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Vista aerea di Pombia - la Villa e il Castro
Il panorama aereo di Pombia
(immagine trattata da un originale ottenuto con l'ausilio del software Google Earth)

 

POMBIA OGGI

di Ferruccio C. Ferrazza
visita effettuata nell'ottobre 2006 e nell'aprile 2007

 

Per Pombia non si può passare, tantomeno per caso, ma ci si deve proprio andare, dirigere, inoltrare, con piena volontà d'intenti.
La strada lì si ferma, anche se, ad onor del vero, chi conosce i luoghi conosce anche il modo di proseguire oltre per raggiungere i paesi più a sud, costeggiando ed attraversando la bassa pianura alluvionale che costituisce la sponda sinistra, ad ansa, del fiume Ticino.

Da sempre luogo di tranquille residenze, la cui vivacità emerge in rare occasioni, quando la vita in un piccolo paese fornisce quei soggetti di discussione che nelle metropoli e nelle cittadine si sono dimenticati: quel lui che va con quella lei, quella lei che va con quel lui, la nuova bicicletta di Tizio, il pezzo di terra acquistato da Caio, l'insediarsi dell'alieno Sempronio, la vittoria dell'amata squadra di calcio, ed anche, perchè no, gli avvenimenti dell'ultima puntata della più seguita soap-opera. Discussioni piacevoli per trascorrere il tempo che vive in una dimensione sconosciuta ai milanes o ai turines, quelli che lavorano correndo.
Qui a Pombia è ancora possibile trovare una vera osteria, dove gli uomini del paese si incontrano per parlare di calcio, di macchine e, naturalmente, di donne, talvolta di pesca (il fiume è vicino) con le braccia che si allungano a dismisura per mostrare l'immaginaria dimensione della preda, facendo ricordare quel Tiramolla che fu un eroe dei fumetti dei miei tempi. Per chi vive in città questo è ormai un luogo introvabile, la cui atmosfera, forse, è un po' rimasta confusamente racchiusa nella bottega del barbiere.

Io, che ho frequentato questo paese sin da bambino, ospitato nella casa colonica che i nonni possedevano in una zona periferica, non trovo alcuna differenza tra la vita d'oggi e quella di mezzo secolo fa.
Il paese si è sviluppato, la zona residenziale si è espansa, nel territorio sono state avviate diverse attività industriali, anche il turismo domenicale ha avuto un notevole incremento, soprattutto a causa di una zona dal nome esotico che di esotico non ha nulla, se non gli animali che vi si incontrano.
Tutto ciò, però, fuori da quello spazio primigenio, nucleo del vero paese, dove il ritmo della vita è rimasto quello di un tempo.

Peraltro è da annotare che, nella realtà, i nuclei sono due, tra di loro così ben divisi orograficamente da costituire anche una divisione, come dire, etnica, di cultura, forse addirittura di ceto; sopra, la rocca e quelli del Castro, sotto, il paese e quelli della Villa. Un sano campanilismo, nel vero senso della parola, nato e cresciuto in uno spazio racchiuso in qualche centinaio di metri.

 

Pombia - il Monticello

Alla ricerca di Arduino

Vado a Pombia passando per Varallo Pombia, il paese limitrofo che facilmente viene confuso con la nostra destinazione.
E’ il percorso che preferisco, risalendo dal Ticino, dopo aver attraversato la diga di Coarezza provenendo da Somma Lombardo ed aver goduto della fresca visione del bacino artificiale, solcato dalle scie lasciate dalle tranquille papere che lo hanno scelto come sede stanziale.

Da Varallo a Pombia una strada diritta, ora asfaltata, ma che in gioventù percorrevo quando ancora era polverosa, di una polvere bianca e fine come talco, che in breve ricopriva le scarpe domenicali e si mescolava al sudore del viso rendendolo simile a quello di un attore mal truccato.

La strada è corta, pochi chilometri, e presto si incontra il cartello che delimita il confine del Comune; sullo sfondo un castello arroccato su una misera collinetta sembra farsi presagio di interessanti esplorazioni. In realtà si tratta solamente di una costruzione dell’inizio del ‘900, attualmente destinata ad ospitare visitatori turisticamente più interessati agli aspetti gastronomici che a quelli storici del luogo.

Mi fermo perché vengo attratto, banalmente, dal cartello stradale che segnala un divieto di circolazione, e voglio capire di cosa si tratta. Lo studio con attenzione. La parte descrittiva, quella che riporta le condizioni del divieto, è stampata su un comune foglio di carta bianca, applicato con qualche punto di adesivo al cartello originale. Il contenuto è curioso e non lascia molti dubbi all’interpretazione del viaggiatore motorizzato; mi concentro sui veicoli a benzina, cui il mio mezzo appartiene, ed appare chiaro che la limitazione riguarda tutti coloro che non hanno un veicolo classificato come “euro 1”. Ed io che possiedo un nuovissimo, seppur minuscolo, “euro 4”?
Peraltro nessuno, tra gli automobilisti in transito, si ferma; del resto, se la situazione così come espressa venisse rispettata vi sarebbe una fila immobile con centinaia di autovetture, anche se fossero fresche di fabbrica e dotate dei più avveniristici sistemi di contrasto all’inquinamento.
Decido che non può trattarsi d’altro se non della burla di qualche buontempone, proprietario di una “euro 1”, desideroso di crearsi un privilegio personale. Ne ho conferma scoprendo che il foglio non riporta alcun segno distintivo di quell’ufficialità che la legge impone alla Pubblica Amministrazione: timbro, firma, data della delibera.
Violo consapevolmente l’umoristica imposizione e proseguo oltre.

 

La necropoli della Quara.

Bastano poche centinaia di metri, ancor prima di entrare nel nucleo dell’abitato, per trovarmi in un luogo di ricordi ancestrali. Pur se nulla vi è rimasto di visibile, tutto essendo sommerso dalle nuove costruzioni residenziali a villetta, recenti scoperte archeologiche, effettuate tra il 1993 ed il 1999 proprio in occasione delle nuove esigenze edilizie, hanno portato alla luce diverse sepolture, tanto da consentire la classificazione della zona come necropoli e da attribuirne il periodo alla cosiddetta “cultura di Golasecca”, sviluppatasi attorno al 500 a. C.
Tutto ciò a conferma del fatto che l’insediamento residenziale di Pombia è decisamente antico oltre l’immaginazione che oggi si può avere, e che ha vissuto a lungo nel passato per raggiungere quello sviluppo indispensabile all’affermazione di una solida postazione di controllo del territorio da parte del potere nobiliare.
Una buona preparazione per il tempo di Arduino.

 

La Villa

Entro nel paese per la strada che ormai non emana più quell’aria rurale dei miei ricordi di giovinezza.

Una fiorita chicane, un liscio lastricato, la fresca tinteggiatura delle case, le colonnine a protezione del passo di coloro che ancora viaggiano a piedi.
Due comari chiacchierano addossate ad una parete esposta al sole primaverile.
E’ sufficiente, però, volgere lo sguardo all’insù per trovare ancora viva una visione campagnola; una casa rustica, ben tenuta, ed un albero in fiore, al centro di un giardino che forse è più un orto, ma la cui distinzione mi è impedita dalla posizione.

Questa via centrale è piacevole per coloro che oggi godono della moderna revisione, ed è una scelta oculata del Comune quella di rinnovare al meglio, ma io cerco altro; cerco quello che è rimasto, cerco quello che non è facilmente visibile, cerco lo spirito di Arduino.

Così mi allontano, prendo il largo, mi dirigo per strade che io stesso non ho mai percorso pur avendo frequentato i luoghi, da bambino curioso in visita ai parenti; ora finalmente esploro, sperando nella scoperta.

E scopro nuovi scorci, dove si mescola il nuovo con l’antico, dove vecchi portali secenteschi si inoltrano in cortili che racchiudono talvolta gli attuali emblemi e simboli di signoria; un tempo il cavallo bardato, oggi i cavalli carrozzati.

Mi incammino seguendo il contorno del borgo antico chiamato Villa, incontrando uno dei due “campanili” del paese. E’ la chiesa parrocchiale di Santa Maria, revisione settecentesca forse di un impianto precedente del quale, però, non rimane alcuna traccia.

In un’alternanza di edifici moderni ed antichi, la strada si snoda parallelamente a quella principale, che ho abbandonato, delimitando con essa la struttura rettangolare dell’insediamento originario. Forse sono in presenza delle linee antiche d’incrocio tra un cardus ed un decumanus, proprio sulle direttive tra il settentrione ed il meridione, tra l’occidente e l’oriente, come vuole la tradizione nell’orientamento degli accampamenti militari dell’espansione romana.

Mi guidano nel percorso vecchi muri, che con l’ausilio di moderne cancellate isolano una parte di quel mondo che ormai è fuori da ogni tempo. Studio uno scatto fotografico oltre quella soglia e mi sembra di trafugare le immagini in un museo; qui, fortunatamente, non ho un custode che con rude cipiglio me lo proibisce. Cerco di analizzare ciò che è rimasto e che vedo. Al piano terra vive l’uomo, talvolta con le bestie che portano calore, al piano superiore il deposito del fieno, contemporaneamente alimento ed isolante. Alcune mensole inusate sporgono nella facciata e mi portano a pensare ad un lavoro incompiuto, ma già pensato sin dal progetto iniziale con quella saggia e preventiva attenzione che è nella natura di chi si pone obiettivi e pensa ad un futuro, che poi però non si è avverato. L’anima della vita contadina, di quel contadino che è parimenti agronomo e ingegnere, architetto e muratore, imprenditore ed operaio.

Lì vicino un muro mi parla, e molto è ciò che mi racconta. Mi mostra il suo continuo dinamismo, per stare al passo con le esigenze mutevoli dell’uomo suo padrone. Ma un muro si può anche “leggere”, per andare ben oltre i messaggi proposti dall’evidente apparenza di una cornice, una volta porta, ora murata. Nella composizione vi leggo la storia di un contadino libero e non coatto, che non soggiace alle imposizioni economiche ed imprenditoriali di chi produce i mattoni, elemento il cui costo d’acquisto non è per lui tollerabile. Le costruzioni in mattoni sono riservate a quei signorotti locali ai quali le disponibilità economiche permettono di affidare ad artigiani specializzati l’edificazione di case da destinare poi in affitto ai contadini. Questo contadino pombiese decide invece del suo destino, e costruisce lui stesso la propria casa, quella di sua proprietà, con quanto i luoghi e la natura gli offrono: sasso e legno. La prevalenza dei sassi, arrotondati dal lavoro del fiume, sui laterizi, che con le forme grezze ed imprecise identificano la loro origine romanica ed il successivo recupero, è la dimostrazione di questa economia; gli inserti in mattone diventano quasi un abbellimento estetico più che un’esigenza costruttiva, peraltro indispensabile per il riempimento degli spazi generati dalle rotondità. Comunque un lavoro molto difficoltoso, una sfida alle leggi di natura; le forme perfettamente arrotondate, talvolta addirittura sferiche, da impilare per sostenere un muro. Una vera forma d’arte in un’edilizia semplice e funzionale, soprattutto adeguata alle risorse personali del contadino, libero e costruttore.

Nulla è però improvvisato. E’ sufficiente osservare con attenzione per scoprire quale livello possa raggiungere l’impiego di elementi tecnici, comunque e sempre utilizzati con l’obiettivo di dar maggior solidità e risalto al luogo d’abitazione, alla casa. Su un muro due chiavi di tenuta mi incuriosiscono; trattengono il muro contro due putrelle, ma tra queste è evidente un certo dislivello; mi domando cosa vi sia all’interno di quel muro, appoggiato su quei due binari; un mistero che rimarrà irrisolto. Poco più avanti, la volta di un portone mi rivela un tavolato di legno, evidentemente la parte inferiore di un pavimento forse ormai coperto. Sono attratto da questa struttura dove la tecnica sembra fondersi con l’arte; l’autore dell’opera (mi piace così definirlo) ha aggiunto alla tecnica costruttiva l’arte di scegliere quelle assi e disporle in quel modo, facendo sì che le venature del legno formino fantasmagoriche onde di luce e colore. Nascoste, quasi invisibili, in un androne.

Mi incammino per uscire dalla Villa. Quello che ho visto mi induce a pensare che qui io non possa trovare nulla che mi riporti al ricordo dei tempi di Arduino; il borgo è rurale, agricolo, poco nobiliare per il Re, o forse troppo sommerso e mutato nel procedere del tempo, irriguardoso alla storia.

Quando cammino per vie sconosciute guardo sempre verso l’alto, forse un’abitudine acquisita sin da quando, giovane radioamatore, ricercavo la presenza di colleghi scrutando sui tetti l’apparire di qualche curiosa antenna. Ed è proprio guardando verso l’alto che faccio una scoperta che mi riempie di entusiasmo; al centro di un anonimo muraglione di cemento, la mano rinnovatrice ha avuto un momento di culturale ravvedimento, tralasciando di cancellare, ed anzi ponendo in maggior evidenza, un contorno di cotto lavorato. Cerco nella memoria dove ho già visto qualcosa di simile ed in breve nel ricordo riaffiora una fotografia inserita nel manoscritto di Giuseppina. Scorro velocemente il documento, che porto con me per referenza nel percorso, e trovo l’immagine.
La didascalia è manoscritta, ma chiara e precisa: “Casa di Arduino a Cuorgné”. Mi sento come lo scopritore della tomba perduta del faraone egizio. Sono pervaso dalla certezza di trovarmi sulla buona strada, quella del Re.

Mi avvio a lasciare la Villa con rinnovato piacere per l’inattesa scoperta.

La strada che prosegue oltre il paese inizia a scendere dolcemente. Un piccolo ponte l’attraversa; più simile ad un portale, ho la sensazione di uscire, di varcare la soglia delle mura per dirigermi verso la macchia, nel podere, nel contado, nella marca, nella landa, oltre l’occhio vigile e protettivo del borgo. Volgo lo sguardo all’indietro per trovare conforto. Sul limitare si staglia la piccola chiesa di San Martino, protettore dei poveri, difensore dei diritti dell’uomo di campagna e delle plebi rurali. La presenza di questa dedicazione, peraltro molto diffusa nell’Europa agricola, comunque mi fornisce una ragione in più per credere all’avvenuta emancipazione dei contadini pombiesi, sin dal medioevo, pronti ad accogliere con rispetto colui che di loro avrebbe avuto identico rispetto.

 

Da San Giorgio

Un cartello stradale mi ricorda direzioni note ed ignote. Scelgo di ignorare, almeno per ora, le note e di dirigermi verso le ignote.

Non ho mai disceso la tortuosa strada che conduce alla frazione San Giorgio, o quantomeno non l’ho mai fatto con l’intento di raggiungere quelle cascine sparse nella campagna piatta della riva alluvionale del Ticino. Lo faccio adesso con l’idea di trovare uno scatto fotografico che mi consenta di rendere una visione panoramica di quella zona di Pombia che viene chiamata Castro. Non è difficile. Tutto il percorso è ben in vista.

Pombia - panorama da S. Giorgio

Facilmente identifico i tre punti d’interesse per la ricerca che sto portando a termine; li conosco e riconosco; sulla sinistra la chiesa romanica di San Vincenzo, verso il centro le mura di protezione del castrum domini, sulla destra l’edificio che tuttora è chiamato “castello arduinico”. Finalmente un richiamo diretto al Re.

La prospettiva mi consente di percepire l’importanza difensiva dell’insediamento, non a caso posto in posizione elevata e con ampia visuale sulla valle del Ticino. Con il prospiciente Castelnovate, il castrum sulla sponda opposta del fiume, in epoca romana costituiva il primo e più forte baluardo per il controllo del transito e del guado fluviale.

Prima di riprendere la via del ritorno voglio curiosare sull’esistenza di una antica chiesa di cui qualcuno parla, qualcuno scrive, pochi sanno e che ha dato il nome alla frazione. Violo la riservatezza di un giardino e trovo cortesia nel suo abitante. Dall’accento dimostra di non essere per nulla pombiese, ma per contrasto con la precisione che sarebbe tipica di un indigeno, nato e vissuto nel luogo, mi fornisce indicazioni dettagliate, poi rivelatesi anche esatte, per trovare il sito della chiesa. Non fosse stato per la qualità dell’informazione e dell’informatore, nulla avrei potuto trovare, soprattutto perché ben poco è rimasto, anzi quasi niente. E quel poco o niente è pure irraggiungibile. Intuisco la direzione da prendere dalla presenza, ai bordi della strada asfaltata, di un sentiero che mostra radi e rari segni di un vetusto acciottolato. Al suo fine, una piccola collinetta lascia trasparire un muro diroccato completamento sommerso ed immerso nella vegetazione che ne infesta la storicità. Non riesco ad inoltrarmi; forse, penso, è anche pericoloso. Abbandono l’esplorazione con un immenso dispiacere, in duplice forma. La prima, quella puramente egoistica per il mancato raggiungimento di un personale obiettivo di scoperta, intralciato più dalla natura che dalla mia incapacità, o forse il contrario; la seconda, quella del rammarico per l’abbandono nel quale sono lasciate le testimonianze antiche di un passato tanto prezioso quanto eloquente per la storia locale.

Riprendo la via del borgo e risalgo verso il Castro.

 

Il Castro.

Raggiungo nuovamente i cartelli indicatori, che in questo mio peregrinare mi aiutano mostrandosi nella loro caratteristica più culturalmente propositiva che topograficamente informativa, più attivi, più vivi. Mi consigliano in modo allettante con il colore di sfondo. Mi ha sempre attirato la freccia di color marrone, sin da quando una legge ne ha definito i termini d’uso. Talvolta mi hanno consentito di scoprire luoghi in grado di generare profonde emozioni, ma conosciuti solamente dalla tradizione locale. Qui ho l’arroganza di pensare che non vi sia più nulla, per me, da scoprire. E’ una strada che ho percorso molte volte. Però, a ben pensare, sempre e solo per seguire gli uffici religiosi di matrimoni, nascite e morti, più raramente per il puro e semplice piacere di ammirare il panorama che si stende oltre la balconata della chiesa di San Vincenzo. Mai comunque per leggere i messaggi della storia impressi negli anfratti dei muri e degli edifici. Forse oggi è giunto il momento di dedicarmi a perseguire questo obiettivo.

Entrare nel nucleo del Castro ha un diverso fascino rispetto a quello che mi ha pervaso nel percorso in Villa. Qui si respira l’aria del Medioevo, del signore che protegge, della sicurezza sulla rocca, della vita nel castello.

Mi accoglie una struttura che con naturale immediatezza, sin dalla prima occhiata seppur superficiale, mi trasporta in un tempo antico e nobile, forte e rude. Un poderoso contrafforte in sassi di fiume sostiene un soleggiato edificio in mattoni leggeri, più moderni ma non di molto, più signorili ma non per molto. Purtroppo l’impietoso ragno della tecnologia lo ha ghermito nella sua rete; una ragnatela di tubi e cavi lo avviluppano, stesi da mani irriguardose e cieche, con inaudita violenza e supremo disordine. Con disappunto e disgusto tento di cancellare l’abominio concentrandomi su immagini parziali, più piacevoli, più tranquille, seppur meno complete. Lo spigolo del contrafforte mi rivela, con gli inserti in mattoni mal cotti e di forma incerta, che la sua edificazione ha seguito lo stesso riciclo costruttivo di quanto ho rilevato in Villa; l’origine romanica dei laterizi di recupero; la storia antica del Castro, forse la più antica dei luoghi, forse la storia primigenia di Pombia. Più in alto, sulla facciata, la cornice di una finestra, decorata in cotto, è la perfetta gemella di quella che già ho avuto modo di riconoscere nell’immagine della casa di Arduino a Cuorgné e in Villa. Questa volta, però, è magnificamente integra in ogni particolare e degna di rianimare un Re. Scatto una foto pensando già al buon uso che potrei farne per la copertina della rivista.

Un breve tratto di strada mi porta al centro del Castro. Il percorso si illumina gradualmente sino a raggiungere il più ampio respiro in una spiazzo, che mostra con evidenza i gradevoli segni di una recentissima ristrutturazione.

Pombia - la piazza del castrum domini

Sulla sinistra una residenza settecentesca, curata e valorizzata con un sapiente restauro, si integra perfettamente nello stile della rinnovata piazza.

Per contrasto, sono incuriosito ed attratto dalla costruzione che, sulla destra, si impone per l’originale rusticità. Non conosco i motivi per i quali non abbia subito, o forse gradito, la stessa sorte del palazzo del quale è la naturale prosecuzione. Non è cosa che mi debba importare, peraltro; così com’è mi lascia assaporare con maggior piacere quell’aria di medioevale che si respira nel Castro.
Vorrei entrare in quel palazzo. Mi immagino che ancora vi si nascondano i tesori di quei nobili che nel trascorrere del tempo lo elessero a loro dimora. Un portone ben serrato mi impedisce di raggiungere quelle scoperte che sono certo avrei fatto, vagando negli antichi saloni, cercando oscuri interrati e percorrendo passaggi segreti; le fantasie del fanciullo che è in me, sostenuto da qualche stimolo cinematografico. Mi accontento, un po’ rattristato, di osservare dall’esterno.
Sulla facciata un arrugginito portabandiera ed uno stemma all’ingresso dimostrano una certa qual nobiltà dell’edificio; uno scudo crociato sormontato da un cimiero è protetto da un elegante balconcino; penso a quale fosse il piacere di vivere la vita del Castro osservandola da quella postazione o, addirittura, plasmandola al proprio volere.
Nella parte più alta la torre apre le sue finestre, decorate da colonnine in mattoni rotondeggianti, su un locale che fu probabile custodia e rifugio per quei piccioni che un tempo prestavano la loro infaticabile opera quali messaggeri solerti e fidati, ma ignari del potere loro affidato di scatenare guerre ed amori.

Una lapide all’angolo. Finalmente un ricordo reale ed oggettivo del Re, non frutto di una mia dilettantesca interpretazione. Imbocco via Arduino, una strada a lui dedicata, un riconoscimento pubblico, un segno di stima, una testimonianza della sua presenza. Con una leggera salita costeggio il palazzo e mi preparo a quello che sembra essere una sorta di “gran finale” per la mia giornata d’esplorazione; sullo sfondo si erge forse il più importante simbolo della storicità di Pombia, e fors’anche di una zona ben più vasta, la chiesa di San Vincenzo in Castro. Da qui non si va oltre. Mi sento come avessi raggiunto uno scoglio, o meglio un promontorio proteso sulla valle del Ticino, un mare padano infinito e talvolta fosco, ma qui dove sono mi sento protetto dai flutti e ne annuso gli aromi ed i profumi sparsi dal vento che sale con flusso tanto incostante quanto perenne, del tutto simile al salmastro serotino portato dei frangenti.

 

San Vincenzo in Castro.

Ho studiato questa visita; non ne ho voluto fare un’esplorazione pura; molte, anzi troppe, sono le cose che si nascondono ad un visitatore occasionale pur attento e culturalmente preparato. Per questo motivo ho deciso che, in questa occasione, non mi soffermerò su tutto quanto ci sarebbe da studiare e registrare, analizzare e diffondere, riguardo a questo magnifico esempio di architettura ecclesiastica medioevale. Mi riprometto di farlo compiutamente in altro momento.

E’ anzitutto da premettere che quello che oggi vedo è il frutto di un lavoro di ripristino, protato a termine alla fine degli anni ’60, con il preciso obiettivo di portare in luce la struttura originaria; un pregevole progetto dove il restauro non è stato solo di tipo conservativo, ma soprattutto è stato riqualificante del sito sotto l’aspetto storico ed archeologico.

Trovo l’ingresso principale della chiesa sul lato settentrionale, il più lungo della pianta rettangolare, a fianco del campanile. Una scelta non inusuale quella di ritenere secondario l’accesso sulla linea della navata centrale, che ho rilevato anche in altri edifici di culto cristiano soprattutto in quei casi dove la data di impianto è attribuibile al periodo compreso nel primo millennio.

La chiesa ha il portone sbarrato, ma non me ne meraviglio, più semplicemente dapprima mi sconforto, e poi mi indigno per i tempi che corrono: “mala tempora currunt”. Per impedire che venga posta in atto l’opera sacrilega di ladri e vandali, delinquenti della peggior risma, si preclude a tutti l’accesso al tempio, cancellando di fatto ed allontanando per sempre quell’immagine di pace che emanava dalle pie donne in cammino verso il luogo di preghiera per eccellenza, preposto per legge divina all’orazione quotidiana. Anche in questo caso mi vedo costretto ad una visita esterna.

La base del campanile è probabilmente la testimonianza reale della parte più antica dell’edificio; la sua struttura mi ricorda alcune torri di segnalazione che ho trovato altrove e che in epoca romana furono dislocate in diversi punti del territorio insubrico; del resto, per le sue caratteristiche di posizione, il luogo si sarebbe prestato perfettamente allo scopo; la vista sulla valle del Ticino e sulla pianura padana è imponentemente strategica, oltre che affascinante per ampiezza. Nessuno sarebbe sfuggito all’occhio attento di una vedetta la cui portata visiva non era certo offuscata dagli inquinamenti generati dalla modernità e dallo sfruttamento che l’uomo ne ha fatto.

Proseguo la visita verso la facciata posta a ponente. Qui, in appoggio al muro occidentale ed a protezione del portale d’ingresso alla navata centrale, è stato costruito un nartece, cioè il rifugio destinato alla sosta dei catecumeni. L’ambiente mi offre un fresco ricovero dal soleggiato pomeriggio di una primavera che già preannunzia i calori estivi. Mi siedo, riposo, leggo i miei appunti, osservo. Un momento di pace e silenzio assoluto, rotto solamente dallo stridio delle rondini che volteggiano rapidissime attorno all’edificio, forse infastidite dalla mia presenza.

Osservo intorno. Scopro un curioso inserto nello spigolo esterno della costruzione; con funzione di pietra cantonale è stata recuperata un’ara, probabilmente un cippo funerario, di chiara età romana. Mattoni, cippi, lastre sepolcrali, canali, sarcofaghi; questi muri costituiscono un vero e proprio puzzle di storia, e mi raccontano di tempi ben più antichi di quelli del Re, ma contemporaneamente prospettano e dimostrano una continuità nello sviluppo di Pombia che in altri paesi non è più possibile riscontrare. Qui, sul muro, si legge di storia e di civiltà, di nobiltà e di plebe, di sacro e di profano, di ricchezza e di povertà.

Godo di questo momento di riposo ispettivo. Mi consente di lasciare che lo sguardo scorra all’intorno senza una meta precisa. La ricerca della scoperta per caso. Non può in alcun modo sfuggirmi, proprio di fronte a me sotto l’androne del nartece, un loculo protetto da una rete. Nella parte inferiore, una croce dipinta induce a pensare che si tratti di un luogo di sepoltura. Mi avvicino. Mi sembra di scorgere, oltre l’impedimento della rete, ombre di pittura; indistinguibile se si tratti di reali figure volute da un reale artista, oppure giochi irreali dell’erosione e del tempo. Tento comunque qualche scatto fotografico. Solamente a posteriori quelle fotografie, una volta che le avrò sottoposte alle torture elettroniche di sofisticati strumenti frutto della genialità dell’uomo moderno, homo informaticus, mi riveleranno figure antropomorfe che emergono da un passato millenario, cancellando ogni dubbio sul fatto che siano una rappresentazione consapevole di un oscuro artista. Un volto, una corona, un manto, un’aureola. La Vergine. forse; o un Re santificato?. Qualche studioso ipotizza che questo sia il luogo di sepoltura di quel Litulfo, figlio di Ottone I, che morì a Pombia poco prima del Mille. E se invece l’immagine fosse proprio quella del nostro Re? Lasciatemelo pensare. Voglio avvalermi del diritto d’opinione sognata, non di quella studiata che lascio ai professionisti della scienza storica ed archeologica.

Premiato nell’intimo e rinvigorito nel corpo, lascio la piacevole frescura dell’androne e riprendo l’esplorazione, immergendomi nuovamente in quest’aria riscaldata da questa insolita canicola primaverile.

Ritorno sul retro della chiesa, dove trovo altri reperti di romanità: una lastra sepolcrale, una vasca (o un sarcofago?). Non mancano, come di frequente si incontrano in luogo similari, i simboli più moderni di un’imbecillità umana peraltro accuratamente autografata a perenne testimonianza della volontà dell’autore di appartenere alla categoria.

Osservo sulla parete esterna dell’abitazione che fu la canonica, una fessura dove una provvida mano ha inserito piccoli pezzi di cotto, a nascondere la crepa, non certo a proteggerne l’azione. Un segno d’affetto, più che un intervento dovuto.

Attraverso un cancelletto in ferro, ormai corroso dalla ruggine, intravedo le mura del castrum domini, che mi riportano al tema della mia esplorazione, temporaneamente distolto dall’interesse che mi ha suscitato questo luogo particolare ed unico.

Per questa volta ho terminato, per oggi è sufficiente; ho materiale per la rivista e per stimolare i lettori ad ampliare la ricerca. Ma non mi sento completamente soddisfatto. Qui non ho trovato tracce certe di Arduino. Il nome della via? Poca cosa. Il castello di Arduino? L’ho dimenticato. Ecco l’ultima esplorazione, ancora da completare, sulla via del ritorno.

Trovo l’edificio in una via secondaria del Castro. Lo riconosco con una certa difficoltà; per raffronto uso una vecchia fotografia d’inizio Novecento. Completamente rimesso a nuovo, poco rimane della costruzione dove, forse, visse il Re. Di proprietà privata, ora lascia solo intravedere alcune strutture che possono ricordare l’origine medioevale.

Mi allontano lungo una via che, tra una proprietà e l’altra, conserva ancora qualche spunto per un ricordo storico; mi piace pensare che un vecchio muro sia quanto rimasto della cinta difensiva a protezione della tranquillità della vita del Re e della sua gente.

Un vicolo, ormai oscurato dal sole calante, mi conduce alla fine del mio percorso di ricerca.
Su Arduino, di certo non ho trovato quanto avrei voluto.
Ho sicuramente trovato e scoperto, però, cose che il mio occhio di fanciullo non era riuscito non solo a guardare, ma nemmeno a vedere; cose che raccontano, sapendole ascoltare, di una storia antica, di una vita intensa, di un perenne susseguirsi di tempi che hanno visto il paese al centro di eventi d’importanza nazionale.

Un piccolo paese, un grande Re, una storia patria.

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ISSN 2284-3620

Ultimo aggiornamento: 19 aprile 2016