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LA PARETE DI DESTRA

 

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E con questo lasciamo l’abside per avventurarci lungo la parete di destra dell’aula, dove si trovano le pitture più antiche tra quelle finora riportate alla luce, cioè quelle emerse dopo l’abrasione dell’intonaco durante l’importante restauro del 1872.

All’altezza dell’occhio attrae l’attenzione un affresco dove la rozza impostazione sia del disegno sia della scena può ben far propendere per una sua decisa antichità. È raffigurato il luogo della crocifissione di Cristo. Don Tommaso Valenti, nell’immediatezza dei lavori che lo hanno riportato alla luce, così lo descrive nel suo Schizzi archeologici del Bormiese (Sondrio, 1881):
Quello che si trovò sufficientemente conservato, rappresenta la scena della Crocifissione. Su di uno sfondo di oltremare, risulta un Crocifisso con piedi disgiunti, (stile bizantino) ed Angeli scendenti dal Cielo con calici in mano che volano a raccogliere il sangue della Redenzione che gli fluisce dal costato. Dall’un lato della Croce stanno le pie donne dolenti, lagrimose, e Maria in attitudine d’immenso affanno. Dall’altro lato sonvi militi a cavallo, vessilliferi con rosse bandiere, e turba di popolo confusa che assiste al ferale spettacolo.
Possiamo anche aggiungere qualche ulteriore elemento di lettura. Tra le pie donne è riconoscibile la Madonna, che veste d’azzurro e porpora e, all’estrema sinistra del gruppo con le braccia al cielo, Maria di Magdala, la Maddalena, con i biondi capelli lunghi e riccioluti, simbolo di quella femminea bellezza che costituisce il suo caratteristico elemento e che disegna l’immagine della seduzione. Peraltro le figure femminili non sono solamente presenti in questo gruppo, ma se ne trovano altre tre anche nel gruppo di destra, dove costoro però non osservano la scena, ma sono invece intente a commentare tra di loro, verrebbe da dire che si tratti di un chiacchiericcio da comari, evidentemente per nulla coinvolte da vincoli di amicizia o parentela con il Salvatore morente. E non sembrano nemmeno tanto confuse, come vorrebbe il Valenti. Lascio agli storici locali stabilire chi sia la figura, vescovo e santo, benedicente, che si trova un poco discosta dagli altri sull’estrema sinistra del riquadro; forse il committente, chissà. Peccato che non pochi danni siano stati inferti all’affresco da coloro che, con lo scopo di consentire di far presa all’intonaco che l’avrebbe coperto, ne hanno martellato l’intera superficie. Io mi sarei sentito in atto di sacrilegio.

È sufficiente alzare un poco lo sguardo per osservare un riquadro di altrettanto interesse, seppur per motivi completamente diversi. Evidentemente di più recente fattura rispetto al precedente, incorniciato da elementi di architettura trompe l’oeil come abbiamo visto in altri casi, mostra una figura vescovile seduta di fronte ad un bambino che regge nella mano un cucchiaio; sotto di questo una buca nel terreno e sullo sfondo un corso d’acqua. Siamo nei dintorni dell’anno 400 e ad Ippona diventa vescovo Sant’Agostino, discepolo di Sant’Ambrogio e uno tra i più fecondi Dottori della Chiesa, ai cui testi e pensieri tuttora si fa riferimento. La raffigurazione che qui troviamo illustra un episodio della sua vita tratto da un testo medievale ed è una rara immagine nella pur molteplice casistica iconografica; Agostino cerca di far capire al bambino l’inutilità di provare a svuotare il mare con un cucchiaio, ma costui, che si rivela essere un inviato del Signore, gli contrappone la stessa inutilità nel cercare di spiegare la Santissima Trinità, appunto uno tra i temi che diedero maggior tormento ad Agostino tra quelli da lui trattati. Ma osserviamo attentamente cosa emerge davanti al volto del Santo; quasi invisibile tra il degrado generale della pittura, da un livello inferiore a quello del riquadro, in quella zona adeguatamente rimosso, compare a metà un volto coronato; è probabile che questo affresco sia applicato sullo stesso strato di quello della crocifissione, che si trova appena più in basso, e forse ne è pure coevo. Oltretutto è da dire che in uno scritto di uno tra i più importanti storici locali, Ignazio Bardea vissuto nel ‘700, si trova segnalato che già nel 1395 nella chiesa era posizionato un altare dedicato a Sant’Agostino. Forse era posto proprio in questa posizione e sia lo strato visibile sia quello nascosto si riferiscono allo stesso santo per questo motivo.

Anche l’altra parete che costituisce l’angolo, sulla destra, presenta affreschi di diversa vetustà, l’uno a ricoprire l’altro.

Che il più antico sia quello posto in posizione inferiore lo dimostra addirittura il fatto che vi compare una data dipinta dove, pur nelle abbreviazioni tipiche di questa tipologia di scrittura, si legge ANNO DOMINI MCCCLXXVI, cioè il 1376. Il dipinto illustra un momento della passione di Cristo. Ecco cosa raccontano in merito i Vangeli.
Pilato, volendo soddisfare la moltitudine, liberò loro Barabba, e consegnò Gesù, dopo averlo fatto flagellare, per essere crocifisso. (Marco 15,15)
Allora Pilato prese Gesù e lo flagellò. (Giovanni 19,1)

Questo avvenimento è conosciuto come "la flagellazione di Cristo alla colonna" ed è un tema ricorrente in importanti espressioni artistiche in forma sia di affresco (un esempio tra molti è nella chiesa di San Pietro in Montorio a Roma ad opera di Fra' Sebastiano del Piombo) sia di dipinto (dal Caravaggio a Piero della Francesca). Nell'affresco si vede chiaramente il torturatore, a sinistra, che impugna il flagello, cioè quella specie di frusta usata dai romani per infliggere dolore ai condannati a morte; veniva chiamato flagrum e sulle corde erano disposti e bloccati piccoli pezzi d'osso scheggiato, così da aumentare l'efficacia del supplizio. Probabilmente tale attrezzo era impugnato anche dal personaggio di destra, ma non lo si può vedere perché l’affresco, successivamente posto a copertura, qui non è stato asportato. Mi hanno incuriosito, in particolare, i copricapo di questi due personaggi, che mi ricordano nell’insieme dell’abbigliamento le immagini e statue che si trovano nella vicina Svizzera, in special modo le moltissime di Ulrich Zwingli; vissuto a cavallo tra il ‘400 ed il ‘500 e feroce critico della Chiesa tradizionalista, tanto da portare per sua mano alla riforma del cattolicesimo elvetico. Ma, a ben osservare, il cappello del personaggio di destra è però più simile a quello usato da ministri del culto, da ecclesiastici; che sia un protestante, in tutti sensi? Forse che l’artista abbia voluto rappresentare simbolicamente il popolo svizzero, assieme laici e clero, come sacrileghi e violentatori del Signore? Dando credito alla data che abbiamo rilevato, siamo ancora in un periodo dove l’influsso svizzero, pur essendo possibile per la ridotta vicinanza geografica, tuttavia non ancora si dovrebbe essere sviluppato sotto l’aspetto politico; solamente un secolo più tardi inizieranno le invasioni ed i saccheggi ad opera dei grigionesi. E quindi questo affresco ci porta un messaggio ancor più misterioso di quelli iconografici che in questa chiesa abbiamo affrontato.

Parliamo ora dell’opera che è stata posta successivamente a copertura, la cui ampia rimanenza è visibile nella parte più alta di questa parete. E’ verosimile pensare che sia coeva a quella che raffigura San Agostino, dall’altro lato dell’angolo; ad essa infatti si congiunge con i motivi decorativi che ne formano la cornice. Quale sia l’evento scenico qui rappresentato viene svelato da una scritta che appare sulla cornice bassa dove in parte si intuisce ed in parte si legge: BALDASAR AVRVM. Questa è la parte finale di una scritta frequentemente utilizzata come didascalia per l’illustrazione della visita dei Magi al Bambino, dando conto del contenuto dei loro doni: “Jasper fert myrrham, thus Melchior, Balthazar aurum”. Gaspare porta la mirra, Melchiorre l’incenso, Baldassarre l’oro. Anche se, ad onor del vero, nell’unico Vangelo che riporta l’evento, quello di Matteo (2,11) nulla è detto né suoi loro nomi né sul loro numero. A questo punto è doveroso ricordare come i Magi costituiscano a Bormio un elemento di particolare tradizione; infatti poco prima della notte d’Epifania, se passeggiando si incontra un amico allora lo si saluta lanciando quanto più tempestivamente possibile al suo cospetto la parola gabinàt, e chi per primo è “colpito” dal saluto deve pagar pegno immediatamente con un piccolo dono. Con molta probabilità la parola è derivata dalla lingua tedesca dove gabe significa dono e nacht notte, e quindi ecco spiegata la tradizione che assegna il tempo alla notte dei doni dei Magi. Devo confessare che talvolta ho vinto il duello celandomi nelle vesti dello sprovveduto forestiero (survegnì, come meglio mi classificano i bormini) cogliendo l’interlocutore in modo affatto inatteso; ma adesso ormai mi conoscono tutti, qui nella Magnifica Terra, e non incanto più nessuno, anzi. Ritornando alla scena dipinta, è evidente che si tratta di un momento di felicità generale, nella quale perciò stona particolarmente il viso truce del personaggio che si trova nell’angolo in alto a destra, col turbante in capo; mi piacerebbe definirlo “il feroce Saladino”. E su questa via della celia è ancor più curioso Giuseppe, che alle spalle della Madonna, sulla soglia di casa, sembra che tenga nelle mani un moderno microfono, per condurre a dovere la cerimonia arringando la moltitudine di coloro che vi assistono. Mi venga concesso questo breve momento di diritto al gioco, dopo tanta serietà alla quale ritorno prontamente.

Da qui in avanti, lungo la parete rimangono solamente brani sparsi e pressoché illeggibili; giusto il volto di Cristo può essere identificabile, a motivo del fatto che è contornato dall’aureola cruciforme, e forse un angelo, per via delle ali. Nulla più di questo.

 

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ISSN 2284-3620

Ultimo aggiornamento: 19 aprile 2016