NOTIZIE E RIFLESSIONI ATTE
A RIAPRIRE E A RICHIUDERE UN’ULTIMA PARENTESI

 

La famiglia del Re, pur essendo prematuramente morto il primogenito Ardicino, sopravvisse al forzoso oblio volutamente imposto alla persona ed alla sepoltura di Arduino.

Ma il suo nome, è, in Piemonte, noto e “più vivo di quello di Napoleone che pure lo attraversò, vi combatté e vi spillò tanto buon sangue soldatesco.”

Arduino è uno dei maggior vanti della Regione e, specie in alcune località, una sorta di figura tutelare che riscuote ancora molto credito. Torri sgretolate e casupole montane dicono, nelle targhe apposte, di averlo ospitato, consacrando e quasi continuando a proteggere la sua ombra. Parecchi castelli pretendono di aver custodito le sue ossa e serbate le reliquie. Gli oggetti simboleggianti la sua autorità sono argomento di racconti popolari, tanto che si vuole, in posti romiti, la sua spada essere ancora affilata e lucente e gli speroni tutt’ora macchiati del sangue raggrumato del suo cavallo.

 

Riscattato il primitivo silenzio da successive considerazioni che, oltre il mito, ammisero la priorità delle introduzioni nuove e coraggiose, oltre alla capacità di contrapporre al concetto della feudalità quello della cittadinanza , si fece risalire ad Arduino anche l’indicazione dei pericoli derivanti dai poteri sia feudali che clericali.

La storiografia romantica, poi quella nazionalistica che ripescò il fascio delle sue picche per il simbolo che avrebbe imperato in Italia per vent’ anni del secolo ventesimo, puntarono sull’eroismo di Arduino.

Non si potrebbe negare che dell’eroe egli ebbe le qualità e i difetti.

Fu negli anni precedenti il fascismo (anni che incubarono questo movimento con un clima in cui il cauto conservatorismo piemontese del secondo Ottocento si fuse all’aspirazione rivoluzionaria ben presto imbrigliata) che si ripescò, divulgandola, la storia settecentesca che ora si riferisce, traendola un po’ liberamente ma rispettosamente dalle pagine di Giacosa dalle quali s’è già attinto.

Morto nell’Abbazia di Fruttuaria, dove, sfinito dalle fatiche e dalla malattia, aveva deposto le insegne del potere e indossato il saio, Arduino fu sepolto con onori regali nella Chiesa di quel Cenobio e vi giacque in pace per seicento anni.

Nella prima metà del 1600, il Cardinal Ferrero, abate commendatario del monastero, ricordando le antiche scomuniche e fervente di ritrovato sdegno episcopale, volle purificare la Chiesa contaminata dalla salma tre volte maledetta. Aperse dunque la tomba, ne levò i simboli della regalità che erano lo scettro, la corona e l’anello (col quale pare ornasse poi una sua privata galleria) e, raccolte le poche ossa, le fece seppellire nell’orto, in terra sconsacrata, decidendo altresì che non dovessero più ricevere nessuna venerazione. Ma un ignoto e pio frate piantò un segnale nella terra e ne avvertì il Conte di San Martino d’Agliè, discendente di Arduino. Costui - di soppiatto o fors’anche giovandosi del credito di cui godeva a Corte - disseppellì le ossa del proprio antenato, le raccolse in una cassettina di legno e le trasportò nel suo castello, poco discosto dall’Abbazia, riponendole, senza troppo zelo, in un armadio di sacrestia.

Nel 1764, Carlo Emanuele III Re di Sardegna, volendo provvedere all’appannaggio del proprio secondogenito, il Duca di Chiablese, decise d’includere nelle rendite del Cadetto il famoso Castello di Agliè e ne fece richiesta al suo primo scudiere, il Marchese Giuseppe che ne era il proprietario.

Naturalmente, questi non poté che accondiscendere al desiderio del Sovrano e il castello fu venduto con tutte le suppellettili fra le quali la povera cassetta contenente le spoglie di Re Arduino, dimenticata che fosse o tenuta in misero conto.

Ma il Marchese aveva in moglie Cristina di Saluzzo-Miolans, donna di spirito focoso e insofferente alla quale spiaceva non tanto perdere la pur cara villa quanto il vederla passare alla Corte di Torino presso la quale non godeva di favore.

Ella ritenne che la cessione di quelle spoglie fosse ingiuriosa a sé ed ai fondatori del Canavese che con lei avevano in comune l’ascendenza arduinica.

E’ anche da ritenere che Cristina fosse sostenuta nel proprio sdegno dal Conte Francesco Valperga di Masino, Ministro del Re, Ambasciatore presso la Corte di Francia e di Spagna e Viceré di Sardegna. A lui la legavano rapporti d’amore non nascosti ed anzi esibiti. Ella era incurante delle chiacchiere di palazzo e di corte e, già comunque invisa al prudentissimo “entourage” sabaudo, sdegnava i pericoli ai  quali la esponevano la situazione extraconiugale e le decisioni relative al Castello di Agliè.

Anche al Conte di Masino - il suo innamorato - “uomo di grande conto, fra i primi del suo tempo e del suo paese” non garbava certo che quelle poche ossa e ceneri, tolte alla Chiesa e poi alla terra di Fruttuaria e fino ad allora mal custodite nell’armadio, passassero, a causa di negoziati incuranti, in mani ch’egli non considerava legittime eredi “né di nome né di memorie”. Tuttavia né le sue alte cariche a corte e neppure le proprie ascendenze arduiniche remote e difficilmente dimostrabili gli concedevano il diritto di rivendicare quelle spoglie, di modo che egli “si rodeva di pietose ire alle quali era di conforto l’amore della Marchesa e il sapernela partecipe”.

Cristina, dunque, volle agire da sola appagando i desideri dell’uomo amato e sfidò, oltre il Re cui già era invisa, il marito, la legge e i costumi severi del tempo. Pensò fors’anche di dimostrare o di ottenere una sorta di primogenitura della propria famiglia d’origine tra le innumeri altre che si vantavano arduiniche e di vendicare la mancanza di pietà del coniuge.

Decidendo di togliere “tanta reliquia al nuovo padrone” mostrò quanto ogni cosa possa farsi argomento di traffico e oppose al pur vecchio sangue sabaudo l’ancor più antico sangue di Anscario e di Berengario, contrastando le ragioni della potenza politica con quelle del cuore.

Il Conte Francesco ignorava probabilmente i suoi propositi.

Di fatto, in una sera buia d’inverno e con la scorta di pochi domestici, Cristina partì dal Castello di Masino dove viveva con l’amato. Si può calcolare che, oltre due secoli fa, servissero alcune ore di carrozza per coprire la distanza da Masino ad Agliè.

Giunta che fu, in piena notte, l’intrepida donna fu ricevuta con molta perplessità dai servitori che erano passati dalla dipendenza del marito a quella della Corte Reale. Sdegnando d’entrare come una ladra nella sua villa ora venduta con un atto da lei disapprovato, svegliò il custode e gli ordinò di rischiararle il passaggio nelle varie stanze. Si può immaginare lo sconcerto dell’uomo, dibattuto tra l’obbedienza al Re e l’abitudine ai comandi della Marchesa oltre che al supponibile timore infusogli dalla scorta della Signora. S’inchinò ossequioso. Cristina procedeva con la tranquilla sicurezza di chi compie un atto di giustizia. Traversarono le sale e le gallerie dov’erano tanti ritratti di rampolli arduinici, giunsero all’oratorio, ella aprì l’armadio, ne tolse con le proprie mani la cassetta, se la recò sulle braccia e, senza mai parlare, tornata alla carrozza - sempre rischiarandola il custode del violato castello - ve la depose, vi salì sola, e via! rumoreggiando nella notte...

 

Così la sacra maestà di Re Arduino, riattraversava un’altra volta, dopo ottocento anni, la sua fedele terra canavesana.

Gli sedeva accanto Cristina di Saluzzo-Miolans, Marchesa d’Agliè, di Garessio e di San Germano, bella, giovane, riverente e vigile custode.

Forse per la prima volta in tanti secoli una donna pregava pace al suo nome e la sua piccola arca era guardata con rispettosa trepidanza, aleggiata da uno spirito d’amore.

 

Da allora gli avanzi mortali di Re Arduino sono nel Castello di Masino.

La bara che li racchiude fu aperta un’ultima volta nel 1827, con gran pompa religiosa e alla presenza del Re Carlo Felice e della Regina Maria Teresa. Benedette le ossa, l’arca fu rinchiusa e suggellata col sigillo recante il fascio delle picche e il motto di cui s’è detto.

Sulla lapide s’incise un testo dettato dal Lanfranchi riassumente la vita di un uomo che mediò la fantasia con la realtà e che, deluso da entrambe, oltre che, naturalmente, dai propri umani limiti, si fece penitente spinto da profondi travagli

 

Un uomo, un Re, tradito ma non vinto da nessuno.



Lapide e fregio dell’arca di Arduino, nella Cappella del Castello di Masino.


 

QUI È SEPOLTO ARDUINO,

FIGLIO DI DADONE, MARCHESE DI IVREA,

IL QUALE IL 15 FEBBRAIO DEL 1002 FU ELETTO RE D’ITALIA,

IN PAVIA. REGNÒ PER 13 ANNI. OPPRESSO DA VARIE SVENTURE,

MALATO, SI RITIRÒ NEL CONVENTO DI SAN BENIGNO, PRESSO I SALASSI.

E QUI PIAMENTE MORÌ.

COMPOSTO IN PACE, QUI GIACQUE FINO A METÀ DEL SECOLO XVI.

IL CARDINALE FERRERO, ABATE DEL CONVENTO,

TOLSE IL SUO CORPO DAL SEPOLCRO E,

LEVATEGLI LE INSEGNE REGALI, LO SEPPELLÌ.

POCO DOPO FILIPPO DEI CONTI DI SAN MARTINO, SIGNORE DI AGLIÈ,

DISSOTTERRÒ QUELLE RELIQUIE E LE CHIUSE UN UN’ARCA DI LEGNO.

EGLI STESSO POI LE PORTÒ NEL CASTELLO DEI MARCHESI DI AGLIÈ.

QUANDO NELL’ANNO 1764 IL CASTELLO VENNE ALIENATO

AL RE EMANUELE III, CARLO VALPERGA CONTE DI MASINO,

CON L’AIUTO DI CRISTINA MIOLANS DI SALUZZO MARCHESA DI AGLIÈ,

NE TOLSE L’ARCA E LA TRASFERÌ AL CASTELLO DI MASINO.

CESARE VALPERGA CONTE DI MASINO, NELL’ANNO 1892,

CELEBRATA UNA NUOVA CERIMONIA FUNEBRE,

QUESTO EPITAFFIO POSE SULLE CENERI, CHE AVRANNO FINALMENTE PACE.