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La Crocifissione (Agostino Ferrari, 1393)

 

il testo che segue è tratto da
Valenti Cav. Tomaso
Schizzi Archeologici sul Bormiese
Sondrio, 1881

 

Degnissima poi di riguardo per più titoli, è la chiesa di S Antonio; o, come e più comunemente chiamata, del Santo Cristo nella contrada di Combo, distinta per la sua antichità e per i pregievoli affreschi che vi esistono. Era diffusa nel popolo la tradizione che le pareti interne e la volta del tempio (ad eccezione dell'altare maggiore) rudemente imbiancata, fossero al tutto dipinte ed istoriate; ond'è che nel 1872 dandosi opera ai restauri di quell'edificio, venuto in uno stato deplorevole di deperimento, si ebbe cura di indagare diligentemente , se sotto quell' intonaco apparisse qualche traccia in conferma della credenza popolare, e l'esito corrispose all'aspettativa, giacché sotto lo croste di calce, si scoperse un vecchio affresco, ed apparvero altri chiari indizii che la tradizione volgare, aveva il suo fondamento nel vero.

Nella massima parte quei colori che riapparivano in luce non presentavano un disegno ed un concetto compiuto, a cagione dei frequenti colpi di martello coi quali erano stati smussati e sgualciti, perché il cemento che vi si veniva sovrapponendo vi aderisse più tenacemente. Quello che si trovò sufficientemente conservato, rappresenta la scena della Crocifissione. Su di mio sfondo di oltremare, risulta un Crocifisso con piedi disgiunti, (stile bizantino) ed Angeli scendenti dal Cielo con calici in mano che volano a raccogliere il sangue della Redenzione che gli fluisce dal costato. Dall'un lato della Croce stanno le pie donne dolenti, lagrimose, e Maria in attitudine d'immenso affanno. Dall'altro lato sonvi militi a cavallo, vessilliferi con rosse bandiere, e turba di popolo confuso che assiste al ferale spettacolo. Il dipinto fu ripulito colla maggior diligenza, e conservato come documento per la storia dell'arte. Proseguendo le indagini si trovò li appresso un'iscrizione in carattere gotico, quasi del tutto corrosa, ma dalla quale si rileva l'anno, non si saprebbe ben dire se della fabbrica o della consacrazione del tempio; ed e la seguente:

ANO DNI MCCCLXXVI DIC ... (dicato?)
ET 1NT ... TA DNUS …
AUGUSTINUS FERARIUS.

Chi sia stato, e come c'entri qui quell'Agostino Ferrario non fu dato scoprire. Ma ciò che attira in ispecial modo lo sguardo si è l'Altare Maggiore (che originariamente era l'unico della Chiesa, giacché quello dedicato al Crocifìsso è una infelice aggiunta del secolo passato) ricco di affreschi di non comune valore. L'arco che divide l'abside dalla navata si scomparte in vari specchietti, e forma come altrettanti quadri, in ciascuno dei quali è ritratto un Profetà avente una fascia svolazzante in mano, in cui è scritto il suo nome. Le teste e le fisionomie .sono piene di vivissima espressione, hanno improntato nello sguardo, nel volto, negli atti tutta l'espressione biblica. Sulle pareti laterali dell'altare, vi hanno diverse macchiette esprimenti episodii della vita del santo Titolare, che ricordano le sue tentazioni legendarie e le sue lotte col demonio che gli appare in visioni capricciose o fantastichc in mille modi od in mille foggie. Il Santo in dimensioni pressoché naturali è rappresentato nell'atto che divide con Paolo primo Eremita un'intero pane che gli aveva recato il vicino corvo, alato ministro della Provvidenza, e dal quale era solito riceverne solo una metà al giorno, ma che in quel dì eragli stata raddoppiata la dose per l'ospite che doveva visitarlo. Là appresso Antonio sta spogliando il cadavere dell'amico Paolo della sua veste, che non è altro che un tessuto di palme, mentre due leoni, usciti dalla vicina foresta, scavano la fossa per seppelirlo. Questi dipinti di assai buona maniera, si ponno attribuire alla prima metà del secolo decimosesto; e forse appartiene ad epoca un po' anteriore quella bella Annunciazione della vergine che è ai due lati del finestrone rotondo dell'abside. Il Sant'Antonio Abate che campeggia in mezzo all'Altare riposto in una nicchia dipinta di disegno lombardo, è opera recente, eseguita nel 1873, dal pittore Eugenio Ponzio da Milano, a cui si devono tutti i restauri ornamentali della Chiesa, opera fatta, come suol dirsi per ripiego e senza pretesa, sinchè non soccorrano i mezzi di sostituire un lavoro più eletto. A quel muro ed a quel posto era dapprima addossato un'ancona di legno con figure o statuette che parevano fatte a bella posta per eccitare il riso e far perdere la divozione. Per bellezza e perfezione di arte poi, sovrastano a tutti le teste di quei quattro Evangelisti con quegli angeli e puttini, proprio discesi dal Ciclo, sulla vòlta dell'altare; monumento di gloria artistica, ed ammirazione di tutti i cultori più intelligenti. La tradizione che attribuisce ad un Abondio Canclini di Bormio quei lavori, vuoi essere accolta con molta diffidenza e circospezione. Il Quadrio nelle sue Dissertazioni storiche dice che il Canclìni fiorì intorno al 1500, e che in Bormio, dipinse la chiesa di S Antonio fra le altre cose. Il prete Ignazio Bardea Bormiese, che sulla fine del secolo scorso scrisse delle Memorie per servire alla Storia Ecclesiastica del Contado di Bormio, parlando della sovraesposta asserzione del Quadrio, soggiunge; su quale fondamento asserisca il Quadrio che queste siano opere del Canclini, io non so. L'esitanza dello scrittore Bormiese ad accettare il giudizio del Quadrio, che attribuendo ad un suo conterraneo quei lavori arricchiva di una bella aureola artistica la sua terra natale, mi ingenera il sospetto che la paternità di quegli affreschi attribuita al Canclini, sia per lo meno, assai dubbia. Oltre a ciò come è possibile, che un pittore bormiese, sia giunto a tanta eccellenza di arte, quanta se ne rivela in quelle teste stupende, senza che abbia lasciato altra traccia del suo valore in patria e nei dintorni? Poichè, nè di si squisita maniera, nè del nome del Canclini, nei molti affreschi di cui Bormio abbonda, non si trova vestigio, ad onta che l'eruditissimo Teatino, abbia pur detto elio, l'artista Bormiese, dipingesse quella Chiesa fra le altre cose. Ma un pittore Canclini è veramente esistito e ne fa prova una tela dipinta nella Chiesa della Madonna presso Morbegno coll'iscrizione: Antonius Canclini burmiensis pingebat anno 1585. Ma questo Canclini debbe essere ben diverso dal Abbondio con cui forse la tradizione orale ha confuso il nome, perché in questa tela sentiamo già da lontano l'aura del Seicento; o quella maniera di volute, di incartocciamenti e di pieghe che in essa si manifesta, è cosi già lontana dalla casta sobrietà ed ispirazione di quei divini Evangelisti, da essere! di mezzo un abisso; nè all'autore di questa tela., si addice il titolo di valoroso che il Quadrio regala a quel suo Abondio Canclini. Che se volessimo avventurare un giudizio (non nostro, perché siamo infinitamente lontani dall'essere da tanto) potremmo ripetere quello che udimmo esprimersi da più di una dotta ed erudita persona, e come suol dirsi, competente in materia, che attribuisce quel dipinto a Gerolamo Romanino di Brescia, un ostro di quella plejade luminosa di artisti che fece sì illustre il secolo XVI e che contribuì a far salire sì alto e glorioso il nome della Scuola Leonardesca o Lombarda.

Ma prima di accomiatarci da questo solitario e santo Abate che ci ha dato argomento di discorrere a lungo, non sarà inutile, aggiungere una parola sul culto, sullo credenze, e sui simboli che le arti hanno rese famigliari, ed hanno aggruppato intorno alla figura di Antonio Anacoreta. Trovi frequente negli affreschi che ornano i muri delle case bormiesi l'immagine di questo monaco dalla lunga e candida barba; lo trovi ora colla destra alzata in atto di benedire e colla sinistra avente un bastone a cui sta attaccato un campanello, lo trovi con un T (la lettera Tau dell'alfabeto greco) impresso o sul petto, o sulla cima dello stesso bastone; lo trovi, con un majale ai piedi; lo trovi infine con una fiamma dipinta sulla palma della mano. In questa diversità è frequenza di immagini, vi ha, per lo più, una ragione tutta locale, che vuol essere rilevata. Per ciò che fa al caso nostro, non parliamo del campanello in cui si è voluto simboleggiare la vigilanza di Antonio; né della consonante greca che s'imprimeva sulla cella del nostro solitario, essendo costume degli eremiti che popolavano il deserto di segnare ciascuna dello loro cellette con una lettera dell'alfabeto, come si segnano oggidì le nostre case coi numeri dell'anagrafe. Ma dirò solo di ciò che riguarda quell' animale che dipingono ai piedi del Santo, ed al fuoco che dipingono sulle palme della sua mano. In quel sordido porco hanno voluto simboleggiare le tentazioni sensuali, dalle quali è fama fosse gagliardemente travagliato il rigido Anacoreta; e se questo raffronto urta un po' i nervi all'estetica, pensate all'Epicuri ex grege porcus di Orazio, e l'estetica si rabbonirà. Il fuoco poi che dipingono in mano ad Antonio ha origine da una credenza invalsa nel 1200, e diffusasi dal Delfinato in Francia, in Italia ed altrove, che cioè il nostro Santo guarisse gli infermi col fuoco sacro, terribile malattia che struggeva le viscere, e incancreniva l'estremità delle membra con dolori intollerabili. Ma il popolo che non va pel sottile, e suole interpretare le cose a modo suo, vede in quei simboli indicati la tutela esercitata dal Santo per preservare dalle malattie gli armenti, raffigurati in quel majale, e le case dagli incendi, rappresentati in quel fuoco. Ed i bormiesi pei quali gli armenti formano la principale ricchezza, e le cui abitazioni per essere costrutte, e specialmente coperte in legno, corrono gravissimo pericolo di essere preda degli incendii, non è meraviglia abbiano avuto un culto speciale per questo santo protettore. Chè, anzi vi fu epoca in cui questo culto a S. Antonio fu, come direbbesi ora, patrio e nazionale del Contado, avvegnachè negli Statuti di Bormio (riformati a Coira il 3 giugno 1561) al capo 215, leggesi quanto segue:

Del porco del Comune
Ancora è stabilito che per il Comune ogni anno nella primavera si compri un porco che non sii castrato, il quale vada per le magnific. Terra sino al natale di N.S.G.C. ed allora si scanni per il Comune, e le di lui carni si vendino al Macello del Comune, e li danari che indi si caveranno si diino a S. Antonio de Vienna, ad onore del medesimo santo.

NOTA DEL CURATORE
in realtà il testo, qui tradotto dall'autore dal latino originale, indica S. Antonio di Vienne (e non di Vienna), e cioè di quel paese nella regione francese del Rodano nelle cui vicinanze le reliquie del santo trovarono sepoltura e da cui iniziarono l'attività gli ospitalieri dedicati alla cura del fuoco sacro; ulteriormente, nei territori di lingua spagnola il nostro Antonio Abate è conosciuto proprio come San Antonio de Viana.

 

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ISSN 2284-3620

Ultimo aggiornamento: 19 aprile 2016