Uboldo: Santa Maria del Soccorso

testo e foto di Ferruccio C. Ferrazza

(visita effettuata nel febbraio 2007)

 

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La strada che da Gerenzano conduce ad Uboldo attraversa quella zona agricola che, nel ridosso occidentale della città di Saronno, si mescola in un contrastato connubio con gli insediamenti industriali.

Per questo motivo è un percorso molto frequentato da chi, come me, cerca nel lavoro di raggiungere la metropoli evitando quei punti di incrocio veicolare che rallentano la vita operosa del pendolarismo produttivo: si scorre veloci e disattenti ai luoghi.

I particolari di contorno si perdono nell’abbaglio della destinazione finale, nella tirannia del tempo che corre, nel pensiero altrove.

E’ però sufficiente che, per casualità, un giorno l’obiettivo si dissolva perché il tempo rallenti, l’orizzonte si allarghi ed il pensiero ritorni umano.

Il cliente con il quale avevo un appuntamento mi chiama mentre sono già in viaggio (in questo caso, un sentito ringraziamento a chi ha inventato il telefonino), il pomeriggio avanzato non mi consente alcuna revisione degli impegni, mi trovo libero di vagare a mio piacimento, e così osservo ed annoto, curioso l’orizzonte alla scoperta di nuove idee d’esplorazione. L’attività che preferisco.

Inverto il percorso ed esco da Uboldo dirigendomi verso Gerenzano, con turistica calma.

Prima di affrontare il ponte sulla ferrovia, scorgo sulla sinistra un basso campanile che emerge da un edificio di stile rurale, apparentemente una classica cascina, come tante se ne trovano nella Val Padana, una volta nuclei indipendenti della vita di campagna. Mi piacciono questi agglomerati: un’aia, le abitazioni dei contadini che la racchiudono, talvolta una piccola chiesa spoglia e disadorna.

Ho tempo per indagare. Vengo stimolato anche dall’aver notato, quel giorno per la prima volta, lungo la strada un cartello indicatore, di quelli a sfondo marrone che segnalano la presenza di siti culturalmente e storicamente interessanti: Santa Maria del Soccorso. Si parla di affreschi e di medioevo; il mio pane.

Mi addentro per un viottolo sterrato, peraltro in ottime condizioni di fondo, che mi porta nelle vicinanze del luogo che ho intravisto tra gli alberi, dalla strada provinciale.

Osservando da vicino la struttura, mi rendo conto che deve racchiudere qualcosa di sicuro interesse per le mie esplorazioni, non foss’altro per quel magnifico camino aggettato, in mattoni, che si staglia sulla parete esterna e che prospetta la visione di rustiche sale medievali.
Ancor più interessante la parte che ospita il piccolo campanile che ha innescato la mia curiosità.

Quel giorno però non ho né l’abbigliamento (maglione, jeans e scarponcini)) né gli strumenti dell’esploratore (macchina fotografica, cavalletto e GPS); sono in abito da professionista nella forma visita-a-cliente. Devo prepararmi e ritornare.

E così è stato, fortunatamente.

 

 

Parto con un amico che frequentemente mi accompagna nelle esplorazioni a sfondo culturale, lui attento alle cose di pensiero, io a quelle di scienza.

Raggiungiamo in breve tempo il luogo; si trova a non molta distanza dalle nostre rispettive residenze.

Parcheggiamo all’esterno della cascina e veniamo accolti dal festoso (furioso, forse) abbaiare di un piccolo cagnolotto nero, che probabilmente vede in noi compromessa la proprietà del suo territorio.

L’ingresso della chiesa è sulla sinistra dell’accesso a quella che consideriamo l’aia della cascina. Il frontale non lascia trapelare nulla circa il contenuto, tantomeno sul suo valore artistico. Una lapide posta sopra il portale conferma la dedicazione alla Vergine Maria, Ausiliatrice; vi si legge
AUXILIUM CRISTIANORUM
ORA PRO NOBIS

Per quanto riguarda l’epoca di costruzione, in uno scritto della Dott.ssa Anna Prizzi Zaffaroni, inserito in un opuscolo edito nel 1987 dalla Biblioteca di Uboldo, si legge:

Nella relazione del 1566 in seguito alla visita pastorale di San Carlo Borromeo si legge che la chiesa o cappella campestre di S. Maria, una volta, era detta del “Buzaratto” e da solo circa 30 anni, quindi dal 1530 circa, veniva invece chiamata del Soccorso. Al tempo di un certo frate, Gerolamo De Gardi, dell'ordine eremitano dei conventuali di S. Agostino, nei primi anni del 1500, la chiesa era considerata di grande devozione dagli abitanti non solo del luogo, ma anche dei paesi circonvicini.

Anche la costruzione della chiesa con tutta probabilità risale agli inizi del 1500. Ciò è confermato e da un'analisi stilistica e da una relazione in seguito alla visita pastorale del 1583 in cui si dice che la chiesa è nuova da circa 60 anni, edificata per opera di un certo frate.

Oggi la chiesa è di proprietà privata e non aperta al pubblico ed ai riti.

La nostra presenza (“per non parlar del cane”, rubando il titolo ad una nota opera letteraria di Jerome Klapka Jerome) attira gli abitanti della cascina, che si rivelano anche i proprietari della chiesa. Ed è grazie alla loro cortesia, gentilezza e dedizione che mi trovo a poter raccontare ed illustrare un piccolo gioiello d’arte lombarda, tanto interessante quanto dimenticato.

Una volta aperto il portale d’ingresso, l’occhio viene immediatamente attratto da un affresco che ricopre completamente la parte posteriore dell’abside, vivo nei colori grazie ad un accurato restauro risalente al 1994 e voluto dalla Sovrintendenza.

 

L’affresco.

I particolari che compongono le immagini sono rappresentativi di un’iconografia classica dei personaggi raffigurati, completi in ognuna delle caratteristiche distintive.

Partiamo dalla sinistra.

San Cristoforo porta sulle spalle quel bambino che poi si rivelerà essere Gesù e che farà fiorire il bastone da traghettatore. Gustoso il fatto che il Bambino si tenga saldo con la mano stretta attorno al ciuffo di capelli del santo.

San Rocco indica la ferita alla coscia, prodotta dal morso di un cane idrofobo, ma che miracolosamente non generò il male. La ferita è ben riprodotta con il rossore ed i due punti di entrata dei denti canini dell’animale.

Tra i due, una figura biancovestita; verosimilmente colui che commissionò l’opera, il signorotto locale nobile Crivelli.

Al centro, la Madonna in trono allatta il Bambino.

San Sebastiano al supplizio, trafitto da innumerevoli frecce, è il più facile da riconoscere anche per chi non ha dimestichezza con santi e beati.

Sant’Antonio abate è dotato del campanellino con il quale fugava i demòni che lo tentavano. Curioso è però l’accostamento non con il maiale, con il cui grasso si lenivano i dolori dell’herpes zooster (detto appunto Fuoco di Sant’Antonio) come consolidato nell’iconografia classica, ma con il cinghiale, la cui immagine compare dietro il santo. Questo tipo di accostamento risale alle prime rappresentazioni del santo, quando ai primordi si inserivano su tradizioni precristiane legate al dio Lug, adorato dai celti Grandi Cinghiali Bianchi, presente nelle saghe irlandesi e galliche.

Di difficile interpretazione la presenza di un castello, sullo sfondo brumoso. Osservando attentamente sembra di intravedere, sugli spalti, travi che potrebbero rappresentare argani e gru, indicando quindi che l’edificio si trova in costruzione. Per quanto motivo ritengo che sia improbabile che si tratti di una pura rappresentazione estetica di fantasia, come viceversa avviene per molte opere medioevali di simile struttura. Peraltro non vi sono elementi di conforto per l’identificazione del luogo raffigurato; si può solo valutare in termini oggettivi che si tratta di una Rocca, posta su uno sperone roccioso. Una connessione mentale, se pur labile ed incerta, mi porta alla Rocca d’Angera, dove proprio San Rocco andò a morire, ignoto ed incarcerato.

Nel complesso, personaggi sacri a protezione di animali, pestilenze ed alluvioni; il bisogno del rurale.

 

L’autore

Resta da capire chi sia effettivamente l’autore dell’opera. Alla base dell’affresco una scritta non solve il mistero, che tuttora è oggetto di discussioni e di studi.

Un intervento della Prof.ssa Stella Poerio nel giugno del 1987 riporta:

L'abside della chiesetta è decorata ad affresco, sicuramente datato 1507 e firmato BERNARDINUS DE ... VAGIS (data e firma consentirebbero di attribuire il dipinto a Bernardino Luini; parrebbe, anzi, che questa sia un'opera prima o una delle prime).

Nello stesso anno, in una relazione della Dott.ssa Binaghi per la Sovrintendenza si legge:

L'affresco di Uboldo, in realtà di qualità un po' troppo fragile per essere attribuito al Luini, risulta identico, per schemi compositivi e stile, ad una Madonna col Bambino a Monasterolo di Inzago, attribuito, senza molto fondamento, al Maestro della Pala Sforzesca. L'autore delle due opere, BERNARDINUS de ...vagis, potrebbe essere identificato con Bernardino da Caravaggio (Bernardinus de Caravagis, di cui solo si sa che era a Roma nel 1522).

Un’ulteriore interpretazione è data nel recente con l’attribuzione a Bernardino de Quagis , cosicché la parte non visibile dello scritto sarebbe quindi occupata dalla sola lettera Q, valutazione tecnicamente possibile per dimensioni.

Il dilemma “Luini o non Luini” è tuttora in discussione.

Una piccola nota aggiuntiva alla parte della “firma”. Da notare come il nome di Cristo sia indicato YESU, con la ipsilon greca. Questa forma di scrittura era effettivamente diffusa in quei secoli medievali.

 

La volta

Anche l’affresco della volta sopra l’altare mostra qualcosa di curioso.

In un testo di Fabiola Colombo e Annamaria Zaffaroni ("Nel buio dei secoli uboldesi", Saronno, 2004) si legge che si tratta di “affresco di Dio Padre circondato da raggi”.
La figura in effetti lo farebbe pensare, soprattutto la canizie dei lunghi capelli e della barba.

E’ mia opinione che si avvicini maggiormente alla raffigurazione del Cristo Pantocratore, tipica dell’iconografia di tradizione orientale, che in questo caso si sviluppa con una curiosa differenza.

Tradizionalmente i simboli di riconoscimento sono costituiti dal mezzobusto, dalla mano benedicente, dal nimbo attorno al capo, dalla tunica rossa, dal manto blu, ed in questi elementi si trova corrispondenza nel dipinto.

E’ altrettanto tradizionale, però, che nella mano sinistra regga il Vangelo, oppure un rotolo.

Nel nostro caso, invece, regge il globo terrestre tripartito; una classica raffigurazione dell’ecumene medioevale (mappamondo a T), in cui tre settori rappresentano le divisioni del mondo all’epoca conosciuto in Europa, Africa ed Asia, rispettivamente assegnate ai figli di Mosè, Cam, Jafet e Sem.

Un’interessante variante.

 

L’interno.

Ci allontaniamo dall’abside, la cui zona è divisa dal resto della chiesa da una balaustra in marmo policromo.

Non appena distogliamo lo sguardo da queste pregevoli testimonianze storiche dell’arte medioevale dell’affresco, ci rendiamo conto che l’interno della chiesa presenta elementi di preoccupante attenzione, e non sempre dovuti agli eventi naturali, infatti le colonne sulle quali erano appesi gli ex-voto dei fedeli sono state depredate sino ad altezza d’uomo (guarda caso) da delinquenti sacrileghi.

E’ evidente anche un forte degrado delle pareti, principalmente dovuto all’umidità, che un intervento tecnico nel 1995 ha tentato di arrestare, con dubbi risultati; l’intonaco che si scrosta lascia intravedere, in diversi punti, la presenza di altri affreschi coperti da grossolane imbiancature; in assenza di un intervento tempestivo ed autorevole il rischio di perdita totale è più che elevato; la stessa struttura è in pericolo di collasso.

Rivolgendoci verso il portone, notiamo due scritte dipinte sulla parete d’ingresso, l’una in latino sulla sinistra, ben leggibile, l’altra in italiano sulla destra, ma della quale rimangono solamente pochi frammenti. Entrambe sembrano riferirsi ad interventi di risanamento avvenuti nel 1743 e nel 187… (in originale, MDCCCLXX…).

Lasciamo la chiesa uscendo dal portone, e ci accorgiamo che il pavimento si trova ad un livello inferiore rispetto a quello esterno; un paio di gradini ci consentono di salire. Questo abbassamento è stato la causa di diversi allagamenti subiti dalla chiesa in particolare, e dalla zona in generale, dovuti allo straripamento del vicino torrente Bozzentino, tanto piccolo da non essere nemmeno segnato sulle mappe, ma tanto vivacemente dannoso quando entra in piena.

 

La cascina.

Con l’indispensabile autorizzazione dei cordialissimi padroni di casa, dei quali siamo inattesi ospiti, entriamo nell’aia, dalla quale si ha una diversa ed interessante prospettiva sia sulla torre campanaria sia sull’edificio collegato.

Quest’ultimo presenta una struttura abitativa suddivisa in piccole stanze, tra di loro non comunicanti se non tramite un ballatoio esterno.

Scale di pietra e di legno salgono e scendono, senza un vero piano strutturale.

Salendo una di queste scale, in legno tarlato dal tempo (con qualche rischio, ma, tant’è, siamo esploratori; ho mandato avanti l’amico) raggiungiamo una stanza posta proprio sotto la cella campanaria.

Nella parete di fronte all’ingresso si incunea un’ancòna, certamente destinata a contenere una sacra effige per la devozione del residente. Sulla destra un curioso affresco finge una rastrelliera, con tanto di fucile ben riposto, pistola e sciabola. Ancor più interessante una piccola feritoia, dalla quale si può osservare l’interno della chiesa. Non fosse per l’affresco, sarebbe da pensare che la stanza fosse in realtà una sorta di cella per la vita monacale. Del resto in un dattiloscritto redatto da Gujamaria Ghisu nel 1969 sulla scorta della raccolta di manoscritti dello storico locale Giovanni Perrone, si legge, in relazione alla chiesa:

In ogni modo si hanno scritture autentiche del 1300. Appartenne agli Agostiniani, che ebbero qui convento (del quale a stento oggi si può vedersene qualche traccia) abbandonato nel 1517…

 

Le considerazioni.

Lasciamo il luogo verso il tramonto, completamente soddisfatti della nostra esplorazione ed io già preordinando le idee per la scrittura di queste note.

Però qualcosa di amaro ci è rimasto dentro, e ci disturba in questo momento di sazietà culturale.

Come in altri casi, in questo con maggior evidenza, forse, l’importanza storica, architettonica, artistica ed ambientale del luogo innesca l’intervento degli enti preposti alla salvaguardia dei beni culturali, definendo quei vincoli operativi che dovrebbero favorire le azioni di restauro ai valori d’origine. In questo modo si impedisce che l’intervento inesperto del singolo possa distruggere senza possibilità di recupero un bene di tutti. Ma contemporaneamente le istituzioni stesse non hanno mezzi economici per intervenire espertamente. Gli uni non hanno la necessaria esperienza, gli altri non hanno i necessari denari. I francesi lo chiamerebbero “cul de sac”, un vicolo cieco.

Il risultato? L’inevitabile procedere del degrado con conseguente cancellazione della memoria concreta. Nella speranza che possa rimanere quella astratta degli uomini, per quel che vale, seppur unica.

 

Ringraziamenti.

Ritengo un piacere, oltre che un dovere, ringraziare coloro che mi hanno aperto le porte, letteralmente, sui luoghi che ho voluto raccontare e che hanno dedicato parte del loro tempo di lavoro al mio piacere d’esploratore.

Per chi avesse intenzione di approfondire l’argomento, nulla di meglio che visitare la Biblioteca Comunale di Uboldo, dove un attento bibliotecario è riuscito a mettermi a disposizione documenti tradizionali e non, che molto mi hanno dato per la redazione del testo.

Ed infine, un ringraziamento particolare all’amico che mi ha accompagnato in questa avventura, condividendo con me sia il piacere della scoperta sia il dolore delle considerazioni finali.

 

 Nota per gli esploratori dotati di GPS

coordinate UTM 32T x=499685 y=5052633 su WGS84

 

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ISSN 2284-3620

Ultimo aggiornamento: 19 aprile 2016