Bormio:
l'antica chiesa del Santo Spirito
testo e foto di Ferruccio C. Ferrazza
(visita effettuata nell'agosto 2009)
Via Roma, d'agosto.
Un budello, infernale come un girone dantesco, dove senza fine né scopo
si muovono i dannati della vacanza. Un flusso continuo di spiriti travagliati che
percorrono la "vasca", scontrandosi con altri come loro che procedono in senso
contrario.
Non guardano, forse perché l'obiettivo è passivamente l'esser
guardati.
Non vedono quanto di antico, di storico, a volte di artistico, affianca
i loro passi, memorie dei trascorsi di paese ben più importanti del semplice passeggio.
Come tutti coloro che sono oppressi da vincoli lavorativi o familiari,
io stesso mi trovo tra questi. Ma cerco di sfuggire l'imposto, alla ricerca egoistica di
qualcosa che sia il mio modo di ritemprare il corpo e nel contempo di sopire la continua
sete di ricerca per quelle cose la cui natura meravigliosa, quantomeno per me, potrò poi
condividere con altri.
Ecco allora che mi trovo sempre e comunque ad osservare con attenzione,
a cercare di identificare le eventuali differenze tra il passato che ricordo ed il
presente che vedo.
Via Roma, all'inizio, per chi proviene dalla valle.
Sulla sinistra, un edificio si distacca dall'architettura di quanto lo
attornia: mura grezze di pietra antica, un solo piano, un ampio portone di legno,
paracarri di sasso agli angoli ed all'ingresso. La prima volta che lo vidi ebbi una
sensazione forte, quasi una certezza, che si trattasse di una stalla, d'epoca certamente,
ma come tante se ne trovano nei paesi d'intorno.
Ora il portone spalancato è però quel particolare segnale d'attenzione
che risveglia il mio esploratore nascosto, e mi attira come una calamita, quasi senza che
ne abbia coscienza, attivato da qualcosa di indefinibile che pone in contrasto quel che
vedo con l'immagine del luogo che un ventennio di passeggi mi hanno impresso nella mente.
Mi ero già affacciato a quel portone, tanti anni fa, ed a quel tempo avevo consegnato
alla memoria un disinteresse mai più cancellato.
In realtà sono a conoscenza di cosa sia quell'edificio, o meglio, di
cosa sia stato. Un ambiente per la preghiera dei fedeli, un luogo di culto tra i più
antichi tra quelli in zona, una chiesetta, insomma. Ma di quelle perse, trasformate
dall'operosità dell'uomo in ambienti di lavoro o di semplice vita casalinga. Come questa,
appunto.
Via qua itur inter ecclesiam Sancti Spiritus et hedifficia ipsius
ecclesie
Così nel Liber Stratarum, l'antico inventario delle vie di
Bormio.
La casa del Santo Spirito, ché chiesa non possiamo più chiamarla.
I pregevoli testi di storia locale poco ne parlano. Ma il mio ricordo su
quell'ambiente è coerente con quanto ne scrisse un illustre personaggio qual'era
Francesco Malaguzzi Valeri alla fine dell'800, così come lo riporta il Tazzoli in un suo
scritto: «Buchi nel muro, chiodi, arpioni in essi conficcati, ragnatele, calcinacci e
lordure di ogni genere deturpano l'interno dell'edificio specie nei suoi numerosissimi
affreschi». Ed inoltre impalcature, tramezzi e travi che la ridussero a magazzino per
finire in abitazione soppalcata, a nascondere le opere di artisti tanto validi quanto
sconosciuti.
La sensazione che oggi vi sia un che di diverso mi induce a varcare la
soglia di quel portone, a passo incerto, con il reverente timore di violare qualcosa di
privato e, come tale, non disponibile alla vista altrui.
Basta una fugace occhiata per capire che l'ambiente è mutato radicalmente,
ed ora è uno sfolgorio di colori, di forme, di personaggi che emergono dal più lontano
passato dell'edificio, rinnovandone il sacro valore originario; i buchi nel muro sono
stati otturati, i chiodi e gli arpioni divelti, i calcinacci e le lordure allontanati,
eliminati i tramezzi e segate
le travi, infinite le
cicatrici sui numerosissimi affreschi [060o], talvolta insanabili ferite. Un lavoro
di restauro portato a termine con un obiettivo che avrebbe gettato chiunque nel più
profondo sconforto al momento della valutazione iniziale, e per questo ancor più
apprezzabile.
Grazie alla tenacia di chi ha perseguito tale ardua impresa ora la casa
ridiventa chiesa, quantomeno per l'occhio del visitatore, e torna nuovamente leggibile a
chiunque piaccia farlo.
E come non iniziare con la visione precisa e perfetta che nel 1881 ne
dà Tomaso Valenti nei suoi "schizzi archeologici"; parole che potrei far mie
senza modifica alcuna: «Nelle pareti all'intorno si addossano e si succedono, senza
ordine e simmetria, dipinti del trecento in avanti di ogni maniera, di ogni stile, posti
là a casaccio come dettava la bizzaria e la capacità dell'artista».
Proprio così, ed inoltre talvolta illeggibili ma per la maggior
parte ben comprensibili.
Di fronte a me, una Madonna diafana e
misericordiosa lascia che gli angeli aprano il suo manto a protezione di uno stuolo di
figure incappucciate di bianco, i Disciplini, guide terrene verso la "buona
morte".
A sinistra
San Giovanni Battista indica il piccolo agnello, agnus dei, che sorregge su una
tavoletta, o forse il Libro. Lo osserva con attenzione Santa Marta, dipinta con in mano il
tradizionale aspersorio che qui effettivamente ricorda più un piumino da spolvero, come
è stato interpretato da un occasionale visitatore che ho redarguito prontamente;
esaminando con attenzione scopro una curiosità e cioè che la sua mano sinistra, quella
che regge la situla, il secchiello per l'acqua benedetta, è rappresentata come
una mano destra, per giunta e necessariamente ruotata in modo innaturale; i filatelici la
definirebbero "rarità", una sorta di "Gronchi rosa" dell'iconografia.
Per oggi l'esploratore ha avuto la sua soddisfazione con una scoperta ben riposta e
custodita nell'inventario della giornata.
Dalla parte opposta completano il quadro due figure abbigliate in
ricchi abiti broccati. Qui mi trovo in un completo e terribile dilemma; l'immagine non
conduce con chiarezza ad un riconoscimento sicuro. Reggere in mano le frecce è tipico di
Sant'Orsola, e so che molti suggeriscono questa scelta, ma lo è anche di Santa Cristina
di Bolsena, entrambe martiri dei primi secoli e con una storia simile; però è Cristina
che poi divenne protettrice dei mugnai; mi piace pensare, quindi, che forse non a caso è
qui raffigurata, proprio per la presenza in Bormio medievale di diversi mulini la cui
energia motrice si sviluppava a pochi metri da questa chiesa, con la condotta idrica dell'agualar.
Chiamo i testimoni e ricorro alle storie ufficiali, quelle raccolte da Jacopo da Varagine
e raccontate con dovizia di particolari nel suo ponderoso tomo duecentesco Legenda
Aurea; descrivendo la morte delle due "candidate" per Sant'Orsola racconta
che il capo degli Unni "le scagliò contro una freccia, che la trapassò
uccidendola" mentre per Santa Cristina dice che il giudice Giuliano "le scagliò
contro due frecce vicine al cuore e una al fianco". L'immagine che vedo ha tre frecce
in mano. Ecco il piacere dell'iconografo: martoriarsi eternamente nel dubbio in una sorta
di masochismo culturale. E per aggiunta è oltremodo impossibile per me riconoscere
l'altra figura che sta a fianco, maschile; forse sopra la picca portava uno stendardo che
lo identificava. So già che è un cruccio che mi porterò nel tempo, come un caso
irrisolto, cold case viene chiamato nei telefilm polizieschi; un giorno troverò
la soluzione. E purtroppo non è nemmeno l'unico sul quale non
riesco ad esprimermi con quella certezza che mi porterebbe conforto. Lascio.
Alzo un poco lo sguardo e mi trovo di fronte ad un affresco in
"cinemascope", anamorfizzato direbbero i tecnici della ripresa
cinematografica, le immagini come compresse dal peso generato dallo spazio ristretto, dal
virtuale basso soffitto del riquadro. Al centro si rappresenta una scena cruenta e feroce; quel
poveraccio di San Bartolomeo è assalito da truci figuri armati di coltello che hanno già
iniziato a scorticarlo mentre uno di essi lo tiene ben fermo alla mercé dei compagni;
costoro, coltello tra i denti, sfilano braccia e gambe dalla pelle adeguatamente incisa
con la sapiente maestria di chi pratica l'arte del beccaio. A fianco riguadagna la scena,
fortunatamente, la tenerezza della Madre e del Bambino onorati da Santa Caterina
d'Alessandria, che si trascina al seguito la ruota uncinata con la quale cercarono di
eliminarla, senza peraltro riuscirvi.
Le storie dei santi sono costellate di orrori, e ben presto ne trovo
un'altra testimonianza nella figura del Beato Simonino da Trento,
ucciso all'età di due anni nel 1475 (quindi l'immagine è di certo posteriore); una
brutta storia di sacrifici rituali che all'epoca scatenò uno scontro tra religioni, il
tutto certificato da atti processuali; fatto sta che il povero Simonino è ora costretto
nelle immagini a mostrarsi con al collo un foulard che non denota alcuna
ricercata eleganza, ma ricorda invece il mezzo con il quale fu assassinato: uno
strangolamento. Trovo peraltro curiosa la scelta dell'artista nel coronare il volto con il
nimbo cruciforme, classicamente riservato al Salvatore; forse un voluto segno di quella
particolare devozione che rapidamente si diffuse in Valle al seguito dell'evento, portato
di voce in voce attraverso i monti.
Mi volto all'indietro e sulla parete di fronte, quella dove si apre il
portone d'ingresso, trovo il compimento dell'atroce martirio di San Bartolomeo,
ormai completamente scorticato, che nella raffigurazione sembra peraltro sereno ed in
piena forma, con la sua pelle delicatamente afflosciata sulla spalla; chissà se anche in
questo caso, come fece Michelangelo nella Cappella Sistina, il volto ritratto nella pelle
è proprio quello dell'artista: più che una firma autografa, un'impronta, un vero e
proprio marchio.
Non molto rimane su questa zona. Dalle ingiurie del tempo affiora San Giovanni Battista,
che mi osserva e come sempre indica l'agnello, e Sant'Apollonia, le cui modalità di
tortura sono oggetto tuttora di incubi per tutti noi: con una poderosa pinza, qui ben
raffigurata, le strapparono tutti i denti. Non a caso è stata eletta a patrona dei
dentisti. Mi domando perché non lo sia, invece, di coloro che soffrono il mal di denti.
Come non ritenere questo momento opportuno per ricorrere ad un'invocazione appropriata:
"Che Dio ce ne scampi e liberi!".
Da dove mi trovo si riconosce la struttura dell'antica chiesa, nella conca dell'abside, quella che
normalmente raccoglie le illustrazioni più significative per la devozione. Sarà un
effetto dovuto all'illuminazione che entra da un luminoso occhio, ma sono dapprima
attratto dall'arco superiore, l'arco
trionfale. Tutto lo spazio curvo raggela un solo momento della storia biblica, il
momento nel quale avviene ciò che si racchiude in una parola: annunciazione. A sinistra l'Arcangelo Gabriele
(ahimè ridotto ad un fantasma) spicca su uno sfondo urbano; cerco di scrutare i
dettagli con la residua acutezza che la mia vista vetusta mi concede e con qualche
difficoltà scorgo, al portone di un edificio turrito, un omino che affacciandosi porta le
mani ai lati della bocca, come per amplificare il richiamo all'attenzione di qualcuno
sull'evento soprannaturale: «Ehi, Maria! Guarda che c'è l'Angelo!». Ma Maria se ne è già accorta,
soprattutto perché la colomba dello Spirito Santo ha già operato in avanguardia,
ponendosi immobile di fronte ai suoi occhi, tal quale il comportamento di quelle moschine,
le sirfidi simili a piccole api, che è frequente incontrare sui fiori nei prati bormini,
ma che altrettanto frequentemente si librano a mezz'aria proprio di fronte ai nostri
occhi, come volessero indagare nel profondo dell'anima per interrogarsi sulla nostra
natura. Ma quello che mi lascia meravigliato è la struttura tecnologica del reggilibro;
un sostegno incernierato al mobiletto, evidentemente ruotabile a piacimento del lettore,
consente di orientare confacentemente il volume alla luce; è un oggetto ricorrente anche
in altri affreschi "stradali" di Bormio, a probabile dimostrazione di quanto
fosse un sistema d'uso comune. Mi accorgo solo prima di abbassare lo sguardo che il
dipinto inizia e termina ai lati con due stemmi, noti nell'araldica di quelle famiglie che
già avevano lustro locale, gli Alberti
ed i Quadrio.
Intanto dall'alto, disposti accuratamente sull'arco inferiore, si
affacciano da tondi e quadri e mi osservano gli Apostoli con i loro distintivi attributi;
il coltello per l'ormai noto Bartolomeo,
la lunga croce per Filippo,
il serpentello dal calice di Giovanni,
la croce di Andrea, le
chiavi di Pietro, il
bastone da pellegrino di Giacomo
il Maggiore.
Per completare le visioni raccapriccianti non poteva mancare quella di San Sebastiano ridotto ad una
sorta di agoraio tante sono le frecce infilzate nel corpo martoriato; certo è che
l'artista gli ha voluto donare un bel paio di piedi. Di fronte a lui, sulla parte opposta
dell'arco, si nasconde Sant'Antonio
abate la cui campanella, pur non tintinnando, ne tradisce però presenza ed identità.
Appena sotto, San Bernardino da
Siena ci mostra il suo tondo emblema, il trigramma delle lettere IHS Iesus Hominum
Salvator che in seguito diventò il simbolo dei Gesuiti. Una sequenza di santi molto
tradizionale sulla quale non mi soffermo, ché di innumerevoli chiese sono sempre
compendio.
Ed eccomi finalmente ad osservare la conca dell'abside,
completamente affrescata sia nella parte alta emisferica che in quella inferiore, più scossa
dalle ingiurie del tempo e fors'anche dell'incuria.
Pur non essendo la scena di centro, è il Presepe che mi attira.
Perfetto nella presenza di ognuno dei personaggi e degli accessori che molti di noi hanno
composto, sin da bambini, come fosse un gioco, con statuine di gesso dipinte a lacca di
colori vivaci e muschio cercato nei giardinetti di casa o tra i ruderi di qualche edificio
inumidito dal tempo, lo sfondo di carta verde ed azzurra, stellata. Nei miei ricordi è la
capanna, anzi la grotta, che costruivo con blocchi di una sostanza spugnosa e dura che
proveniva dalla pulizia delle caldaie di riscaldamento a carbone; a Milano veniva chiamata
in dialetto marogna e mi veniva portata dal calderatt, quell'uomo sempre
nero di polvere che si occupava di mantenere acceso il fuoco. La capanna, la stella, il
bue e l'asinello, i Re Magi, che venivano tenuti nascosti sino all'Epifania, il Bambino,
Maria e Giuseppe. Qui, pur nella dovizia di particolari che ammiro nella struttura del
riparo alla Sacra Famiglia, si è perso uno dei tre Re Magi, probabilmente inginocchiato
nella rovina che con quell'atto di riverenza lo ha condannato all'annullamento perenne.
Al centro
della parete sono il Padre e lo Spirito Santo che assistono il Figlio nel momento del
trapasso terreno. Al mio fianco un amico, anch'egli survegnì a Bormio come lo
sono io, ma che della storia dell'arte ha fatto professione, mi sollecita ad osservare la
strana disposizione della mani di Dio, quasi fossero delle ali; mi induce ad analizzare, a
pensare, a valutare, a studiare, mentre lui infine interrompe il mio intenso elucubrare,
smonta ogni mia velleità iconologia, concludendo che l'artista così le ha volute
semplicemente per esigenze stilistiche: una licenza
artistica.
Immancabile, chiude la sequenza quel San Cristoforo reso famoso in
tempi moderni dalla sua presenza protettrice, e magnetica, sui cruscotti delle
autovetture, quand'ancora questi erano di metallo e ben lo potevano sostenere; per il
devoto era l'alternativa al più laico "papà non correre".
In realtà la sequenza dei quadri si conclude oltre, con quella che una
volta doveva essere una piccola
porta che dava sulla via Roma, dove al fedele, uscendo, come ultimo richiamo, veniva
ricordato il gesto salvifico posto in atto dal Cristo con la sua dolorosa morte,
raffigurata nel tema del "Cristo in pietà".
Alzo gli occhi e non mi lascio disturbare dalla trave che attraversa la scena,
confidando che sua sia la volontà, precisa e determinata, di evitare un crollo
catastrofico, apocalittico; la fine dei giorni per santi, beati e poveri Cristi.
La scena che appare rivive nel giubilo festoso di angeli che allietano l'evento al suono,
celestiale oltre ogni dubbio, dei più diversi strumenti. Al centro
dell'attenzione degli astanti il Padre, il Figlio e lo Spirito
Santo in una versione della configurazione detta "Trono di Grazia"; la
Trinità che pone la corona sul capo della Madre da poco assunta al Cielo, regina
angelorum. Mi attira un particolare curioso; dietro di loro, due figure a mani giunte
hanno entrambe il volto sbiancato, come se la cosa fosse opera di una cancellazione
voluta, fatta all'uopo per nascondere la loro identità, forse per vergogna del popolo,
forse per riservatezza dei personaggi, forse per altro, forse perché volti noti in ambito
locale che l'artista ha voluto immortalare; chissà. Grandioso comunque questo tema
dell'incoronazione della Vergine, perfettamente adatto alla posizione più venerata ed
osservata nell'edificio, che in questo modo e con questa scena assume il valore di un
luogo d'incontro per la glorificazione e non per l'afflizione. Basta con Bartolomeo,
Sebastiano, Apollonia, Simone, Orsola o Cristina, e con la passione dell'Uomo crocifisso.
E' il momento della gioia che vince il dolore.
Non il mio, fisico, cervicale, che ora sono costretto a sopportare con
l'intento di studiare i magnifici
cromatismi della volta e delle figure che raccoglie sulla sua superficie ricurva. Mi
immagino una panca, al centro dell'aula, sulla quale giacere supino nella comoda
contemplazione di cotanta impresa d'arte. Gli inventori dovrebbero studiare un simile
attrezzo e renderlo portatile, ad uso degli iconografi e degli appassionati turisti. In
realtà non sarebbe proibito sdraiarsi sul nudo pavimento, sporcizia permettendo, ma qui
sarebbe un tormento estremo, ché il pavimento è di rotondi e sporgenti ciottoli di
fiume; poco meno della sensazione che prova un fachiro. Potrei sopperire portandomi
appresso un robusto pezzotto, quel tappeto valtellinese di tradizionale fattura
casereccia, da stendere alla bisogna; però mi metterebbe a disagio il girare per le vie
con il rotolo sulla spalla; qualcuno potrebbe scambiarmi per un autoctono venditore di
tappeti e chiedermene il prezzo. Potrebbe convenire
Per il momento, allora, in
assenza d'altro mi adeguo e, in piedi, giro e rigiro su me stesso come un danzatore
derviscio, il viso all'aria, ed ogni tanto prendo riposo, accasciandomi con una riverenza
nel turbinio della visione.
Attorniata dalla solita moltitudine di angeli musicanti, al centro
spicca la Trinità; il
Padre che benedice, il Figlio siede alla sua destra e mostra le stimmate, lo Spirito Santo
li completa. Una visione classica e diffusa. Ma quello che mi meraviglia è quella forma
circolare che la contorna; costruita a scaglie come quelle di un
serpente, ognuna di esse ha un colore che cambia gradazione mano mano che ci si allontana
dal cerchio mediano che ne guida il percorso, completamente bianco, sviluppando una
smagliante tridimensionalità, come se dal soffitto si staccasse uno stucco barocco a
cornice della scena. Mi immagino quale sia stata la difficoltà affrontata dall'artista,
non solo nel mantenere la costanza di dimensione nelle scaglie, ma altresì la continuità
di colore nei diversi settori.
Ai quattro angoli del soffitto, gli Evangelisti sono ben riconoscibili,
anche perché uno scritto li identifica a favore di coloro che non ne riconoscessero i
simboli distintivi; Giovanni
con l'aquila, Marco con il
leone, Matteo con l'uomo
e Luca con il toro, tutti
esseri naturalmente o innaturalmente alati come li volle San Gerolamo, il primo e più
importante traduttore dell'Antico e del Nuovo Testamento.
E qui prendo riposo un attimo, perché ho già valutato al colpo
d'occhio che presto dovrò affrontare un compito ben più difficile, malgrado le immagini
che vedo siano quelle di personaggi assai noti nella cultura del cristianesimo. Un bel
massaggio alla nuca e ritorno in forma, o quasi; qui si tratta di saltellare con lo
sguardo da destra a sinistra, in alto; mi necessiterebbe una vera e propria preparazione
atletica. Via.
In fasce distinte, ai due bordi inferiori del soffitto, si presentano
gli Apostoli, assisi su scranni di legno. Da un lato sono in compagnia, affiancandola,
della Madonna con la veste azzurra e dall'altro della Maddalena, questa riconoscibile dal
fatto che tiene a fianco il vasetto dell'unguento che è suo elemento identificatore. Quattordici figure. Le guardo
con attenzione e scopro che alcune di esse non hanno caratteri distintivi; ed allora come
riconoscerli? Per alcuni è facile, per altri difficile se non impossibile. Parto dai più
facili, che si trovano immediatamente al fianco di Maria: Pietro con le chiavi e Giovanni
con un ramo di palma che tiene nella mano sinistra come fosse una penna da scrittura;
sarà un'altra licenza artistica anche questa oppure il pittore ha avuto notizia che fosse
mancino? A fianco di Pietro, il volto cancellato, un personaggio tiene in mano uno strano
bastone che appare metallico e con un paio di inserti terminali; si tratta di un attrezzo
per il follatore di tessuti, ed ecco quindi che appare Giacomo il Minore con il quale
strumento fu ucciso. E su questa parte le certezze sono completate. Mi rivolgo allora ai
compagni della Maddalena. Al suo fianco, da una parte con la croce lunga è Filippo,
dallaltra con il coltello è Bartolomeo. Immediatamente al suo fianco Simone tiene
in mano la sega con la quale fu martirizzato. Interessante colui che affianca invece
Filippo; sembra avere in mano un dischetto bianco; è la raffigurazione di Giuda Taddeo
che mostra l'immagine di Cristo, della cui custodia è incaricato. Sfortunatamente, forse
in seguito al restauro, questa piccola icona è stata sostituita dal nulla, così come
ritengo sia avvenuto per le scritte sui libri che ognuno degli Apostoli tiene in grembo,
la cui posizione di evidenza, altrimenti, non avrebbe alcun senso. Normalmente, infatti,
su quei fogli viene scritta una frase latina che compone il cosiddetto "Credo
Apostolico"; fosse rimasta, avrebbe tolto ogni dubbio perché la sua attribuzione è
certa ed il personaggio sarebbe stato pienamente identificabile. Qui invece ogni certezza
è consumata. Non è nemmeno rispettata la progressione canonica ed ai personaggi è
affidato un posto che sembrerebbe affatto casuale, a piacimento dell'artista. Faccio
allora l'appello sull'elenco del Credo e non rispondono Andrea, Giacomo il Maggiore,
Tommaso, Matteo e Mattia. E qui mi muovo a tentoni senza alcuna guida sicura, navigo nel
campo del probabile, dove devo portare in luce tutti i più rari ricordi iconografici che
ho, costretto a comportarmi più da investigatore che da esploratore. Per l'ennesima volta
ruoto su me stesso e ritorno allora sui compagni di Maria. Il primo a sinistra assomiglia
a Gesù in modo straordinario; la tradizione vuole che tale si presentasse Giacomo il
Maggiore, ed io le do credito. Meno uno. Dalla parte opposta, a fianco di Giovanni,
vestito di giallo e verde, un personaggio sembra discutere con il vicino e si tiene una
mano ad indicare il petto; potrebbe essere Tommaso che racconta di come abbia riconosciuto
Gesù risorto saggiando con un dito la ferita al costato. Meno due. L'ultimo personaggio a
destra è pressoché identico a quello che si trova nella stessa posizione tra i compagni
della Maddalena; uno dei due è certamente Sant'Andrea dalla lunga barba bianca; ma quale,
se entrambi hanno questo "onor del mento"? Ed infine, chi è quel personaggio
allestrema sinistra della Maddalena, colui che tiene in mano un catino? Matteo o
Mattia? Mai visto un catino in mano ad un apostolo. Forse Mattia che vi raccoglie le tasse
pagate, qual'era appunto il suo mestiere? Impossibile; so per certo che un amico filosofo
(già lo ha fatto) classificherebbe queste mie fantasiose identificazioni come un po'
"felliniane". Qui, comunque, qualcosa non mi torna. Ho in mente decine di
illustrazioni della teoria degli apostoli, ma quel catino
E se l'elenco non fosse
quello del Credo? Chi potrebbe essere costui? In realtà Mattia è un sostituto degli
ultimi giorni, eletto al ruolo dai colleghi dopo che venne cacciato il Traditore per
eccellenza, l'Iscariota (da pronunciare con tono fortemente dispregiativo), Giuda. Se di
lui si trattasse mi troverei di fronte ad una rappresentazione più unica che rara.
Ipotizzo che sia vero e l'esploratore comincia a gioire per quella che potrebbe essere
un'esaltante scoperta. Giuda, il Traditore, l'Iscariota, l'escluso dal Credo. Ma perché
ha un catino in mano e non la classica sacca dei denari, che sempre lo caratterizza nei
contesti conviviali? Ho già utilizzato oltre misura i punti interrogativi, e comincio a
trovarmi nel disagio problematico; sento però che mi sto avvicinando alla soluzione, pur
non vedendola ancora con chiarezza. Abbondo con l'uso di un altro punto interrogativo: e
se non fosse un catino? Comunque si tratterebbe di un attributo affatto nuovo, di cui non
ho cognizione né ricordo. Catino, bacile, catinella, bacinella, vaschetta. Ciotola?
Piatto? Ecco la folgorazione che attendevo; nel vangelo si legge che Gesù, durante la
cena eucaristica, disse proprio: «Colui che ha messo con me la mano nel piatto, quegli mi
tradirà». Ecco il nesso! L'attributo del piatto e la figura di Giuda; un collegamento
che mi piace pensare sia un unicum iconografico, visto che non ricordo alcuna fonte che ne
parli. Sono soddisfatto. Il caso è chiuso.
Basta e avanza. Non ne posso più; mi duole il collo. Non sto nemmeno a
pensare di studiare i dettagli dei quadri che rimangono, con vescovi e papi, tanto non ci riuscirei,
ché l'impresa è praticamente impossibile. Però, per rilassarmi, qualcosa di facile
facile mi rimane, nei medaglioni. E ci trovo anche qualche interessante spunto
esplorativo.
Abramo
non ha bisogno di essere in alcun modo analizzato; una scritta è chiarissima, quasi come
fosse tracciata con un gessetto sulla lavagna; mi osserva con uno sguardo che rivela tutto
il suo dramma interiore, mentre brandisce il coltello in una mano e con l'altra trattiene
il figlio Isacco per i capelli, pronto al tremendo sacrificio. Se la raffigurazione di
Abramo è frequente, non lo è per nulla quella di Jesse se non nello sviluppo di
quell'albero onirico che da lui prende il nome e che illustra la progenie del Messia: egredietur
virga de radice Iese «uscirà un rampollo dal ceppo di Jesse», secondo le parole
bibliche di Isaia. Ma ancor più di interesse si presenta il Re Davide, perché è intento
a suonare uno strumento musicale molto particolare, che molti hanno confuso con un'arpa;
è invece un saltèrio, qui perfettamente rappresentato, piccolo e portatile, con due
ordini di corde che venivano pizzicate con plettri formati da costole di penne d'uccello;
proprio come nell'immagine; il suo hobby. Per gli amanti delle storie pruriginose ecco un arciere; la vicenda si
sviluppa in tempi biblici, con Abramo che "conobbe" la sua schiava Agar e ne
nacque Ismaele, il personaggio qui ritratto; ma quando a Sara, la moglie, nacque Isacco,
la gelosia tra le due donne costrinse Abramo a cacciare Agar ed Ismaele nel deserto; fu
solo per intervento divino che i due si salvarono, non solo ma Ismaele assurse agli onori
della storia, tant'è che anche nella cultura mussulmana ha un posto di preminenza,
addirittura inumato a lato della Kaaba alla Mecca. Ed ora veramente ho terminato le mie
energie culturali; lascio nell'anonimato un orante ed un personaggio il
cui copricapo tradisce le origini
arabiche, e mi allontano rispettando, entro certi limiti, il precetto di onorare i
parenti, habeas honore parentis, che mi propone un ultimo individuo (che peraltro
non individuo; e mi si passi il gioco di parole).
Prima di uscire l'occhio mi cade su un graffito; ritengo di trovarmi
di fronte ad uno tra i tanti che oggi deturpano ogni immagine non adeguatamente custodita.
Più inviperito che seccato, come lo sono sempre in queste occasioni, mi avvicino per
cercare di capire chi sia stato il vandalo e scopro che non si tratta di una recente
quanto egoistica, vanagloriosa e becera volontà di registrare la propria presenza, bensì
si tratta di un vero e proprio necrologio d'epoca, pubblicato nel luogo sacro per
segnalare a tutti i visitatori che, forse l'anno 1596, nel mese "de genar è pasato
da questa vitta alla miglior il nob(ilomo) sig
Cap. de la Militia di Bormio".
Impietosito, mi viene spontaneo implorare: "Pace all'anima sua".
Esco. La via Roma continua la sua vita dinamica, eppur monotona. Turisti che passeggiano, ciclisti
che scorazzano. Nessuno guarda e nessuno vede. Per tutto il tempo che ho passato tra
le sacre immagini nessuno è entrato, o forse una coppia, stranieri. In più giorni, in
più ore, in diversi tempi. Nessuno.
Via Roma, d'agosto.