L’ASSEDIATO DI SPARONE RIPRENDE A FARE IL RE

 

Ancora una volta Arduino si ritirò nella sua Marca.

Il voltafaccia di molti tra i suoi Vassalli aveva aperto le porte al Sovrano tedesco.

Aveva aspettato dapprima l’assalitore nella Val d’Adige, fermo, speranzoso ed intrepido. Lo aveva vinto brillantemente.

Poi, soverchiato dai tradimenti, non aveva potuto far altro che abbandonare la lotta e asserragliarsi in casa, stavolta nella Rocca di Sparone dominante la Valle dell’Orco, fiume impetuoso, aurifero come il Ticino, l’Adda e molti altri fiumi della sua Padania.

Anche qui il paesaggio offre non poche rassomiglianze con la collina pombiense ch’è però più dolce, meno aspra e selvaggia.

I campanili della Chiesa attigua alla Rocca sono simili, come simili sono alcune dimore, a Sparone e a Pombia.

 


Il campanile di San Vincenzo in Castro a Pombia


Il campanile della Rocca di Sparone

 

Per Arduino non era però tempo di introversioni e di ricordi del passato.

Si chiuse nel fortilizio con i non molti fedeli rimastigli e decisi come lui a battersi e a sostenere il duro assedio mossogli dai grandi Vassalli ecclesiastici e adesso sostenuti dalle truppe dell’Imperatore Enrico II.

 


”L’assedio di Sparone”
Affresco di G. P. Recchi nel Castello di Aglié

 

La resistenza si protrasse per un lungo anno tra il 1004 e il 1005 Furono più numerose le sortite a danno degli assedianti che non le azioni offensive di questi ultimi.

Si ascolti ancora la versione di Giacosa:

 

Arduino vi s’era chiuso quasi fuggiasco dopo i vergognosi tradimenti dei grandi vassalli. Arrigo (Enrico) vittorioso lo stringeva persino nel suo vecchio nido alpestre.

Al Re d’Italia restavano solo pochi compagni che l’avevano aiutato nella sua fortuna, gente delle sue terre, ma di poco conto e di minor stato.

I grandi ed i vescovi, raccolti in Pavia, lo deponevano dal trono e acclamavano, incoronandolo Re, il suo trionfante nemico.

La sua stessa Marca, occupata in gran parte da soldati stranieri, era scissa in avversi comitati vescovili.

Non gli rimaneva che la Rocca di Sparone e la gola che s’infossa alle sue spalle.

Questo era il momento buono di abbandonarlo anche per gli ultimi amici.

Perché insistere a difenderlo e rischiare le tragedie d’una fortuna in declino?

Si poteva adesso constatare la conseguenza delle condanne sinodali e della scomunica: la mano divina pesava sull’antico ribelle già messo al bando dalla Chiesa!

Non mancavano gli esempi storici più eclatanti di Desiderio, di Berengario I e II, del proscritto Adalberto.

Questa era la sorte che attendeva i Re d’Italia!...

Si giudicava che il deporre armi ed animi non fosse tradimento e si considerava che avevano resistito oltre ogni limite possibile.

Cedendo avrebbero ottenuto franchigie, onori, terre e benedizioni.

Resistendo, incontravano la miseria, le beffe ingiuriose dei nuovi arricchiti, la morte e il perdurare delle scomuniche della Chiesa.

Eppure non cedettero e perdurarono fra i disagi d’una Rocca povera, in luoghi selvaggi, nei geli, su terre che producevano magri ed ingrati elementi.

E non fu il facile eroismo d’una giornata campale, ma la paziente e perseverante resistenza di un anno intero d’assedio, greve di scoramenti, di assalti sostenuti, di rarefazioni dolorose nella già esigua schiera, con la disperata esaltazione di virtù e di fede a sostenere gli animi. In mezzo a tanti ingrati spettacoli di virtù e di tradimenti, ancor oggi risulta grata la riconoscenza ad uno sparuto gruppo di coraggiosi che seppero difendere l’onore .

E vinsero, stancata la pazienza tedesca; e si vide un intero esercito levare l’assedio, sgombrare le terre - le canavesane dapprima e poi gran parte delle lombarde - e i signorotti locali che già avevano tradito Arduino tornare a tradire Arrigo.

Si vide risorta la fortuna dell’antica Casa.

Si deve dunque alla fazione arduinica se il terzo tentativo di un Regno d’Italia in mano agl’Italiani non finisse, come i precedenti, in nostra vergogna.

 

Di fatto, le truppe imperiali dovettero togliere il campo e tornarsene a settentrione, costretti com’erano stati nei limiti imposti dall’asperità dei luoghi, dai molti burroni e dall’imprendibilità del Castello che poteva disporre di scorte sempre rinnovate dai valligiani fedelissimi, ancora e sempre propendenti per Arduino, tramite sentieri noti a loro soltanto.

 

Enrico, stremato dall’inutilità dell’attesa, probabilmente ormai sicuro della sua corona italiana ed anche chiamato in Germania dal pericolo di un’invasione dei Polacchi, se n’era dunque andato!

 

Arduino sortì dalla Rocca. Ancora una volta non vinto, riprese il potere.

Tuttavia, l’esiguità del numero delle persone che erano venute ad acclamarlo, l’assenza di entusiasmo al suo passaggio, la constatazione che nessuna assemblea venisse convocata per festeggiarlo, lo avvilirono.

Riprese comunque le redini ufficiali.

Dapprima governò solo nell’Italia Occidentale, poi ancora nella Pavia capitale, come si può arguire dalle monete battute colà nel 1005 e da un suo diploma alla Chiesa di San Siro datato 30 marzo 1011.

 

L’effettiva autorità di Arduino negli aggiunti dieci anni di governo fu però probabilmente solo formale nel Regno, mentre rimase effettiva entro il suo Marchesato.

 

Stavolta egli non rinunciò a vendicarsi dei traditori. Fu, il suo, il tipico atteggiamento di chi, pur sentendosi emarginato e privo di appoggi efficaci, “tagliato fuori” - come diremmo oggi –dall’interesse così a lungo dimostratogli ed ora negatogli (così come si fa da sempre da parte dei politici e dei cortigiani che trascurano i vinti e gli scarsamente considerati) crede di poter riaffermare la propria autorità, che non è più autorevolezza, con atti di forza e prepotenze che in altri tempi non avrebbe compiuto.

Certo, i suoi contemporanei erano divisi tra l’obbedienza all’Imperatore lontano e inefficace e l’ossequio che avrebbero dovuto ad un Re vicino ma ormai senza potere effettivo.

Quasi sicuramente la lotta continuò sotterranea: da una parte Arduino e quelli della sua fazione, dall’altra gli aderenti di Enrico.

Definiti Realisti gli Arduinici ed Enriciani o Arrighiani gl’Imperialisti, il loro continuo scontrarsi in estemporanee scaramucce fu trascurato dalla storia ufficiale e probabilmente anche ignorato dai sottoposti contemporanei dell’una come dell’altra parte ch’erano lontani tra loro, disinformati e non in grado di valutare il susseguirsi degli avvenimenti.

 

Questo decennio ci è dunque avaro di notizie.

 

Vengono spontanee le considerazioni sulla complessiva esiguità dei documenti su Arduino, sui fatti che lo videro protagonista, sulla sua famiglia e sulla sua personalità descritta prevalentemente nei lati peggiori. Di contro, i ragguagli su altre figure storiche dell’epoca, indubbiamente meno importanti della sua, abbondano di particolari riferiti con precisione e puntualità.

La scheletricità di quanto ci è pervenuto si deve certamente all’essere stati monaci i cronisti del tempo e, per di più, necessariamente ossequienti alle direttive imperiali ed ecclesiastiche che volevano la storia di Arduino ridotta alla mera avventura di un provinciale ambizioso.

Pure, sfrondata d’ogni suggestione positiva od esaltante, la cronaca dell’assedio di Sparone lasciò traccia profonda nel tempo, fino a farsi leggendaria.

 

Nei nostri tempi più recenti, partendo dall’ancor vicino 1986 in cui, il 27 e il 28 settembre, si tenne in questa località una “rievocazione storica in costume dell’assedio sostenuto dal primo Re d’Italia contro le milizie di Enrico II”, ci si è proposti di ripetere ogni anno una Sagra di Re Arduino “manifestazione ch’è ottima occasione per la rilettura storica seria di un’importante figura”. Così, esprimendo resuscitate fierezze e rivendicazioni, l’organo di stampa de L’Union Piemontèisa, pur conscio di attirarsi, con sospetti di “razzismo”, grosse inimicizie a livello nazionale,  chiarisce che “in effetti, il titolo attribuito nel 1002 a Pavia dalla nobiltà, di Re d’Italia, si è troppo prestato a supeficiali semplificazioni. Il concetto d’Italia nell’Alto Medio-Evo non abbracciava come ora l’intera penisola, ma la sola Padania, la fertile piana delle Signorie – poi della civiltà comunale - e solo gradualmente si estese a comprendere le plaghe del Sud ove imperversavano i pirati e ove, al di là del potere della Chiesa, i dominanti, spesso stranieri, si succedevano a ritmi frenetici”.

 

Si vuole che Berta morisse in quel periodo.

Altri sostengono invece riconfermando la nebulosità calata sulle persone e sui fatti arduinici, che la moglie gli sopravvivesse di alcuni anni e che assistesse alla di lui morte.

Probabilmente la vita privata del Re poté continuare abbastanza serena nonostante tutto e lasciare luogo ai matrimoni dei figli: Ardicino con Willa, figlia del Marchese Ugo di Toscana; Ichilda con Corrado, figlio del fu Berengario II ch’era stato, di nome, anche lui Re d’Italia e che a Ugo era legato famigliarmente tramite la moglie anch’essa di nome Willa e madrina della sposa di Ardicino.

 

Si potrebbero aggiungere considerazioni sull’ineluttabilità dei vincoli e degli interessi che sovraintendevano agli sponsali fra parenti e fra potenti, usanza che continuava e continuò nei secoli, concedendo raramente spazio ai sentimenti di attrazione fra i “promessi” e privilegiando invece le alleanze, le ambizioni, i progetti tesi a concretizzare sempre più consistenti patrimoni terrieri.

 

Da Ardicino (che sarà d’uopo ricordare anche con gli altri nomi, forse frutto di cattive trascrizioni o di diverse pronunce: Ardicione e specie con l’ufficiale Arduino II) avrebbero tratto origine i Conti canavesani di Castellamonte, Fronte, Castelnuovo e Brosso.

Quanto ad Ottone, si sa che diventò Conte di una non definita Contea e, dal momento che i figli dello zio Guiberto - forse timoroso di vendetta - furono tutti sistemati altrove, lo si potrebbe immaginare insediato nell’atavica Pombia, se non che, essendo noto che la località, rilevante centro nella romanità e nell’alto medioevo ma successivamente solo centro plebano, risulta donata nel 1025 da Corrado il Salico al Vescovo di Novara.

Di Guiberto niente si sa se non che succederà anch’egli, di nome, e coi fratelli Arduino II ed Ottone, nell’intitolazione del Marchesato d’Ivrea restituito loro per l’appoggio di Olderico Manfredi, cugino di Arduino, che li volle suoi Vassalli col titolo di Conti fino al 1027.