Jerago:
l'oratorio di San Giacomo

testo e foto di Ferruccio C. Ferrazza

(visita effettuata nel settembre 2012)

 

NOTA
Il luogo illustrato nell'articolo è di proprietà privata, e come tale non è aperto alle visite.
Solamente grazie alla disponibilità e cortesia dei proprietari ho avuto l'opportunità di esplorare e l'autorizzazione a documentare le mie scoperte.
Sono certo che ai miei ringraziamenti si uniranno anche quelli dei lettori.

 

Il luogo

Mi trovo nella parte meridionale ed occidentale di quell'antica regione, il Seprio, che si spinge dal Lago Maggiore sino a quello di Como, inoltrandosi oltre il confine nazionale nell'elvetico Canton Ticino. Quaggiù il territorio è tagliato a mezzo dal fiume Olona, sulle cui rive si affacciano borghi medievali di illustre memoria come Castiglione Olona, o ruderi ad imperitura testimonianza di battaglie e umane discordie come Castel Seprio.

In questa zona vi è ricchezza di tracce lasciate da un passato laborioso, che si è protratto per diversi millenni; strade di comunicazione per gli scambi materiali tra occidente ed oriente; percorsi di pellegrinaggio da ogni parte d'Europa verso la tomba di Pietro a Roma; le vie del commercio e dell'economia, le vie dello spirito e della cristianità.

Eccomi quindi proprio al centro di uno di questi crocevia, in pieno Medioevo, dove i luoghi di culto rappresentano quanto di più significativo si possa trovare nel contesto del "romanico", non nelle grandi cattedrali, ma nei piccoli oratori campestri, i più presenti divulgatori della cultura e delle storie del Sacro. Per questo motivo ho voluto segnare questo luogo con un titolo ad effetto (direbbero i teatranti), per collegare il ricordo del lettore su un ben più importante obiettivo di pellegrinaggio, tuttora meta preferita di centinaia di migliaia di credenti; là, Compostela, qui, Jerago; tuttavia identico il Santo: là Santiago, qui San Giacomo, il Maggiore, l'apostolo di Gesù.

Eccolo allora, adagiato su un leggero rilievo che lascia intravedere il paese, il piccolo oratorio di San Giacomo, che si nasconde alla vista disattenta, protetto da una coppia di pini, magnifici nella loro imponente altezza.

L'antico oratorio di San Giacomo a Jerago

Sono atteso, accolto e le porte mi sono aperte.

Mi preparo al lavoro, cercando di rilevare e documentare fotograficamente ogni particolare che si proponga alla mia attenzione; tutto, anche se al momento non sono in grado di riconoscerne il motivo.

Mi avvicino con reverente rispetto verso queste cose antiche, timoroso di disturbarne l'anima, timoroso di lasciarvi le mie tracce.

Quando termino, porto con me un bagaglio pieno di immagini, che però in loro racchiudono anche quelle sensazioni che al momento ho congelato in un semplice gesto tecnologico qual'è uno scatto.

E' quando rientro nella quiete del mio studiolo che inizia il vero lavoro, quello più arduo, quello più difficile, ma forse di maggior soddisfazione; prima sono stato un esploratore per sensazioni, ora lo sono per storie. E le storie devono essere lette per essere conosciute, e prima di tutto ricercate e trovate, scoperte insomma, esplorate appunto.

*****

L'esplorazione

Avvicinandosi alla porta d'ingresso si può notare che è sormontata, inserita in un arco a sezioni, da una lunetta in pietra di poco pregio. Consunta dal tempo, forse perché una volta era esposta alle intemperie, sembra mostrare, confusa fra le venature della roccia, una sorta di immagine scolpita che ricorda una croce o una crocifissione. Sembrerebbe trattarsi di un tema classico e più che frequente, al quale dar poco peso. Un primo trattamento grafico di amplificazione dei contrasti induce però a rivalutare la prima impressione. Ci troviamo di fronte ad una figura umana che mostra una postura di potenza: le braccia muscolose, le gambe divaricate. Ai suoi lati si intravedono delle scanalature verticali. Le possiamo tracciare per evidenziarne la struttura. Ed ecco che il ricordo si apre su qualcosa di ben diverso rispetto all'iniziale idea.

Prese quindi ambedue le colonne, su cui era appoggiata la casa, afferrandole l'una colla destra l'altra colla sinistra e gridando: «Muoia io insieme coi Filistei», scosse con grande impeto le colonne;…

Questo si legge nell'Antico Testamento (Giudici, 16, 29); ed ecco allora che qui ci appare con chiarezza la figura di Sansone, nella sua iconografia classica, addirittura con la fascia a coprire fianchi ed inguine. L'esegesi medievale ne farcì la storia di svariati elementi simbolici, tra questi quello qui rappresentato per molti è significato di resurrezione, e quindi si potrebbe correlare proprio all'immagine del pellegrino, che nel raggiungere la sua meta completa l'espiazione, e ritorna a nuova vita. Nulla di meglio per un San Giacomo.

 

E' da aggiungere che l'episodio qui riprodotto non è così facile da trovarsi rappresentato in pitture o sculture; infatti lo è molto di più quello nel quale si racconta di Sansone che squarciò un leone a mani nude. Forse che ci troviamo di fronte ad una piccola rarità iconografica?

Non siamo nemmeno entrati che già ci troviamo immersi nel piacere della scoperta.

E' l'ora di varcare la soglia.

Jerago: oratorio di San Giacomo - interno

Anche se lo sguardo viene attirato quasi magneticamente dalla zona absidale, tuttavia è guardandoci attorno che scopriamo la figura di colui al quale la devozione popolare ha dedicato la chiesuola. Stringe nella mano destra un tipico bastone da pellegrino, mentre con la mano sinistra sorregge un libro, e ci guarda dritto negli occhi, come volesse scrutare nel profondo dell'anima nostra; è proprio San Giacomo il Maggiore, uno dei dodici Apostoli, patrono di coloro che viaggiano per raggiungere sante mete. Una piccola nota è opportuna, in relazione al libro che tiene nella mano. Da molti è identificato con il Vangelo o con la Bibbia, cosa assolutamente vera nella stragrande maggioranza delle immagini di santi. Con San Giacomo tale interpretazione è invece da ritenersi errata. Il libro è molto probabile che sia uno specifico testo, particolare per il Santo, e conosciuto come Liber Sancti Jacobi o anche come Codex Calistinus, redatto agli inizi del 1100; oltre ad illustrare storie in gloria di San Giacomo conteneva anche una vera e propria guida turistica per coloro che avessero ad affrontare uno dei tanti Caminos verso Compostela. Curiosità per curiosità, la storia di questo libro ha date molto recenti nella sua cronografia; conservato nella cattedrale di Santiago de Compostela, nel luglio 2011 è scomparso, rubato con evidente destrezza, ma è ricomparso proprio recentemente ad un anno di distanza nel luglio di quest'anno 2012, ritrovato durante una perquisizione di Polizia nelle vicinanze della cittadina spagnola. Deo Gratias.

Mantenendo la massima riverenza, rivolgendogli le spalle si rivela sulla parete opposta un'altra immagine a piena figura, o meglio, direbbero i fotografi "a piano americano", cioè gambe escluse. E' un eremita, un asceta, mirabilmente rappresentato dalla capigliatura scarmigliata e barba incolta, frutto della sofferenza di vita nell'ardente e riarso deserto, e dal vestito di pelo, ricavato da quanto gli animali offrono nei suoi dintorni. Nessun dubbio nell'identificazione, visto anche il cartiglio che un piccolo agnus dei, da lui stesso indicato, gli mantiene spiegato in fronte e dove si legge con chiarezza la frase evangelica che da sempre lo contraddistingue: «ecce agnus dei, ecce qui tollit peccata mundi». Come non riconoscere San Giovanni Battista? Peraltro sulla chiarezza di lettura della frase sul cartiglio sarà opportuno parlarne, ci ritorneremo forse più avanti, ma comunque, oh se ne parleremo.

Di tutt'altra semplicità di lettura il cartiglio di una splendida Madonna in trono con il Bambino. Sullo sfondo di un complesso disegno damascato si sviluppa la richiesta del penitente inginocchiato: «o Mater Dei, miserere», abbi pietà di questo povero peccatore ed accetta il dono che ti offre. Il Bambino sembra accogliere la richiesta con una atto di benedizione. Da notare che la mano benedicente non è dipinta secondo la tipologia della tradizione iconografica, pur sviluppata in diverse modalità, ma con una posizione assolutamente atipica, a mano aperta, come se il Bambino, più che benedire, volesse avvicinarsi per porgere una carezza. Ma altra è la curiosità che balza agli occhi di chiunque osservi il riquadro; a fronte di un accurato dettaglio e di un eccellente sfumo nell'immagine della Madonna e del Bambino, contrasta la figura dell'offerente, quasi fosse un abbozzo, un disegno preliminare. Una vendetta dell'artista perché non fu pagato il suo lavoro? Oppure il committente lo cacciò per villania nei confronti della modella? Mistero sepolto per sempre.

A fianco, i miseri resti di un Biscione di viscontea memoria e della "firma" datata dell'artista. Una forma classica, che qui si trova con le parole traslate in posizioni diverse rispetto alla più tradizionale hoc opus fecit fieri, ma pur sempre con lo stesso significato d'orgoglio che ha l'artista nel lasciare il suo nome a memoria del suo lavoro ed impegno. Tuttavia una traduzione corretta porterebbe a pensare che qui non si proponga il nome dell'artista, ma bensì del committente, proprio perché fecit fieri hoc opus, così come troviamo nello scritto, avrebbe il significato di rese possibile quest'opera e non di fece quest'opera. Indagando nella frammentarietà delle parole e nello svanire delle lettere, sembrerebbe però di intravedere un certo "Guidolus de"; orbene (mi piace usare questo termine quando sono vicino ad una rivelazione, vera o presunta che sia) in una pergamena del XIV secolo, di cui si ha certezza che fosse conservata nella Biblioteca Trivulziana di Milano nel 1884, si legge

MCCCLXXXI die Martis vigesimo mensis augusti detentus fui in castro porte Romane ego […illeggibile…], in quo castro tunc temporis morabatur dominus Guidolus de Vicomercato; et hoc mandato illustrissime et ex.m domine domine Regine de la Schalla

Che sia proprio costui, uno sconosciuto nobiluomo di Vimercate, che ha commissionato l'opera? Solamente con strumenti più adeguati rispetto alla semplice indagine fotografica si riuscirebbe a rivelare nell'affresco quanto corroso ed offuscato dal trascorrere inesorabile del tempo. Sarebbe proprio una bella scoperta. E non abbiamo nemmeno raggiunto la metà di quanto ci appare in questo oratorio di campagna, che già ci appare non essere poi così modesto. Ed allora, proseguiamo con l'esplorazione.

Sulla parete di sinistra si rileva una piccola parte dipinta, nella parte più alta, a ridosso del tetto.

Nel dettaglio dell'immagine di centro si rivela sullo sfondo una chiesa, in primo piano un portale merlato e colonnato tra due torri, forse un castello o un borgo difeso, poi alcuni personaggi che osservano qualcosa che sembra stupirli. Sopra costoro emerge una scritta che, si presume, possa illuminare l'osservatore sulla situazione rappresentata. In realtà qui ci troviamo di fronte ad una difficoltà di interpretazione, dovuta in particolare alla specificità della tipologia di scrittura, che si avvale di abbreviature che richiedono un'ardua impresa di traslitterazione. Ho dovuto chiedere aiuto allo storiografo, al paleografo ed al linguista per avere almeno un'idea di cosa vi sia scritto; forse

IVIT L[AE]TE (?) PAVP(ER) S[ANCTUM?]
(?) P(RAE)S(ER)VANS V[A]L[IDE?]

E se molti sono i dubbi espressi da punti interrogativi, ancor più lo sono quelli circa l'evento che l'artista volle raccontarci; parole e frasi che, a memoria, non trovano riscontro nelle Scritture. Un ottimo tema di ricerca ed argomento da approfondire; e ci vorrà del tempo…

Ma in questa zona troviamo anche un'altra sorpresa di particolare interesse. Sopra al dipinto, appare una decorazione a bordeggiare l'attacco del tetto. La rappresentazione, di pura grafica, mostra un fregio ricco di meandri, una sorta di labirinto qui rappresentato in prospettiva tridimensionale, come fosse osservato dall'alto, con il percorso delimitato da pareti che sembrano "uscire" verso l'osservatore. A ben guardare, il punto di osservazione qui sviluppato non è però quello di chi si trovasse a livello del pavimento, cioè nella posizione naturale per generare l'effetto prospettico previsto, bensì quello di un osservatore che levitasse, con la testa a livello del soffitto. Probabilmente l'artista fu tratto in inganno senza che se ne rendesse conto, forse perché il suo lavoro si svolgeva su un ponteggio che lo portava a quel livello, e quindi proprio in tal modo avrebbe visto il labirinto e le sue pareti. Ma non è tutto. Al centro del fregio abbiamo una parete di colore marrone che si sviluppa incrociando sopra una parete di colore verde, come se esistessero due diversi livelli, l'uno sovrapposto all'altro; ma il resto della struttura non si conforma a questa idea; sembra quasi di trovarsi di fronte ad uno di quei disegni il cui tema, pittoricamente delineato ad arte, porta la nostra visione a confondersi in un paradosso (io ricordo alcune opere di Escher, per esempio). Una anticipazione di costruzione impossibile, un vero e proprio ante litteram?

Cambiamo posizione e rivolgiamo la nostra attenzione alla parete di fronte dove compare l'immagine di un uomo disteso, fregiato con l'aureola dei santi, e sfregiato dalle fitte martellature inferte per poter consentire che attecchisse la copertura di un pesante scialbo. Fu un brutto periodo quello della Riforma, le cui idee pervasero, seppur a margine del nucleo generante ed in tempi più diluiti, anche le piccole strutture come quelle degli oratori: l'imperativo è coprire le immagini dei santi, perché non esiste alcun intermediario tra l'uomo e Dio, al di fuori di Gesù Cristo. Ed il periodo Barocco sguazzò velatamente in questa ideologia, occultando però non tanto l'immagine sacra del Romanico medievale, quanto piuttosto l'immagine ritenuta brutta, non idonea ad integrarsi in quell'estetica sfolgorante della nuova architettura ecclesiale settecentesca. Mi sono sempre domandato se colui cui veniva affidato l'incarico della martellatura non si sentisse almeno un poco come un sacrilego iconoclasta; qui troviamo un esempio lampante di quanto avvenne. Perciò in noi il piacere dello scoprire, in ogni senso letterario del termine, è ancor maggiore. Osserviamo allora ciò che è riemerso; il Santo è carponi, dal nulla compare, appoggiata sul suo collo, la lama di una spada. La domanda di chi sia costui non trova alcuna risposta né immediata né frutto di analisi, nessun elemento identificativo né attributo ci soccorre nell'identificazione. E' una mano anonima, che certamente ha operato prima della copertura ma quando l'affresco già si era deteriorato, quella che, con un graffito di scrittura incerta, ha restituito un nome a colui che sta per essere ucciso e decapitato: seppur a fatica si legge Jacob, cioè Giacomo, San Giacomo. Ma se il quadro rappresenta un evento cardine della sua biografia, allora possiamo pensare che forse in questo edificio vi fossero altre immagini che ne scandivano momenti di vita. Se ci guardiamo attorno non troviamo alcuna evidenza di questo; un vero peccato. Al contrario scopriamo anche i segni di un altro, per così dire, graffitaro… un po' presuntuoso.

A questo punto, ormai permeati nello spirito dell'esplorazione, tra una scoperta e l'altra, siamo giunti al presbiterio. Su entrambi i lati, all'esterno del catino absidale, troviamo una nicchia, simile ad un piccolo focolare. Sul fondale sono dipinte immagini dal tratto deciso, a color d'ocra. In quella di sinistra troviamo due figure, in piedi, vestite con una tunica che le ammanta in morbide falde; l'una stende le mani avanti mentre l'altra, alle sue spalle, osserva con attenzione, le braccia aperte. A voler dare il giusto credito ai più quotati studiosi di iconografia, nessuna ipotesi può essere espressa sulla loro identificazione; infatti l'assenza dell'aureola (che gli esperti chiamano nimbo) li esclude dalla schiera dei Profeti, degli Apostoli, dei Martiri e dei Santi tutti, perché è già dal IV secolo in poi che le pitture di questi personaggi la portano in evidenza. E se fosse proprio questo l'elemento caratterizzante, significativo, quello che consente di far risalire tali rappresentazioni ad epoche precedenti? Forse potrebbe illuminarci la capigliatura, sempre che non si tratti invece di un copricapo a cappuccio oppure di una sorta di velo o turbante. Difficile a dirsi. Troppi misteri in una singola immagine per esprimere qualsiasi opinione che possa avere un minimo di verosimiglianza. "Ai posteri l'ardua sentenza".

Passiamo allora alla nicchia di destra, di tutt'altra natura. Si tratta di una rigogliosa palma, che mostra, inchinandosi, i suoi dolci frutti. Normalmente questa pianta è collegata, nell'iconografia, direttamente al martirio: tutte le immagini dei martiri ne reggono un ramo in mano. Tuttavia in questo caso ci addentriamo in qualcosa di diverso, in un riferimento più antico e come tale meno rappresentato, forse addirittura escluso dall'ufficialità. Ed è proprio la presenza dei frutti che può indurre verso questa strada. Prima però è indispensabile fare un po' di storia dei testi sacri; siamo nel IV secolo (non lo abbiamo, per caso, richiamato poco fa?) ed i Padri della Chiesa, nella confusione documentale dell'epoca, identificano quali siano i testi sacri affidabili, cioè i cosiddetti "canonici", per contrapposizione a quelli non verificati, cioè i cosiddetti "apocrifi". Proprio in uno di questi ultimi si racconta della palma e dei datteri; si tratta del vangelo apocrifo dello pseudo-Matteo (XX,2), dove si racconta della fuga in Egitto di Gesù con la sua famiglia; stremati dall'arsura del deserto, ecco cosa si legge

Allora il piccolo Gesù, che con il volto sorridente riposava nel grembo di sua madre, disse alla palma: - Piegati, albero, e ristora mia madre con i tuoi frutti! - E subito, a questa voce, la palma chinò la sua cima fino ai piedi di Maria, e da essa raccolsero frutti con cui tutti si saziarono.

Ed anche l'acqua sgorgò dalle radici della palma, donando ristoro e rinnovando la vita in questi particolari pellegrini. Rappresentazioni di santi senza aureola e di episodi da vangeli apocrifi, e ricorrenze del IV secolo; forse abbiamo intercettato qualcosa di tanto antico da avvicinare la loro nascita a quella della Chiesa stessa. Questo è verosimile.

Magnifico doveva apparire il catino absidale per chi fosse entrato in questo oratorio, ricco di colori e di suggestioni generate dall'imponenza dei personaggi raffigurati, una vera e propria miniatura delle absidi di quelle cattedrali che ornavano le città medievali e che vi si ergevano a fulcro della religione. I dipinti posti ad intimorire il visitatore nel peccato, e nel contempo a rassicurare gli uomini di Chiesa. Qui è osservata una disposizione classica, su tre diverse fasce sovrapposte.
Nella fascia superiore è molto probabile, se non certo visti gli indizi superstiti, che vi fosse la rappresentazione della cosiddetta Maiestas Domini, cioè il Cristo racchiuso in una iridescente forma a mandorla, con ai lati i simboli dei Quattro Evangelisti, una visione che trova una definizione specifica nel termine Tetramorfo. Ed è proprio quanto rimasto delle pitture che ci conforta su questa impostazione. A sinistra non vi è difficoltà nel riconoscere il bue alato simbolo di Luca. Forse più difficile da riconoscere, ma comunque perfettamente in sincronia con l'idea generale, il leone alato simbolo di Marco che si mostra in tutta la sua ferocia, occhio truce e dentatura ben in evidenza, quasi un demone. Persi per sempre l'angelo di Matteo e l'aquila di Giovanni. Si tratta comunque di un'immagine ricorrente nelle strutture iconografiche medioevali che si articola sulla base di passi del Vecchio Testamento, in particolare su quanto racconta Ezechiele, poi ripreso nell'Apocalisse di San Giovanni. Ezechiele ci illustra l'apparizione che ebbe della gloria del Signore (Ez,1,10) proprio con parole che suggeriscono l'immagine che stiamo osservando.

L'aspetto delle loro fattezze era il seguente: uno avea le fattezze d'uomo; uno le fattezze di leone, quello a destra dei quattro; uno le fattezze di bue, quello a sinistra dei quattro; e uno le fattezze d'aquila, a ridosso dei quattro.

Esattamente disposti come in questo caso, quantomeno per quelli che restano.

Scendendo di una fascia, come i canoni iconografici vogliono che vi sia ed ai quali ci affidiamo per questa identificazione, troviamo il Collegio Apostolico, cioè l'insieme di quei dodici apostoli scelti da Gesù. Tuttavia quale sia l'esatta sequenza delle figurazioni non è certa né tanto meno consolidata, neppure statisticamente; ogni studioso presenta una sua sequenza, che talvolta differisce seppur di poco, ma tuttavia non è identica alle altre. E quindi anche in questo caso non siamo in grado di dire nulla di verosimile. L'unica possibile valutazione è di tipo generico; nelle figure rimaste intere, i personaggi che tengono in mano un libro sono evangelisti, mentre gli altri hanno semplicemente un rotolo; nel nostro caso abbiamo il libro nella mani di coloro che si trovano in settima e ottava posizione, e sfortunatamente ciò non ha alcun collegamento con gli elenchi canonici, il più seguito dei quali, cioè quello che compare nella Patrologia Latina di Sant'Agostino, pone gli Evangelisti in tutt'altra posizione così come nell'elenco che ne fa Matteo nel suo Vangelo (Mt,10,2). Sarà per questo motivo che frequentemente, ringraziando gli artisti, con ogni apostolo viene dipinto un particolare attributo identificativo, una frase latina, oppure addirittura il nome. Ma qui non si ha nulla di tutto ciò, e quindi rimaniamo nell'irresolubile dubbio sulla loro identità. In realtà, una scritta ci sarebbe, proprio sopra questa fascia centrale, ma sulla questione delle scritte è meglio porre un sigillo. Tuttavia è d'obbligo una nota finale su questa fascia, ed è quanto relativo alla ripartizione delle figure, che non sembra per nulla casuale; in pratica osserviamo che le finestrelle separano gli Apostoli in quattro gruppi di tre; cerchiamo allora di capire se vi sia una qualche ragione. Nel Medioevo si celebrava un giorno di festa il 15 di luglio, cancellato poi nel XVIII secolo; la ricorrenza era riservata alla Divisio Apostolorum, cioè alla missione affidata dal Salvatore ai suoi Apostoli, inviandoli a predicare ai quattro angoli del mondo: ecco, appunto come da tradizione, quattro gruppi di tre. E forse la scritta che abbiamo tralasciato di analizzare proprio a questo si riferisce. Si potesse leggere ed interpretare, probabilmente ci porterebbe a riconoscere una rara raffigurazione di quella particolare idea iconografica.

Abbassiamo ora lo sguardo, un po' per mantenere una certa reverenza per il luogo, un po' perché vi si viene indotti dal tentativo di focalizzare la visione sui fantasmi che emergono dalla nebbia biancastra dell'ultima fascia, quella appena sopra il pavimento, lo zoccolo dell'abside. Solamente grazie ad un forte trattamento grafico sulle fotografie originali ci viene consentito di amplificare la memoria che le immagini volevano trasportare nel tempo, ed è così che i fantasmi riprendono corpo. Ma è l'accoppiamento sequenziale di tre immagini tra quelle rivelate che ci può portare ad una considerazione che illuminerebbe definitivamente la questione di cosa vi sia rappresentato; nella zona sinistra abbiamo un uomo con un ramo fiorito in mano, seguito alla destra da un cavaliere sul suo palafreno, ed in seguito un uomo che maneggia un lungo bastone. Frequente in questa zona della absidi, proprio sotto il tema sacro degli Apostoli, si trova il tema profano del lavoro dell'uomo nei vari mesi dell'anno: il ciclo iconografico dei mesi, così ben diffuso nelle nostre aree insubriche. Ed è proprio quello che vediamo qui rappresentato, ben identificabile nella triade formata da Aprile, che regge un ramo in fiore, seguito da Maggio a cavallo, e poi da Giugno che taglia le messi. Peraltro una pittura decisamente d'epoca più antica rispetto a quelle che prevalgono, quattrocentesche, con quadretti incorniciati e con tratti a vivaci colori; un'ulteriore testimonianza di come questo oratorio ci stia parlando con frammenti di un linguaggio che risale nel tempo oltre le memorie scritte.

Un ultimo sguardo, e compare anche qualche particolare che stimola la fantasia. Nella parte superiore della strombatura delle finestrine, un disegno si traduce in un Golgota stilizzato; da un'altra parte sfavilla di colore il turgore delle fragole, forse a ricordo della Madonna che in un vicino paese salvò due giovani fanciulle proprio mentre raccoglievano fragole.

Per ben concludere, mi viene spontanea l'aggiunta di una valutazione finale. Si incontrano in diversi punti alcune scritte, che hanno richiesto un lavoro piuttosto impegnativo per essere correttamente interpretate; si è trattato quindi di ricorrere a conoscenze di paleografia e di linguistica, molto al di là delle mie capacità interpretative. È quindi evidente che i destinatari del messaggio non potevano essere i pellegrini di passaggio, uomini semplici , che anche se in grado di riconoscere i caratteri e di leggere, tuttavia lo potevano fare solamente con frasi, parole presentate con lettere per esteso, e non certo con le abbreviature che qui si incontrano, tipiche della cultura di letterati e studiosi in genere. Mi richiama alla mente quanto trovai scritto in un testo d'origine anglosassone sul simbolismo delle chiese nel medioevo. Vi si legge, nella mia imperfetta traduzione:

Le pitture e gli ornamenti delle chiese, per gli ignoranti si sostituiscono agli insegnamenti scritti. C'è un'enorme differenza, dice San Gregorio, tra adorare un'immagine ed apprendere, per mezzo di questa immagine, ciò che si deve adorare. La Scrittura è, per colui che sa leggere, quello che è un quadro per gli ignoranti, che non possono fare altro che guardare. Attraverso questo mezzo, quelli che non sono istruiti imparano con la visione ciò che devono osservare, e le cose sono lette, sebbene le lettere siano ignorate.

Ecco perché è verosimile pensare che questo oratorio racchiuda messaggi da persone erudite per persone erudite, in grado non solo di comprendere a pieno il senso dello scritto, ma altresì di leggerlo nel senso proprio del termine.

*****

Ho terminato il mio lavoro.

Mi guardo attorno per controllare di non aver tralasciato nulla; non sono occasioni che si possono ripetere.

Spengo le luci, come mi è stato insegnato.

Esco ed accosto il portone, in attesa che altri lo chiudano a protezione dei tesori che questo piccolo oratorio racchiude.

Mi allontano con una convinzione nel cuore: questo è veramente un altro Santiago; non è un semplice punto di transito del pellegrino diretto a Compostela; di qui non passano quei caminos.

Questo è Santiago de Jerago.

 

 

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ISSN 2284-3620

Ultimo aggiornamento: 19 aprile 2016