Pombia:
San Vincenzo in Castro
testo e foto di Ferruccio C. Ferrazza
(visita effettuata nell'aprile e nel giugno 2007)

Il paese
Pombia è un paese sconosciuto.
Anzi molti sono coloro che, quando ne accenno il nome, dichiarano di
conoscerlo perfettamente ma immediatamente scopro che lo identificano con Varallo Pombia;
vicino, certo, ma altro "campanile", altra gente quij da Varàl, come
direbbe un vero pombiese usando quell'incomprensibile dialetto locale ormai pressoché
perduto.
Del paese l'attrattiva che veramente tutti conoscono è invece quel parco dove ognuno può
entrare con la propria macchina, novello esploratore safarofilo, e dove alcuni animali,
più o meno selvaggi, possono accerchiare il veicolo dando al conduttore ed ai passeggeri
nel contempo sia il senso di sicurezza sia il senso dell'avventura. Ma anche in questo
caso, accennare con qualcuno al luogo significa trovarsi nuovamente con il collegamento
geografico su Varallo.
Ecco. Pombia è un paese sconosciuto, o meglio, ignorato.
Per fortuna è la storia, quella vera, che ne parla, ed anche
abbondantemente, dai tempi di Roma sino al tardo medioevo. Durante tutto quel periodo
Pombia si rivela essere stata un centro d'importanza strategica tale da richiedere un
impianto difensivo di particolare rispetto, a garanzia della tranquillità esistenziale
dei personaggi che vi risiedevano. Architetture robuste che oggi ancora testimoniano di
tali nobili trascorsi.
Ma oggi parleremo d'altro.
A Pombia si trova una chiesa altrettanto sconosciuta quanto lo è il
paese. Tuttavia è un edificio che racchiude un esempio di arte romanica forse unico nel
suo genere; e si parla dellanno Mille, secoli più, secolo meno.
Il percorso
Arrivare a Pombia non è facile; in realtà le strade sarebbero molte,
ma il paese è in posizione, direi quasi, "timida", un po' ritratta dai grandi
percorsi, ed è anche una sorta di capolinea, dove ci si arresta senza poter andar oltre.
Da qualsiasi parte si arrivi, la prima visione di riferimento è un
castello d'aspetto antico, ma di moderna fattura, oggi sede di un ristorante il cui nome
si ispira alla collinetta sulla quale è posato. Ovunque si rivolga lo sguardo, il paese
presenta in molte prospettive la sua anima agreste che tuttora
permane come caratteristica di vita e come tale induce nel passante un senso di
tranquillità inusitato in insediamenti urbani di altre dimensioni ed in altri luoghi.
Si entra in paese per l'unica strada lastricata e lo si
attraversa da un capo all'altro, in tutto forse un par di cento metri. Un arco, simile ad un vecchio
varco nella cinta muraria, ci segnala che il nucleo residenziale è terminato, e proprio
qui troviamo un'indicazione stradale che ci propone la direzione da seguire per
raggiungere il nostro obiettivo: la chiesa di San Vincenzo in Castro. O, per dirla con i
pombiesi, la geèsa d'in castè, con quella "s" che suona come l'acqua
che scorre nel vicino fiume, il Ticino, incanalandosi e scivolando sui sassi arrotondati
dal un millenario logorio; sssssssssshhhhhhhhh.
E' andando per questa breve salita che si entra nella zona più antica
del paese, il castrum dei romani, il borgo protetto dalla natura dei
luoghi e dalle costruzioni delluomo, le residenze nobiliari, quello che la
moderna toponomastica stradale ha voluto interpretare nel più semplice termine del castello. Molti sono i segni
che si incontrano e che ricordano l'origine del luogo: massicci contrafforti, residenze signorili, e la
chiesa con il suo campanile.

La chiesa di San Vincenzo: una ricognizione all'esterno
Quando si arriva sul piazzale, che si apre sul retro ovvero sul lato
orientale della chiesa, è lampiezza del panorama che per primo
attrae. Basta una giornata di limpida atmosfera, e questa consente di spingere lo sguardo
al di là della Pianura Padana, sino agli Appennini; se non ci fossero, si andrebbe ben
oltre, interrotti solamente dalla caduta naturale dell'orizzonte.
Di certo, è di tutta evidenza di quanto questa posizione abbia avuto un
valore strategico per chi avesse voluto tenere sotto controllo non solo gli accessi al
castro, ma addirittura i transiti in valle, lungo le sponde o sulle acque del Ticino.
Verosimilmente ci troviamo di fronte ad uno di quei posti di avvistamento, inizialmente
instaurati in epoca romana, che costituivano una catena continua di torri di segnalazione
a vista, poste sul confine di una sorta di limes franco che in questa zona si propagava
sul tracciato di una strada che si estendeva da Novara sino a Como, per inoltrarsi poi
sino ad Aquileia, e che nei dintorni dell'anno Mille delimitava il regno d'Italia con
quello dell'alta Borgogna. Non a caso qui ci troviamo a pochi passi della residenza di
quell'Arduino, dichiarato nel 1002 primo Re d'Italia, che alcuni vogliono
"d'Ivrea", altri più propriamente "da Pombia". Ma di questo abbiamo
già parlato diffusamente.
E proprio in questo periodo storico, secolo più, secolo meno, viene
collocata la data di costruzione della chiesa, pur se tuttora permane una continua
elaborazione di opinioni e valutazioni. E' da dire che alcuni studi, che analizzano sia
gli aspetti architettonici sia la tecnica edilizia, portano peraltro a far risalire la
prima costruzione addirittura ad epoca longobarda, attorno al VIII secolo dopo Cristo.
Per ora lasciamo da parte l'incanto del panorama e proseguiamo
l'osservazione lungo il lato settentrionale della chiesa, dove si apre la porta di accesso laterale
all'aula, protetta da un piccolo portichetto. Tutto ciò che oggi si vede è il frutto
di una serie di restauri, iniziati negli anni '60 del secolo scorso e talvolta condotti in
modo maldestro come vedremo, che hanno voluto riportare in luce l'originaria struttura,
eliminando quanto fosse stato impiantato di successivo al periodo romanico, ma che tuttora
permane in evidenza su diversi
punti dell'edificio.
Avvicinandosi alle mura si ha la possibilità di scoprire quanto siano
eterogenei i materiali di costruzione, dai rotondi sassi offerti dal greto del vicino
fiume ai mattoni manufatti e dalla cottura approssimativa, probabile ricavato dallo
spoglio di edifici precedenti la fondazione della chiesa, il tutto però assemblato con
maestria e gusto artistico nell'intento di creare un effetto esteticamente piacevole;
insomma un'ulteriore dimostrazione di quanto importante fosse l'edificio nel contesto del
luogo e delle residenze che vi facevano contorno.
L'antichità del luogo è oltremodo confermata da alcuni reperti, sparsi
nei dintorni, e di epoca assai remota; un coperchio di sarcofago
trasformato in abbeveratoio, perfino un'ara (forse funeraria) di epoca romana quale pietra d'angolo.
Raggiungendo una posizione che sia prospiciente la facciata, questa
orientata come da tradizione con un'angolazione che di poco non raggiunge il ponente, si
ha modo di apprezzare compiutamente la differenza tra i materiali di
costruzione del campanile, per gran parte mattoni, nei confronti del nartece, dove predominano
largamente i sassi di fiume, variegati per colori e forme e con spunti decorativi.
A proposito del nartece, questo è un esonartece e si estende dal
frontone tanto da indurre la sensazione che si tratti di costruzione instaurata in un
secondo tempo, non presente nell'originale progetto architettonico, forse frutto
dell'intento specifico di proteggere una sepoltura che si trova all'interno. Ma ci si
rende conto che potrebbe racchiudere qualcosa di ancor più interessante solamente se si
procede ulteriormente nella visita esterna; verso la parte meridionale, infatti, in
posizione sopraelevata rispetto al piano d'ingresso si separa dalla parete una struttura
semicilindrica nella quale sono ricavate due finestrelle, un impianto
in tutto e per tutto simile alla prospettiva esterna degli absidi principali.
Una curiosità che ci porterà effettivamente a scoprire la parte più
significativa del complesso ecclesiale.
Entrando all'interno del nartece al piano
terra, per così dire, l'ambiente propone motivi di interesse, di cui peraltro ho già
parlato in un'altra occasione di visita, specificamente sulla tomba ad arcosolio, forse
sepoltura per un componente della stirpe reale che risiedeva nel castro, in quel Regno
d'Italia che volgeva allora a quel declino che si può definire concluso con la morte
d'Arduino.
Ritornando ai tempi nostri, lascia comunque molto perplessi la scelta
della fattura nella ricostruzione della scala d'accesso alla chiesa. Sarà certamente
molto funzionale per le cerimonie, e fors'anche per la legge che impone misure di
sicurezza a salvaguardia della salute dei visitatori, però
La chiesa di San Vincenzo: all'interno
Non sempre il desiderio di esplorazione può soddisfarsi secondo i
nostri voleri. Le chiese, in particolare, sono diventate un territorio quasi
inaccessibile, soprattutto quando si trovano in contesti più o meno isolati. Talvolta a
suggerire una protezione occlusiva è la necessità di mantenere in sicurezza le opere
d'arte che racchiudono, talaltra è il semplice allontanarsi altrove da parte di chi ne ha
custodia per dovere sacerdotale. Il risultato, in ogni caso, è l'inaccessibilità, la
chiusura e, per conseguenza, l'invisibilità. Ed a tale regola non sfugge nemmeno questa
chiesa, che possiamo trovare aperta solo nelle occasioni particolari o durante le rare
funzioni periodiche che ancora vi sono comandate.
Una grande fortuna, quindi, quella di essermi trovato di fronte al portale spalancato, quasi mi
volesse accogliere in un inaspettato abbraccio. E' tempo di pulizie, a quel che posso
capire osservando alcune figure aggirarsi per l'aula con scope e stracci, impegnate in
quell'umile lavoro, condotto nel più completo anonimato, che solamente può trovare
stimolo in una profonda volontà e senso di servizio verso la comunità. E forse senza
alcun'altra gratificazione, e nemmeno con la consapevolezza che con tale comportamento e
dedizione si provvede a garantire la conservazione di tesori di inestimabile valore, non
tanto economico quanto storico.

La prima impressione che si ottiene entrando non è dissimile da quella
che si otterrebbe in una della tante chiese rinascimentali di cui l'Italia è costellata.
Qui però ancor di più sugli altri prevale il senso della sorpresa, generato dal forte
contrasto tra quanto l'esterno sembrava promettere e quanto l'interno viceversa rivela.
Non è da considerarsi un'impressione negativa, ma piuttosto inattesa, sconcertante;
addirittura è l'ampiezza interna che, con senso di inaspettata vastità, sembra
contrastare con le misure esterne che esprimono una raccolta modestia romanica: una
illusione della vista. Anche l'impianto organistico della
controfacciata contribuisce a rafforzare questa impressione.
Per questo motivo è una chiesa da osservare con maggior attenzione per
scoprire la curiosa convivenza di elementi di devozione con caratteristiche che li pongono
tra loro in opposizione, ma non in antitesi. Piccoli, come l'antica acquasantiera, e
grandi, come la riproduzione plastica dell'apparizione della Vergine.
Antichi, come l'affresco
della Panaghia Galaktotrophousa cioè una suggestiva Madonna del latte, e
moderni, come le scene brillantemente smaltate della Via Crucis. In piena luce,
come le pareti laterali alla sinistra
ed alla destra
dell'altare con le presenze a figura intera degli Evangelisti assieme a San Pietro e San
Paolo, e nell'oscurità, come i simboli dei Quattro Evangelisti
che decorano una piccola volta laterale. Testimonianze di epoche diverse, di eventi
trascorsi, del travaglio che ha accompagnato la vita dall'edificio, delle sue ferite e delle sue cicatrici, ovunque presenti.
Mantenendosi nella zona del presbiterio, nella navata di sinistra si
trova l'altare di San
Giuseppe ed un quadro ne evoca la dedicazione. Qui è opportuno aprire una parentesi
per valutare con attenzione il soggetto e l'evento che il dipinto vuole rappresentare.
Che si tratti di San Giuseppe, lo sposo di Maria, non è in dubbio, anche a motivo della
esplicita indicazione posta sopra il dipinto. Assolutamente discutibile, invece, è
l'interpretazione dell'evento che ne danno studi e testi quando ne parlano, affermando che
si tratta del "transito" del santo, cioè della sua morte. E' la stessa
iconografia consolidata a smentire una tale opinione; si trattasse realmente della morte,
il santo verrebbe rappresentato canuto e sofferente nel letto di morte, secondo quanto
descritto da Isidoro Isolano nella sua opera cinquecentesca "Summa de donis
Sancti Joseph" dove si legge, raccontato per bocca di Gesù stesso: "Dopo
aver pregato, ritornò a Nazaret; entrò in casa e non reggendosi più in piedi cadde sul
suo lettino e la sua infermità si aggravò di molto
Allora io mi sedetti al
capezzale di Giuseppe e la Madre mia si sedette ai suoi piedi
E vennero Michele e
Gabriele da mio padre Giuseppe. Così spirò in pazienza e letizia.". Ecco che
l'iconografia classica lo pone non solo sul letto di morte, ma anche assistito da Gesù e
da Maria, con gli Arcangeli che discendono dal cielo. E' indubbio che la scena riprodotta
nel quadro non può in alcun modo riferirsi al "transito". Viceversa è
certamente la situazione descritta nel Vangelo di Matteo (I,20) che dice: "Mentre
però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del
Signore
". Qui infatti abbiamo un Giuseppe ancor giovanile, con la folta barba
nera. Peraltro questa non è l'unica occasione nella quale appare un angelo a Giuseppe;
sempre nel Vangelo di Matteo ci sono altri due avvenimenti similari (II,13 e II,19) quando
un angelo gli ordina sia la fuga sia il ritorno dall'Egitto. Peccato che nulla nel dipinto
ci porti ad una valutazione certa di quale evento si tratti tra i tre possibili. Comunque
si è di fronte ad un'immagine iconograficamente di gran lunga più rara di quella
ipotizzata con il "transito". Una bella sorpresa.
Nell'opposta navata laterale si trova un altro quadro che richiede
attenzione, questa volta non tanto per problemi di interpretazione, quanto piuttosto
perché richiama alcuni significativi eventi storici di Pombia e, più in generale, del
novarese. Vi è raffigurato un sacerdote che alza una crocifisso sopra alcune persone
stese a terra, e che appaiono come sofferenti; sullo sfondo una nave ed un porto. Si
tratta della raffigurazione di uno dei tanti momenti della vita missionaria, in viaggio
per mare lungo coste lontane verso le Indie più remote ed a portar un miracoloso conforto
ai malati, di San Francesco
Saverio, appunto patrono delle Missioni. Ma quale legame con Pombia? Nella via
percorsa per raggiungere la chiesa, uscendo dal paese si è passato un arco; in quella
posizione si trovano, a livello di strada, due cippi datati 1732 e
scolpiti con simboli che identificano le appartenenze alla Compagnia di Gesù o Gesuiti,
tanto da far pensare che l'oratorio di San Martino, appena qualche metro sopra, sia stato
in loro gestione. Del resto la presenza dei Gesuiti nel territorio novarese è ben
documentata sin da quando, nel 1573, San Carlo Borromeo aprì loro un insediamento ad
Arona, e da qui la loro attività si estese soprattutto verso sud e nei villaggi di
campagna, per poi cessare nel 1773 per soppressione papale. Ecco quindi un buon legame con
il quadro che raffigura San Francesco Saverio, che proprio con Sant'Ignazio di Loyola fu
tra i fondatori della Compagnia. Forse un riconoscimento dei pombiesi all'attività
educativa tipica dei Gesuiti e da loro svolta nel paese.
Il quadro prospettico generale dell'aula si completa con la parte dove
è posto l'organo, cioè
la parete occidentale di controfacciata. L'impianto è del 1700 circa e, sfortunatamente,
sembra che abbia completamente eliminato un affresco che riempiva tutta la parte ora
occupata dalla balconata e dallo strumento; pochi i lacerti rimasti, seppur indicativi
della maestosità che l'opera
pittorica doveva avere in origine.
E' giunta l'ora di cercare la via per raggiungere la zona superiore del
nartece, quella che dall'esterno ha evidenziato in aggetto una struttura absidale.
La cappella del nartece
Attraverso una piccola porta aperta sul
lato destro della controfacciata si scorge una scala in pietra che sale. E' sufficiente
entrare nel piccolo vano per trovarsi di fronte ad un affresco la cui squisita
fattura tenta di riemergere dalle rovine del tempo. Sono ritratte due figure, una femminile e
l'altra maschile, che sembrano intente ad osservare con tenerezza qualcuno o qualcosa che,
ahimè, non c'è più; la donna tiene uno scialle serrato al petto;l'uomo è in secondo
piano e si trova dietro un muretto di mattoni, come fosse affacciato ad una finestra, e
nella mano sembra impugnare una torcia o una clava, un po' in contrasto con
l'atteggiamento amorevole dei due. Cosa si volesse rappresentare rimarrà forse un mistero
per sempre.
Salendo la ripida scala in questo angusto passaggio si arriva
all'altezza della balconata dell'organo e girando a destra ci si trova finalmente sopra il
portico del nartece, dove è ricavata una piccola sala buia, la cui
unica illuminazione proviene proprio da quelle finestre che all'esterno inducevano a
pensare che si aprissero in un abside. Per rivelare il tesoro nascosto è necessario
attendere che l'occhio si abitui alla penombra; ed ecco apparire, come per miracolo, uno scenario fantastico.

Ciò che si vede, esteso su un vasto arco proprio nella zona delle
finestre, è una pittura monocroma con soggetti, a prima vista, animali; in termini
tecnici questo tipo di affresco viene chiamato velarium, perché simula la
presenza di una tenda dipinta e sostenuta da anelli tra loro regolarmente spaziati; e qui
l'effetto è palese. Si tratta con evidenza di un'espressione artistica piena di
simbolismi, che va ben oltre l'aspetto meramente fantasioso. Districare questi messaggi
non è per nulla semplice, e soprattutto è una pratica che si sviluppa in lunghe
dissertazioni e in opinioni contrastanti; così ognuno, me compreso, può portare il
proprio contributo senza timore di essere considerato un illuso visionario.
Anzitutto è da dire che la collocazione temporale delle pitture è
posta a cavallo tra XI e XII secolo; in questo modo l'aspetto simbolico può essere meglio
valutato anche valorizzando il contesto storico del cristianesimo.
Al centro un cespuglio pare inserito
appositamente per dividere due diverse scene; nella sua unicità appare come un elemento
anomalo, solitario, estraneo, ma aprendo lo sguardo in una visione d'insieme potrebbe ben
collocarsi con l'aquila
che si trova sulla destra. Infatti diversi studi iconografici interpretano il cespuglio
nel ricordo biblico di ciò che brucia ma non si consuma, e per similitudine ecco
rappresentare Maria, madre di Dio seppur vergine. Ed allora l'aquila a fianco è la
rappresentazione più usuale, oltre che simbolicamente più antica, del Cristo che risorge
La madre e suo figlio.
Nella parte destra si affrontano due bestie immaginarie: un grifone ed una chimera. Anche in questo
caso i bestiari medioevali richiamano nel grifone e nei suoi simboli la doppia natura del
Cristo che, in diverse figurazioni, combatte contro le forze del male, qui rappresentate
dalla chimera. Da notare che tale interpretazione propone anche un ulteriore rafforzamento
nel riconoscere la direzione della battaglia, che si sviluppa con la posizione stessa
delle figure che scagliano una forza difensiva sprigionandola dal centro verso l'esterno.
Anche nella parte sinistra è probabile vi fossero due figure tra loro
contrapposte, ma solo una di esse rimane sufficientemente integra per essere studiata;
l'altra è persa e ne rimangono solo pochi inutili lacerti. Per quanto riguarda l'animale che si può tuttora
osservare, alcuni lo hanno identificato con una fiera maculata. Ritengo che sia un
banale errore. Possiamo infatti renderci conto con facilità che si tratta di un animale
con lo zoccolo bipartito; del resto l'artista ha dimostrato di saper dipingere la zampa di
una fiera, come confermato dalle altre figure, e quindi non può essersi sbagliato in
questa occasione, né può aver peccato di superficialità. E per conseguenza ci troviamo
di fronte a qualcosa che non può essere definito "fiera", ma piuttosto si
tratta di qualche animale simile ad un bufalo, un toro, una capra. O un cinghiale? A ben
osservare il muso, dalla bocca sembra sporgere un dente, rivolto verso l'alto, ed inoltre
il cinghiale ha il manto maculato, soprattutto quando cucciolo. Ecco allora che questa
potrebbe proprio essere la giusta interpretazione del simbolo, ché infatti l'iconografia
vede nel cinghiale il Cristo. Anche in questo caso coerentemente rivolto dal centro verso
l'esterno. Rimarrà un mistero con chi si confrontasse.
Un ultimo sguardo intorno, qualche scatto fotografico a quel che si
intravede, e che solo un trattamento elettronico dell'immagine potrà rendere più
leggibile; pezzi sparsi, comunque. Una scena con una belva incatenata,
un vestito drappeggiato,
un volto aureolato, un arco dipinto.
Nonostante il degrado, comunque è l'ambiente stesso che emana
un'atmosfera che ci porta mill'anni addietro, in un tempo nel quale ogni immagine aveva un
significato preciso per il luogo e per chi vi risiedeva. Perdere quelle immagini o
trascurare il messaggio che trasportano oltre il loro tempo significa perdere la
conoscenza di quella storia locale che rappresenta una piccola tessera del grande mosaico
che è il nostro passato.
Torniamo alla luce, ma con un nuovo bagaglio di sensazioni. E non
dimentichiamo di ringraziare coloro
che ci consentono di gustarle e di mantenerle vive.

NOTA:
per meglio conoscere Pombia
è possibile farlo con la lettura della sezione
Pombia Oggi
parte della RIVISTA N. 3/2007
