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LA ZONA DELL'INGRESSO

Testi e fotografie di
Ferruccio C. Ferrazza
da una visita effettuata nel luglio 2007

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La zona dell’ingresso

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(*)Sotto la loggia d’ingresso, sulla sinistra, ai piedi di un’immagine femminile, la firma dell’autore mi informa sulla datazione “hoc opus 1473”; mi aiuta a collocare sulla linea temporale, anche se in termini orientativi, il periodo di tutto il ciclo di affreschi..

(*)L’intero quadro, però mi incuriosisce. A prima vista l’immagine si interpreta con la raffigurazione della Madonna in trono con il Bambino salvatore del mondo: la classica Madre col Bambino. Però alcuni aspetti del dipinto mi lasciano perplesso. In particolare il manto rosso, il vestito verde ed il candido velo monacale sono gli attributi che una consolidata iconografia assegnano a Sant’Anna, madre di Maria. Peraltro è proprio in un inventario ottocentesco delle immagini di Sant’Anna che trovo la descrizione catalogata di un’incisione lignea che la ritrae in questa posizione, seduta, con il Bambino sulle ginocchia. Pur se improbabile, non è impossibile che qui ci si trovi davanti ad una rara rappresentazione della Nonna col Bambino. Non trovo nessuna didascalia che mi aiuti nella soluzione di questo piccolo enigma. Lo lascio tale.

Rivolgo la mia attenzione sulla parte opposta della controfacciata.

(*)Nel cavaliere con l’armatura e montato sul bianco destriero, qui si riconoscono con facilità i tratti distintivi di San Giorgio di Lydda che ferisce e sottomette un drago con la lancia, mentre una figura femminile si sforza di trattenere la bestia con la cintura a mo’ di guinzaglio. La leggenda narra che fu il Santo a salvare la giovinetta dalle fauci del mostro e fu lei che lo portò legato sino alla città, che infatti compare nello sfondo del quadro. Lì il mostro venne ucciso. E’ quindi errato identificare nell’iconografia del Santo il “San Giorgio che uccide il drago”. Molti si sono posti il problema di chi fosse storicamente la fanciulla; di certo si tratta di una nobile, a dar credito alla corona turrita che porta in capo. Nessuno ha ancora potuto dare una risposta certa.

(*)Sopra questo quadro (quasi mi sfuggiva) scorgo una doppia ruota munita di denti affilati, certamente atti a dilaniare il malcapitato che vi giace sottoposto a tortura. Due figure ai lati, i carnefici, agiscono su una manovella, con l’evidente intenzione di azionare l’ordigno. Tra le ruote si intravede una figura seminuda distesa. Questa è la rappresentazione del supplizio di Santa Caterina d’Alessandria. La leggenda narra che la Santa resistette alla tortura e morì in seguito decapitata, perché durante il supplizio le ruote vennero spezzate dagli angeli ed i carnefici rimasero uccisi.

Riprendo a fianco del San Giorgio, dove verso destra un grande quadro mostra diverse figure affiancate.

(*)La prima figura impugna un bastone da pellegrino e, sollevata una braca dei calzoni, mostra la coscia denudata sulla quale si intravede una ferita dai bordi rilevati. Si tratta di San Rocco, che si salvò dalla peste che aveva contratto curando gli ammalati. Non si fosse potuto vedere la gamba ferita, unico attributo che porta certezza all’identificazione, sarebbe stato praticamente impossibile distinguerlo da altri santi pellegrini. Questa parte del dipinto è molto rovinata dal tempo, e probabilmente ha perso diverse parti significative, oltre che di pregio artistico.

(*)La seconda figura è femminile. Nella mano sinistra regge un secchiello, nella destra innalza un oggetto più difficile da comprendere di cosa si tratti, dissolto com’è nell’erosione del dipinto. Il velo monacale le attribuisce anche la caratteristica di fondatrice di convento. Si tratta di Santa Marta di Betania cui la chiesa è dedicata e la cui immagine ricorre in diverse altre chiese di Valtellina. E’ la sorella di Lazzaro e di Maria Maddalena, ed amica di Gesù. L’oggetto nascosto dal degrado del tempo è un aspersorio, ed infatti il secchiello serve al trasporto dell’acqua santa. Ai suoi piedi, frammenti di pittura sembrano mostrare una parte di drago, che la leggenda vuole da lei rabbonito proprio con l’aspersione. Ma di lei e di questo argomento parlerò in seguito, con maggior approfondimento.

(*)La terza figura, maschile, vestita con il saio di frate francescano, regge nella mano sinistra un libro e con la mano destra indica verso l’alto un oggetto circolare. Questo è un simbolo ed è molto particolare; viene denominato “trigramma” ed è costituito dalle lettere IHS o JHS inscritte in un cerchio che rappresenta un sole raggiante; l’acrostico non ha una interpretazione certa potendo esprimersi con Iesus Hominum Salvator oppure In Hoc Signo o in altro ancora. Il fatto è che, comunque, questo emblema fu disegnato da San Bernardino da Siena. La conferma che di lui si tratta mi viene data anche dalla precisione con la quale l’artista ha voluto mostrarne il volto, incavato dalla perdita dei denti dovuta alle malattie dalle quali era afflitto ed alla vita ascetica che conduceva, ed anche nella scritta sul libro dove si legge la frase “Pater manifesta nomen tuum omnibus” ossia “O Padre, rendi conosciuto a tutti il tuo nome”, a testimonianza dell’opera di forte predicazione condotta in vita dal Santo. Mi incuriosisce, peraltro, che la sua morte, avvenuta nel 1444, sia molto prossima alla valutata datazione degli affreschi. Significa certamente che l’opera di San Bernardino era ben nota ed ancor più apprezzata ovunque in Italia, anche nei luoghi più remoti che da lui stesso venivano raggiunti a piedi per portare e diffondere con la sua voce il cristianesimo della vita quotidiana.

(*)Le tre figure appena viste sono tutte rivolte verso la quarta immagine, che non ho difficoltà a riconoscere nella Santissima Trinità: il Padre in Trono con il Figlio crocifisso in grembo e sopra di lui la colomba dello Spirito Santo.

(*)Il quadro si conclude sulla destra con una figura più piccola della altre e che, a prima vista, non mi sembra porre alcun problema di interpretazione, visto che su uno stendardo aperto e disteso al vento si legge chiaramente che si tratta del Beato Simone. E qui potrei abbandonare ogni altra riflessione, non fosse che, però, di beati di nome Simone è zeppo ogni elenco agiografico; ve ne sono sparsi per ogni luogo d’Italia, ed anche dell’estero.
Da Lipnica, da Cirene, da Cascia, da Ripalta, da Costa, da Collazzone, da Camerino, da Torgiano, da Todi, da Trento, da Calascibetta.
E poi, Simone Stock, Simone Fidati, Simone De Roxas, Simone Balacchi, Simone Napoli, Simone Camporeali, Simone Saltarelli, addirittura Simone Qin Cunfu.
E qui mi fermo, solamente per rispetto al tedio che tale elenco induce nel lettore, ma non perché lo abbia completato.
Il riconoscimento mi si presenta come un lavoro ben più improbo di quanto apparso, erroneamente, a prima vista. Anche se procedessi con lo scartare quelli che hanno data di morte troppo vicina o addirittura posteriore all’ipotesi di datazione dell’affresco, comunque rimarrebbe un lungo elenco.
Scarto subito il Beato Simone da Trento, perché ricordo che era di soli 3 anni di età quando fu ucciso nel 1472.
Potrei ricorrere alla data di canonizzazione. Ed in questo modo sinceramente mi spiace scartare il Beato Simone da Lipnica, perché fu colui che seguì quel San Bernardino da Siena che si trova dalla parte opposta della Trinità. Tanto ne fu devoto da accorrere al suo funerale nel 1444. Ma la sua canonizzazione, cioè il fatto che venga a Simone attribuito il titolo di Beato, è quanto di più recente ci possa essere, visto che i decreti sono stati promulgati dall’attuale pontefice, Papa Benedetto XVI, nell’anno 2006. Un vero peccato, perché la sua vita si proponeva specificamente per una mia identificazione con la figura del quadro. Scarto anche il Beato Simone da Collazzone, che pur vestendo il saio di francescano, come sembrerebbe apparire nella figura, non fu canonizzato se non nel ‘600 anche se il relativo processo iniziò nel ‘200. Comincio a pensare che anche questa non sia una strada che porti a soluzione certa; potrebbe verificarsi che la devozione del popolo porti a chiamare beato chi ancora non ha concluso il processo di canonizzazione. Meglio cercare altri indizi.
Guardando bene la figura mi accorgo che il beato è sì vestito di saio, ma porta al collo una candida “sciarpa”. Ritengo di aver rilevato un segno distintivo di capitale importanza, altrimenti l’artista non l’avrebbe messo in tale evidenza. Si potrebbe trattare di una curiosa quanto anomala rappresentazione di uno scapolare, liberamente immaginato dall’artista. In questo caso l’orientamento potrebbe essere verso il Beato Simone Stock, ora Santo, che ricevette lo scapolare dell’Ordine dei Carmelitani direttamente dalle mani della Madonna a lui apparsa con una schiera d’angeli. Però il colore dello scapolare è ricordato di colore scuro, nero o marrone. Ma è anche vero che nell’iconografia storica i Carmelitani, e Simone Stock in particolare, sono sempre raffigurati con un bianco mantello posto sopra il saio. Inoltre questo beato è ricordato per la sua attenzione ai racconti che sui Crociati provenivano dalla Terra Santa, dalla quale i Carmelitani furono cacciati. Un punto aggiunto a favore nella corrispondenza dello stendardo, croce rossa in sfondo bianco, che nel dipinto il beato scioglie al vento. Però resta ancora da dire che il beato, proprio per essere stato il primo priore generale in Inghilterra, è rappresentato in età avanzata e con la barba del saggio.
Qui ci troviamo di fronte ad un bambino; la piccola statura lo certifica. E se fosse che questo è l’unico attributo da considerare? E se fosse che la rappresentazione riguarda un evento coevo al dipinto? Un evento tanto eclatante, quale appunto l’assassinio di un bimbo di soli 3 anni, da lanciare la sua storia con estrema rapidità sulle vie delle contrade più vicine ai luoghi testimoni del fatto.
Ritorno allora sui miei passi, su quel Beato Simone da Trento, detto anche Simonino, che per primo ho scartato. Faccio qualche ricerca, e trovo conforto in un’immagine del beato che nel 1521 era raffigurato con la sciarpa bianca al collo; ancor più, un’altra immagine lo riporta con l’asta e lo stendardo.
Pur essendo ormai certo di questo mio riconoscimento, mi rimane una curiosità legata all’immagine del dipinto. Cosa stringe nella mano sinistra? Forse gli strumenti usati dai carnefici per la sua tortura? Lo sono, una tenaglia, un coltello. Ed allora anche la sciarpa lo è: servì per strangolarlo. Atroce.

Lascio soddisfatto l’analisi di questo quadro, e mi rivolgo a quello vicino, a sinistra, sull’altro angolo della loggia.

(*)Nella sequenza dei personaggi, iniziando da sinistra, trovo una raffigurazione il cui soggetto è tanto raro quanto curioso, e la cui interpretazione devo solo al caso. Diverso tempo fa, non ricordo nemmeno per qual motivo, scoprii che in una chiesa del cuneese si ammirava un affresco con l’immagine di Sant’Eligio che ferra una zampa amputata da un cavallo. La leggenda racconta che poi la riattaccò miracolosamente. E’ un’immagine rara di cui ho perso memoria perché ricorda una parte, forse la meno significativa, della vita del Santo, quando da giovane lavorò come ferraiolo e maniscalco. Fu la sua abilità che lo portò in seguito a distinguersi come orafo, ed appunto in questa veste è normalmente raffigurato alla corte di Re Dagoberto, mentre cesella una croce d’oro.

Proprio sotto questa figura, compare la datazione del 1510. Posso quindi pensare di collocare anche il quadro precedente in questo periodo. Rispetto all’iniziale posizione sulla linea temporale che ho assegnato al 1473 sulla scorta della prima immagine analizzata, ora il contesto storico è avanzato di 38 anni, uno spostamento significativo. E per questo si valorizza e consolida in miglior modo il sincronismo tra la devozione ai personaggi raffigurati e gli anni della loro pittura. L’avessi saputo prima, forse il Beato Simone da Trento non l’avrei inizialmente scartato, ma l’avrei scelto subito senza tema di dubbio e senza procedere con le altre valutazioni. Comunque sia, il lavoro rivelatosi superfluo è servito ad ampliare la mia conoscenza,e questo è poi lo scopo finale di ogni essere intelligente.

(*)Al suo fianco ritroviamo una nuova immagine di San Rocco che mostra la coscia con la ferita della peste, appoggiato all’immancabile bastone del pellegrino. Che sia un pellegrino è pure testimoniato dalla piccola conchiglia che vedo sopra la sua spalla destra; la conchiglia era il ricordo portato con sé da coloro che compivano i pellegrinaggi, in particolare verso Santiago de Compostela. In merito a questo Santo è da dire che normalmente è accompagnato dalla figura di un cane che gli porge un tozzo di pane; è il ricordo di un episodio della sua vita quando, già ammalato e ritiratosi in eremitaggio, venne mantenuto in vita da un cane che gli portava di che sfamarsi. Sia nell’immagine che ho già visto sia in questa il cane non c’è, o forse non si vede più; in entrambe gli affreschi, infatti, ai piedi del Santo compare una zona di degrado del dipinto, le cui dimensioni potrebbero nascondere l’animale, quasi fosse un’intenzionale cancellazione. Possibile che sia solo una sfortunata combinazione, tanto improbabile quanto possibile? Che sia stata un’azione indotta dall’interpretazione tardiva ed estremistica dell’editto di Carlo Magno, che nell’anno 800 proibì che si portassero i cani in chiesa?

(*)Proseguo verso destra. Si vede abbastanza chiaramente una costruzione ai cui lati si appoggiano due angeli ed altri due la sorreggono, sollevandola sopra un mare ondoso . All’interno si intravede, in un riquadro, un busto, forse femminile, con l’aureola. Si tratta della raffigurazione del trasporto della casa natale della Beata Vergine Maria, luogo dove a Nazareth si compì l’Annunciazione. La tradizione vuole che la traslazione sia avvenuta alla fine del ‘200 ad opera di angeli in due riprese. Una prima traslazione fu effettuata fino a Tersatto, in Dalmazia. Successivamente la seconda, ed ultima, traslazione fu a Loreto.
Il dipinto prospetta un’abitazione signorile, con un ricco portale d’ingresso. Una licenza d’arte. La casa di Nazareth doveva essere più simile ad una povera capanna, seppur costruita pietra su pietra. Le pareti della casa oggi sono l’oggetto della devozione nel santuario dove sono racchiuse.

(*)La sequenza termina con una figura maschile, ignuda, trafitta da diverse frecce, legata ad una colonna o ad un albero la cui struttura si riconosce tra le gambe e nel capitello sopra il capo. Il riconoscimento mi è facile e sicuro. Si tratta del martirio di San Sebastiano, che sempre viene rappresentato in questo modo. Ma nel racconto della tradizione il Santo non morì per nulla in quell’occasione. Abbandonato e dato per morto dai suoi aguzzini, venne soccorso da una cristiana e curato tanto da guarire, di certo miracolosamente. Ritornato in salute, si presentò all’imperatore Diocleziano proclamando la sua fede. Morì sotto i colpi di flagello.
E’ frequente l’associazione tra l’immagine di San Sebastiano e quella di San Rocco, come in questo quadro. La coppia, infatti, è rappresentata a protezione dai contagi e dalle ferite, comunque in favore della loro guarigione.

Alzo lo sguardo e seguo il dipinto che prosegue verso l’alto sulla parete, formando un arco, per poi congiungersi con la volta a crociera.

(*)Sulla sinistra, anche se non vi fosse quella didascalia chiara seppur interrotta dalla consunzione dei tempi “San Nicolaus de To…”, nella figura maschile riconosco gli attributi di San Nicola da Tolentino: il saio degli Agostiniani, il crocifisso fiorito di gigli, simboli di purezza di vita, ed il libro delle Regole. Meno evidente, sul petto comunque intravedo una macchia rossa, quella stella che l’artista con certezza ha voluto rappresentare a ricordo della visione miracolosa che lo accompagnava durante la celebrazione della messa. La frase sul libro è chiaramente leggibile “Pater, praecepta tua servavi” cioè “O Padre, ho osservato i tuoi comandamenti”. Si riferisce al testo specifico della Bibbia Vulgata come riportato al versetto 100 del salmo 118, che nel completo così si esprime “super senes intellexi quia praecepta tua servavi”. Nel caso del Santo è più probabile che il riferimento sia correlato ai dettami di Sant’Agostino, che egli applicò alla lettera ai suoi momenti di vita consacrata.

(*)A destra, oltre l’immagine quasi completamente cancellata della Vergine sopra la Santa Casa, una figura vestita di saio. Un monaco, quindi, che si appoggia su un nodoso bastone con l’impugnatura a T nella mano sinistra, e che sorregge un libro nella mano destra alla quale è legata una piccola campana. L’insieme di questi attributi mi rende certo il riconoscimento con Sant’Antonio abate, che con il suono della campanella scacciava quegli spiriti maligni che lo tentavano nella sua vita d’eremita nel deserto. Peraltro è curioso che la campanella sia normalmente associata, ma non qui, anche ad un maialetto posto ai piedi del Santo. Questa storia si riferisce a fatti avvenuti dopo la sua morte. Nella città francese dove furono portate e conservate le reliquie del Santo, fu fondato l’Ordine Ospedaliero degli Antoniani, il cui simbolo è il bastone a T e la cui specializzazione medica era la cura del herpes zoster, detto appunto Fuoco di Sant’Antonio perché il Santo ne guarì diversi ammalati. Per la cura di questo male si ricorreva al grasso di maiale, e quindi i monaci avevano in carico un discreto allevamento di questi animali, che per il prezioso contributo che davano alla guarigione erano identificati con una campanella al collo ed avevano il privilegio di poter girare liberi per le vie del borgo. Questa parte della storia si diffuse anche in Valtellina portando il culto del Santo e del maiale, assieme, anche se con qualche modifica di sapore locale. Ricordo infatti che le Leges Municipales Magnificae Comunitatis Burmii, cioè gli Statuti Bormini, al capitolo 215 dettano una curiosa regola titolata “De verro communis”, cioè del porco del Comune. Ho ritrovato il testo e qui ne riporto la sola versione tradotta in italiano, estratta da una vecchia pubblicazione nella Collana Storica della Banca Piccolo Credito Valtellinese.

Art. 215
Porco del comune.
Item si stabilisce, ogni anno in primavera il comune comprerà un maiale non castrato, da lasciar scorrazzare per il borgo sino al Santo Natale: allora verrà scannato e le sue carni vendute al macello comunale: i denari ricavati si daranno agli inservienti di sant’Antonio di Vianna, per il culto di quel santo.

Da notare come il Santo sia indicato “di Vianna”. L’attribuzione è relativa alla città ove giunsero le reliquie e che per questo fatto prese il nome di Saint-Antoine de Viennois.

Ho terminato la parete ed alzo gli occhi al cielo, è il caso di dire.

La volta è suddivisa in quattro settori, ognuno dei quali racchiude un medaglione con il busto di un personaggio maschile che, dal copricapo, si riconosce come essere un vescovo o un papa. All’incrocio dei costoloni un’immagine del Cristo Pantocratore. Diverse scritte aiutano nella comprensione delle immagini minori. Per questa volta mi sono posto come obiettivo il riconoscimento dei santi. Distolgo lo sguardo.
Mi dedico agli archivolti, dove invece compaiono ulteriori figure con l’aureola.

(*)Su uno di questi è dipinta una figura maschile, ben delineata, in abbigliamento da soldato romano. (*)La figura si trova testa a testa con un’altra similare. Le valuto in coppia. La prima porta nella mano sinistra una frusta o staffile e nella destra una palma. La seconda, nella mano destra una spada; il resto del dipinto è deteriorato e ne cancella il contenuto. Però gli attributi valutati assieme mi consentono di riconoscere San Gervasio e San Protasio, fratelli gemelli, entrambi martiri, ritratti con gli strumenti utilizzati per il loro mortale supplizio.

Sull’altro archivolto trovo ben leggibili le didascalie, che sciolgono ogni dubbio d’interpretazione.

(*)Strano però. In questo caso l’immagine di Santa Marta non segue la tradizione iconografica, più volte ripetuta nella chiesa; infatti qui nessuno degli attributi classici è presente, ma è ritratta in abito monacale ed in posizione di preghiera. Sono più che perplesso; dapprima ritengo che non si tratti della Santa Marta di Betania ricordata nella titolazione della chiesa e nelle altre raffigurazioni. Non ho a disposizione altri indizi se non l’abito ed il candido soggolo. Ma in tutte le altre immagini l’abito è rosso, mentre qui lo sono solo le maniche; inoltre manca il secchiello e l’aspersorio. Perché non qui? (*)Un aiuto a dare risposta al quesito viene dalla figura superiore; la dicitura dice che si tratta di Santa Maria Maddalena, ed infatti la veste sfarzosa, i lunghi capelli sciolti ed il contenitore per l’unguento che stringe nella mano destra danno certezza all’identificazione, oltre al fatto che si trova in posizione adorante ai piedi del Cristo crocefisso, immagine centrale dell’archivolto. Le due figure femminili devono venire interpretate congiuntamente, ed allora è possibile comprendere quale sia il significato della diversa iconografia di Santa Marta di Betania. Alcuni artisti hanno impiegato questa coppia per proporre due simboli tra loro in contrapposizione morale, come semplici richiami al di fuori delle completezze iconografiche; la severità dell’abito monacale per la modestia, l’appariscenza dell’abbigliamento per la vanità. Fosse stata sola e senza diciture, la figura della monaca sarebbe rimasta nel più completo anonimato interpretativo.

(*)Oltre il Cristo crocefisso, ma in stretto legame con esso, è dipinta la figura perfettamente riconoscibile di San Francesco d’Assisi, vestito del saio di frate, cinto da un cingolo con tre nodi che si relazionano ai voti dei francescani: povertà, castità, obbedienza. Alcune linee rosse sono state tracciate per congiungere le ferite del Salvatore con le corrispondenti posizioni sul corpo del Santo. Si tratta della rappresentazione dell’episodio più significativo nella vita del Santo, quando ricevette le stimmate.

(*)Mentre analizzo questa zona scopro che il medaglione più vicino non raffigura né un vescovo né un papa, come viceversa è il caso degli altri tre presenti sulla volta. Pur se il volto è perso nel degrado del dipinto, intravedo l’aureola. Il personaggio è ritratto mentre scrive, una penna nella mano destra di fronte ad un libro, sullo sfondo una libreria ricca di volumi e documenti. E’ sicuramente l’immagine di San Girolamo, rimasto famoso per la sua imponente opera di letteratura cristiana oltre che per la traduzione del Vecchio Testamento chiamata Vulgata, ottenuta dalla lettura diretta dei testi originali in lingua ebraica; un’impresa che fu prima e unica nel suo genere. Osservo attentamente e scopro che l’artista, curiosamente, ha dipinto le sue mani con solo tre dita oltre il pollice. Sorrido tra me per l’accostamento profano che mi sorge alla mente con le figure dei personaggi del compianto Walt Disney, ma sono sicuro che San Girolamo non me ne vorrà; in fin dei conti è il mio protettore, visto che mi piace collocare me stesso tra studiosi, bibliotecari ed archeologi.

Lascio la loggia e mi dirigo verso l’altare. Costeggiando la parete di destra della chiesa, dove si apre il portone d’accesso laterale.

(*)Prima di questa apertura, un quadro mostra nuovamente Santa Marta di Betania, questa volta con gli attributi della tradizione classica. Sotto di lei emerge il volto di un personaggio rivolto in preghiera verso una zona profondamente danneggiata, dove posso più immaginare che intravedere la Madonna col Bambino. Vicino al volto della Santa, una piccola immagine raffigura una lapide dove emerge dal fumo della consunzione la data del 1527; un ulteriore passo in avanti nella scala del tempo. Mi incuriosisce però l’angolo in alto a sinistra del dipinto; in un riquadro compare una gamba umana. Probabilmente il quadro è stato dipinto quale ex-voto per una qualche guarigione prodotta dalla Vergine Maria su intercessione della Santa.

(*)Proseguo e supero la porta, trovando una nuova immagine di Santa Marta di Betania, a mio avviso la più bella tra quelle sinora riconosciute; non solo, ma vedo una pittura diversa, uno stile più rivolto alla qualità del ritratto, meno legato alla semplicità dei simboli iconografici. Dal volto della Santa emana una profonda dolcezza, le gote rosate, la morbidezza realistica della bocca in contrasto con l’eccessiva schematicità degli occhi. Sapienti sfumature di colore sono pennellate a rendere quella terza dimensione che il piano non concede, effetto ancor più visibile nella colonna spiralata inserita sulla destra a limitare il quadro, il cui motivo si ritrova anche nelle colonne dell’arco di accesso al prebiterio. Con quest’immagine farei l’emblema (oggi si direbbe “il logo”) della chiesa stessa.

 

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ISSN 2284-3620

Ultimo aggiornamento: 19 aprile 2016