la loro posizione sociale; tra questi però, al centro, uno di loro è più modesto, porta a tracolla qualcosa di simile ad un tascapane, veste un mantello sopra l’abito, calza un cappello a larghe tese e si appoggia ad un lungo bastone con anelli che forse hanno lo scopo di facilitarne l’impugnatura: probabilmente un pellegrino. Dietro di lui uno storpio avanza con l’ausilio delle stampelle, aiutato nel reggersi da un giovane allampanato che forse è un amico per l’occasione. La scena è completata nella cornice superiore da una scritta su tre righe che verosimilmente descrive l’evento; purtroppo la scrittura mi è praticamente illeggibile, oltre che esser coperta in parte da un quadro (peraltro una pregevole incisione) della Via Crucis. Probabilmente ci troviamo di fronte ad un episodio di devozione per la statua di Santo Stefano, cui la chiesa è dedicata. La presenza del malato farebbe pensare che vi fosse una situazione di culto per grazia ricevuta o addirittura per miracolo avvenuto.

La seconda scena è di lettura ancor più difficoltosa. Al centro vedo una figura inginocchiata in preghiera, le mani giunte, dietro un altare sul quale è deposto, immagino, un cadavere avvolto nel bianco sudario. All’estrema sinistra una figura velata, probabilmente una donna, sembra offrire qualcosa. Null’altro di comprensibile. Noto che curiosamente i volti delle tre figure sono tutti cancellati, come se fossero stati consunti nel tempo dalle carezze delle mani dei devoti, che hanno cercato intercessioni e benedizioni nel tocco salvifico.

Anche sulle pareti della navata di destra trovo poche pitture, ma degne d’attenzione.

I resti, è proprio il caso di dire, di un’Ultima Cena dove i personaggi sono già stati allontanati dal tempo trascorso, impietoso. Rimane la tavola imbandita, calici, fiaschi, coppe, piatti, frutti, pani, fiori. Sulla sinistra spunta una mano che impugna una spada, o forse un coltello. Qui posso essere certo che si tratta della mano di Simon Pietro, la cui armata raffigurazione trova nella Cena molteplici esempi illustri, uno fra tutti il Ghirlandaio che così lo dipinse in diverse occasioni, e con viso truce. Si dice che tale particolarità sia da interpretare come la volontà dell’artista di ricordare l’episodio citato nel Vangelo di Giovanni (18,10) dove si legge: “Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la sfoderò e ferì il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio destro.”. Giusto per rappresentare un tipo un po’ vivace.

All’estrema destra della tavola, di dimensioni ridotte, tre figure imploranti, mani e volti rivolti al cielo; due femminili inginocchiate ed una maschile in piedi. Sembra che siano collocati in posizione tale da non rappresentare una scena a parte, ma piuttosto un’integrazione della Cena. Difficilissima l’interpretazione di chi siano i tre personaggi; certamente una sfida per gli iconografi più preparati; per me, una missione impossibile. La figura femminile di sinistra è velata di bianco; quasi certamente una religiosa. Alla destra, invece, una dama che calza un curioso copricapo, dal quale fuoriescono sulla nuca fluenti capelli castani; il cappellino mi ricorda quelli goliardici, con la visiera dalla lunga punta; su questo sembra vi sia apposto anche un corto piumaggio. Il personaggio al centro veste un abito sacerdotale, o forse di più alto grado, viste le ricche decorazioni che lo profilano. Sul capo uno zucchetto; si seguisse la pratica attuale, essendo di tessuto bianco allora l’immagine sarebbe quella di un papa. Qualche immagine del XIV secolo è già conforme a questo modello. Ma chi può confermarlo con certezza in questo affresco? Peraltro sembrano sorridere, come si divertissero ai miei ingloriosi tentativi di identificazione. Un gioco.

Uno sguardo attorno, quel che rimane di altri affreschi; lacerti, come sono chiamati nel linguaggio degli esperti di cose antiche. Un santo perso nella nebbia, un capitello perso nel tempio.

Mi avvio verso l’uscita. Voglio avere il tempo di visitare anche il battistero che ho scorto sulla destra della cattedrale, nei pressi degli scavi archeologici. Prima di imboccare l’uscita, però, scopro, nascosta da una colonna, un’acquasantiera pregevolmente scolpita; riconosco diverse figure zoomorfe: leoni, delfini, lucertole, anatre, pavoni, cigni, tartarughe e chissà che altro.

 

IL BATTISTERO

Devo aggirare il campanile per trovarlo, un po’ nascosto, un po’ discosto.

E’ una struttura interessante, una chiesa in piccolo. Mi ricorda le minuscole chiese ortodosse che ho incontrato in minuscoli villaggi durante un viaggio attraverso minuscole isole greche. Pianta a croce, portale, cupola, absidi. Qui riconosco lo stile romanico, pieno medioevo; me lo conferma un cartello informativo del Ministero dei Beni Culturali e Ambientali: XI secolo.

L’interno mostra il risultato di un’opera di sapiente restauro conservativo.

Alzo gli occhi alla cupola, e trovo l’impianto più significativo degli affreschi che decorano l’edificio.

Al centro, racchiusi in una cornice allungata, detta mandorla proprio per questa sua conformazione, il benedicente Cristo Pantocratore sul cui capo vola la colomba dello Spirito Santo. Simmetricamente opposta emerge la figura di San Raffaele Arcangelo, riconoscibile dal bastone che impugna nella mano destra e dal globo crociato che regge nella sinistra; una rappresentazione tipicamente bizantina. Ai lati due Serafini, a completare il tondo.

Nell’anello che si trova immediatamente sotto la cupola, in finestrelle occluse che si alternano con altre aperte, sette figure aureolate sono tutte rappresentate con lo sguardo rivolto verso l’ottava che raffigura l’Agnello; il tutto è contornato con piacevole policromia da un decoro che mostra colonne spiralate a sostegno degli archetti. Probabilmente le immagini si riferiscono a profeti, classicamente inserite nelle posizioni più elevate, verso l’Altissimo. L’effetto prodotto dalla luce che entra dalle finestre della volta è notevole, suggestivo ed al contempo efficace.

In quelle parte che, aprendosi, collega le quattro colonne alla cupola trovo la raffigurazione dei quattro evangelisti. Li posso riconoscere dall’attributo che la tradizione collega a loro. Per Matteo un uomo, qui nella versione alata dell’angelo, perché il suo Vangelo si apre con la presentazione della genealogia dell’uomo Gesù; per Marco un leone, perché è Giovanni Battista, il Leone del deserto, che è interprete dei primi passi del suo Vangelo; per Giovanni un’aquila, quasi cancellata nel dipinto ma della quale spunta la zampa artigliata, a significare la sua acuta e profonda capacità di osservazione per lo cose divine; per Luca un bue, irriconoscibile nel dipinto se non per la parte rimasta della testa dell’animale, perché il suo testo inizia raccontando di un sacrificio. Curioso il fatto che in questi affreschi anche l’attributo sia coronato dall’aureola.

Tutt’intorno altri affreschi decorano le pareti, i pilastri e gli archi.

Nessuno avrebbe alcun problema a riconoscere San Giorgio, come di regola con tanto di principessa che lo osserva mentre soggioga il drago; qui è in sella ad un bellissimo e curioso cavallo bianco a macchie nere, che l’artista ha voluto rappresentare nel suo sesso maschile senza che vi potesse essere alcun dubbio in merito.

Più difficile riconoscere Maria di Magdala in una rara raffigurazione che la vede in vesti monacali. Mi aiuta una didascalia, ed anche quel qualcosa che lei sembra reggere tra le mani, forse il suo attributo, cioè il contenitore dell’olio profumato con il quale unse i piedi a Gesù.

Sul pilastro a destra del fonte battesimale, una figura calza la mitria e porta un libro ed il bastone pastorale. In questi casi non sono proprio in grado di distinguere. Un papa? Un vescovo? Sicuramente un santo, visto che sul capo sfoggia l’aureola. Forse un Dottore della Chiesa, visto che mostra il Libro. Di fronte a lui, una figura simile, ancor meno riconoscibile.

Più facile il riconoscimento del patriarca Abramo intento a sacrificare il proprio primogenito Isacco; dall’alto una mano scende ad interrompere il gesto omicida. Il dipinto ha perso quella parte che verosimilmente mostrava la mano armata di coltello. Mi incuriosisce come la mano sinistra trattenga il figlio: per la collottola; mi ricorda come si sollevano gatti e conigli, per impedire loro di graffiare. Forse anche Isacco non era poi così accondiscendente come si potrebbe pensare dalla lettura della Bibbia.

Nella parete di fronte trovo la raffigurazione di un personaggio che frequentemente viene accoppiato con Abramo. Si tratta di Melchisedec, re di Gerusalemme, nell’atto sacerdotale di offrire a Dio il calice del vino ed il pane. Un gesto sacrificale di significato eucaristico che la narrazione collega al ringraziamento verso Abramo per la sua vittoria sui nemici del re. Gli episodi che raccontano questo evento sono riportati nella Bibbia nel primo libro della Genesi. Non è comunque facile trovare affreschi che li illustrino, il che rende ancor più interessante questa esplorazione.

Mi pongo tra quest’ultime due immagini e, alzando gli occhi, trovo il catino dell’abside dove la corruzione del tempo non lascia intatti che pochi frammenti del dipinto originario. Ali di angeli, mani che tengono steso un ampio lenzuolo, un volto con aureola, un piede calzato di sandalo, una veste tessuta di pelo, un braccio steso sul capo di una figura ignuda immersa in un fiume. Ne deduco che sia la rappresentazione del battesimo di Gesù. Sulla sinistra Giovanni Battista, sulla destra il Cristo; forse nella parte superiore sono scomparsi quegli elementi che completavano la scena, come vorrebbe l’iconografia classica: la colomba dello Spirito Santo e Dio stesso; una tra le più diffuse rappresentazioni della Santissima Trinità.

(Da L’ARTE NEL MEDIOEVO vol. I, pag. 79, collana Conosci L’Italia, TCI, Milano 1964)
Questi affreschi ci appaiono legati a quelli del sacello di Summaga, dai quali certamente derivano, ma con diverse accentuazioni: un maggior linearismo, quasi di carattere grafico, evidente, per esempio, nel panneggio del S. Pietro e l'adeguamento a una sorta di espressionismo appena accennato e attenuato dalla scelta dei colori chiari, quale si può rilevare nel volto del S. Paolo, definito da linee sommarie e incisive, inducono a pensare non solo a una datazione più tarda rispetto alle pitture di Summaga, ma anche a influssi di origine occidentale per i quali è stato già accennato a qualche rapporto con le pitture di Lambach, presso Linz. Questo non ci meraviglia se pensiamo all'estensione geografica entro cui si diffonde il gusto pittorico testimoniato dagli affreschi di Concordia: stile impregnato di un generico bizantinismo, soprattutto provinciale, accompagnato da una certa rudezza compositiva di carattere occidentale, che probabilmente discende fino al Veneto attraverso l'Alto Adige.

Summaga non è distante. Meglio considerarlo nell’agenda delle visite. Anzi, meglio approfittare della clemenza del tempo; ci vado subito.

Esco dal Battistero con l’entusiasmo dell’esploratore e con il rammarico dello scienziato, per non aver potuto preparare a dovere questa visita. Ma la bellezza della scoperta supera ogni altro sentimento negativo. Un motivo in più per ritornare.

Proprio di fronte al Battistero, verso il fiume, trovo un curioso edificio; una sorta di puzzle di reperti archeologici. Peraltro, incastonato nella facciata, illuminato da un brillante quanto raro momento di sole, un medaglione marmoreo mi incuriosisce. Tiene in mano un teschio e lo osserva, sembra quasi che ci parli: il principe Amleto? Essere o non essere, questo il dilemma.

 

 

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ISSN 2284-3620

Ultimo aggiornamento: 19 aprile 2016