IL MARCHESE DI IVREA

 

Seguiamo Arduino nel Marchesato d’Ivrea.

Risiedeva a Cuorgnè dove un’antica costruzione nobiliare ornata di finestre ogivali incorniciate di fregi in cotto è indicata come la sua residenza. Viene, a questo proposito, spontaneo l’indicare un’altrettanto vetusto edificio di Pombia con la residua finestra pressoché identica a quelle di Cuorgnè. Forse non è una coincidenza e il gusto del nuovo Signore esigeva di ritrovare somiglianze con i luoghi nativi anche nell’architettura.

Scomodiamo ancora la penna di Giacosa: “Ad Ivrea tutte le carte indecifrate parlano di lui ed egli vi è tutt’ora il sovrano leggendario, il padrone del suolo, l’edificatore di ogni chiesa, il fondatore d’ogni benefizio. I vecchi contadini dicono di sapere dove sono sepolti il suo manto come lo scettro e la corona”.

 


Arduino d’Ivrea
(Civica raccolta stampe – Milano)

 

Costituitasi intorno all’890, la Marca d’Ivrea, con la capitale sulla Dora Baltea, conservava a ricordo della dominazione romana il nome di Eporedia e si stendeva dalle Alpi Graie e Pennine fino al Mar Ligure comprendendo le Contee di Torino, Alba, Asti, Bredolo, Auriate, Pombia ed Albenga.

Lasciamo la parola allo storico G.Falco che ci ragguaglia sui tempi: “Fra lo scorcio del millennio il cui lungo, torbido travaglio feudale, seguito al disfacimento dell’Impero carolingio, culminava in un principio d’ordine politico nuovo, nelle monarchie di Francia, di Germania, d’Italia, di esse, soltanto una, la tedesca, s’impadroniva del Papato e prendeva il comando dell’Occidente.”

 


Casa di Arduino a Cuorgné

 

Tempi duri: le lotte tra i Vescovi e i Conti per l’ottenimento dei privilegi, delle “carte d’immunità” e delle esenzioni si facevano sempre più violente giacché l’Imperatore privilegiava i Vescovi a danno dei Conti. Inoltre i Vescovi premevano per indipendenze sempre maggiori non volendo più dividere l’autorità, mentre gli abitanti delle città propendevano ora per gli uni ora per gli altri, aggravando la confusione con l’intento di sottrarsi a loro volta alle duplici influenze.

 

Quando Arduino giunse ad Ivrea, nel 990, doveva essere in buoni rapporti e addirittura in dimestichezza con la famiglia imperiale.

Sappiamo che suo nipote Guglielmo era figlioccio di Ottone I.

Sua cugina Adelaide aveva ricevuto il nome e la protezione dell’Imperatrice. Ma quest’ultima aveva donato la Corte di Caresana ai canonici vercellesi e, successivamente, anche il Marchese Ugo aveva rinunciato ai propri diritti su quella Corte a favore del Vescovo Pietro.

Tutti questi lasciti avevano reso i Vescovi sempre più potenti a danno dei Feudatari laici molti dei quali si erano ritirati a vivere nelle campagne avvantaggiando ulteriormente i Feudatari ecclesiastici.

 

Arduino fremeva. Pur sempre professando un cattolicesimo nutrito di fede e di dottrina, si rendeva conto che l’avvicinarsi dell’anno Mille, profetizzato foriero di rovine terrificanti e addirittura della fine del mondo, era un avvenimento che propiziava grandi donazioni alla Chiesa. Fra il popolo non ci si dava tregua a prospettive angoscianti d’oltre tomba.

Verdun da Cantogno dice che “l’assillante pensiero del Giudizio finale non concedeva riposo e che s’intensificavano le grandi penitenze e le macerazioni corporali.”

Indubbiamente, anche se neppure in quell’assillo superstizioso si rinunciò alle buone come alle cattive abitudini umane, ci fu gente angosciata che pensò di propiziarsi l’aldilà lasciando i propri beni materiali a chi si pensava potesse farsene tramite.

Gl’Imperatori teutonici avevano comunque captato che, in vista dell’enorme aumento di potere della Chiesa, conveniva alla loro politica favorirne i privilegi che, di fatto, erano ormai simili a quelli comitali.

 

S’impone ora un risguardo panoramico sul passato oltre che sull’immediato futuro della Corte Imperiale, per riassumere e chiarire parte della intricatissima situazione:

 

-         Ottone I aveva perso, come s’è detto, il figlio Liudolfo.
Ancora in vita aveva associato al proprio governo il figlio Ottone II e gli aveva dato in moglie, nel 970, la principessa greca Teofane, intendendo così saldare l’eredità dell’Impero carolingio con quella dell’Impero Romano d’Oriente. Di fatto, la sposa era molto bella, ingioiellata come un’icona, istruita e intelligente pur giovinetta com’era, ma, al di là del prestigio del nome e del significato che le nozze assumevano, la sua dote fu irrisoria.

-         Ottone II appariva, secondo le cronache del tempo “biondiccio, mingherlino, di statura inferiore alla media” più simile a un paggio che al consorte di Teofane. Ma non era incapace di ambizioni, la prima delle quali fu quella di riconquistare l’Italia meridionale.
La più famosa delle sue immagini lo ritrae con le stesse vesti, gli stessi simboli rappresentati dallo scettro e dal globo e nella stessa posa che aveva tramandato, su cliché più antico, la maestà del padre.
Ma, così come la figura paterna traspariva autorevolezza e prestigio, quella del figlio appare fiacca nella posa, inadeguata e quasi schiva.
Non così doveva apparire Teofane di Costantinopoli, figlia dell’Imperatore Niceforo Foca e la cui sorella, Anna, divenuta Granduchessa di Russia per il matrimonio con Wladimiro, aveva introdotto tra i Russi costumi ed etichetta bizantina e chiamato sapienti e studiosi, fondando scuole ed elevando gli usi sui modelli della propria dignità imperiale. Così Teofane andò incrementando tra gli Alemanni l’idea, già cara a Carlo Magno, di una «monarchia illuminata».
Seppure il suo apporto economico fosse stato - come s’è visto - irrilevante, l’influenza culturale ed il prestigio della Principessa avrebbero dato buoni frutti nella acquisita raffinatezza delle regole di Corte e nelle celebrazioni dell’Infante che fu affidato al detto monaco Gerberto d’Aurillac


Ottone II
Particolare del Karkschrein (XII secolo)
nel duomo di Aquisgrana

Di fatto, Ottone II scontratosi coi Saraceni a Stelo, in Calabria, subì una sconfitta disastrosa. Presago della morte che lo avrebbe colto a ventisei anni, fece eleggere il figlioletto di soli tre anni Re di Germania e d’Italia.

-         Ottone III, succeduto al padre anche nel titolo di Imperatore, fu necessariamente tutelato dalla nonna Adelaide e dalla madre Teofane che si dimostrò abile, capace e pia, ma che morì anch’ella giovanissima lasciando la responsabilità dell’Impero al ragazzino undicenne.
Dice di lui lo storico G.Falco: “Un giovinetto di sangue sassone e bizantino, di così grandi e diverse eredità spirituali, nel quale troppo a lungo la tradizione storica si è compiaciuta di vedere il sognatore sconfitto dalla realtà, il demente travolto di ora in ora da esaltazioni mistiche e da terrori religiosi, da vane ambizioni e da furori sanguinari. Accoglieva effettivamente i più potenti aneliti dell’anima europea, l’aspirazione all’unità, alla purezza, alla pace; professava Roma capo del mondo, attestava la Chiesa di Roma madre di tutte le Chiese, proclamava la Renovatio Imperii, l’Impero rinnovato che riassumeva in sé l’ordinamento ad un tempo civile e religioso del mondo”.
Purtroppo si trovò a dover sedare la ribellione di un gruppo di nobili romani guidati da Crescenzio; nel 998 ebbe ragione di un lungo assedio a Castel Sant’Angelo da dove stanò il rivale asserragliatovi con la moglie Stefania.
Crescenzio fu barbaramente ucciso, il suo cadavere vilipeso, sua moglie presa quale amante del vincitore.


Ottone III il Grande e monaci
da un manoscritto della Biblioteca Nazionale di Parigi

 

Ma Ottone era e restava uomo di molti scrupoli.

I rimorsi lo sconvolsero, tanto da indurlo a pellegrinaggi espiatori al Monte Gargano e ad occuparsi con grande zelo religioso delle elezioni dei Pontefici.

Favorì infatti l’elezione di Gregorio V che, di ineccepibili costumi, fu il primo Papa tedesco e così quella del successore, Gerberto d’Aurillac ch’era stato il suo colto, pio, prudente e savio precettore divenuto Silvestro II.

 


La Vergine incorona Ottone III
dal “Sacramentario di Vermondo” foglio 160
Biblioteca Capitolare di Ivrea

 

Morì appena ventiduenne, tra le braccia o, a detta di alcuni, a causa di “un bacio avvelenato” di Stefania.

 

Alla morte di Ottone III, l’Italia è un ammasso dì piccoli potentati periferici.

L’Imperatore non ha lasciato eredi e il titolo di Re d’Italia è stato fino ad ora assunto dagli Imperatori di Germania, o da loro delegato a persone di fiducia.

Dicono Montanelli e Gervaso:

“Da Ottone I il Grande, gl’Imperatori avevano preso l’abitudine di fermarsi a Pavia, quando andavano a Roma per farsi consacrare.
A Pavia il Vescovo gli metteva sulla testa la corona che aveva cinto Teodorico e i suoi successori longobardi. Era un pesante e rozzo monile di ferro che si diceva costruito coi chiodi della croce di Gesù. Ma di quali poteri fosse simbolo non fu mai chiaro anche perché variavano a secondo le persone e le circostanze. Quando l’Imperatore era autorevole e scortato da un forte seguito, i Signori della penisola accorrevano a rendergli omaggio, e la cerimonia era solenne. Ma tutto finiva lì. Ripartito l’Imperatore per Roma, o rientrato in Germania, della sua presenza non restava traccia. Ogni Duca, Marchese o Conte restava sovrano assoluto nel proprio feudo. E le cose non cambiarono nemmeno nella scorcio del Novecento, quando a Pavia s’installò stabilmente Adelaide, la vedova di Ottone I. Essa esercitò un certo ascendente morale sui Signori italiani. Ma solo grazie alle sue qualità di carattere. Istituzionalmente, non rappresentava nulla.”

 


L’Italia intorno al 1000

 

Difatti, riguardando la carta che definisce i confini del Regno d’Italia, lo si nota vasto ma incerto.

Se anche dentro quei confini il Regno era una specie di astrazione, al di fuori non lo riconosceva nessuno: non i Saraceni stabilitisi in Sicilia, non i Bizantini padroni delle Puglie e d’innumeri coste della Campania e della Calabria, e neppure il Ducato longobardo di Benevento che, memore delle affinità originarie, rendeva omaggio al Re d’Italia e all’Imperatore di Germania quando aveva bisogno del suo aiuto, salvo ripristinare poi la propria autonomia. Quanto al Papato, i rapporti col Re Imperatore non erano chiari e ciascuna delle due parti li interpretava a modo suo: l’Imperatore, al di là della riverenza religiosa e della soggezione al Pontefice in materia spirituale, lo riteneva proprio Vassallo, mentre il Papa si considerava Sovrano assoluto.

Riferendosi alle masse che non avevano voce e neppure coscienza politica, dice ancora Montanelli:

“La Patria era il villaggio se non addirittura il casolare. Il Sovrano era il Conte o il Marchese che vi esercitava il potere effettivo consistente soprattutto nella riscossione delle tasse e nell’amministrazione della giustizia. Il concetto di Patria si sviluppò più tardi e non doveva mai superare, come nell’antica Grecia, le mura d’una città”.

 

E’, a questo punto, interessante seguire l’atteggiamento del Papa Gregorio V al quale il Vescovo Varmondo aveva esposto una lunga serie di lagnanze sull’operato di Arduino, lagnanze tramandate nel famoso “Messale” fatto scrivere ed illustrare dal detto Vescovo:

“Acciocché sia noto quello che da noi si chiede, noi vi profferiamo Arduino come obbiettivo della nostra legazione” (Si trattava di un’adunanza di Vescovi a Roma) “Degnisi la pietà vostra, quella con l’occhio dello spirito, esaminare, ed a noi tutti con paterno affetto in comune provvedere, acciò premuniti dalla protezione di un tanto padre, possiamo una volta andare esenti dai tradimenti di questo demonio vestito di forma umana”.

Dice il Provana: “Gregorio, uomo ancor giovane ma di pacato giudizio, non approvò le vendette di quei Vescovi: nella lite tutto il diritto non stava forse dalla parte di Varmondo, anche se i modi di Arduino fossero barbarici ed oppressivi”.

Disse Gregorio: “A te, Arduino, espugnatore della cristiana fede, nessuna benedizione perché ancora nessuna ne meriti. Egli è certo che tu ti diletti di andare iniquità ad iniquità aggiungendo, a persuasione di colui che ti ha spinto a dar principio a tanto male. Se non cesserai le male opere iniziate e non ammenderai quelle commesse, sappi che nella Pasqua del Signore tu verrai dalla spada dell’anatema infallibilmente punito”.

All’epoca di questi avvenimenti, Arduino si trovava ad Ivrea da una decina d’anni e in quel periodo s’erano andate manifestando le conseguenze della politica di destreggiamento introdotta dagli Ottoni, insieme all’estendersi del superstizioso terrore tra le popolazioni che temevano imminente la fine del mondo.

Il Vescovo Varmondo ribadì:

“Malediciamo Arduino e Amedeo suo fratello, predoni della Chiesa di Dio. Malediciamo tutti i cittadini di Ivrea che daranno loro aiuto e consiglio”.

 

II furore del Marchese s’esasperò. Pur non avendo avuto la scomunica papale, Arduino ebbe partita persa col Vescovo, essendo stato concesso a quest’ultimo da Ottone III il diploma di esenzione che gli dava “tutto il distretto della città d’Ivrea e fuori d’essa per tre miglia in circuito”.

Arduino non era tipo da saper subire.

S’impadronì con la forza di Vercelli e, nei tumulti inevitabili in ogni azione di battaglia che eccitano i giovani e specialmente i giovanissimi che si raccoglievano intorno a lui, la Chiesa andò bruciata.

Il Vescovo Pietro, col quale Arduino aveva avuto forti contrasti fin dal 997 a causa del possesso del luogo di Caresana, fu ucciso e il suo corpo dato alle fiamme.

 

Per renderci conto del violento fascino che il Marchese d’Ivrea esercitava, si ricorderà la definizione di Adalboldo: “Cum maioribus nihil tractabat, cum iunioribus omnia disponebat”.

Di fatto, non lo avevano seguito a Vercelli solo le milizie sue, ma anche i contadini di Caresana che preferivano la sua autorità a quella del Vescovo, in questa scelta addirittura aiutato da due prelati della Curia.

E’ anche vero che l’uccisione del Vescovo Pietro sembra, secondo il Gabotto: “essere avvenuta all’infuori della presenza e della partecipazione di Arduino, involontariamente, nel tumulto seguito”.

Comunque, dopo Pietro, la sede vescovile  della città fu occupata - dice il Pivano - prima da Raginfredo “favorevole, per quanto pare, ad Arduino, tanto che durante il suo reggimento nessuna molestia al Marchese venne mossa per le violenze da lui compiute”, e poi da Adalberto che parimenti non gli mosse rimproveri.

Fu con il Vescovo Leone, successore di Adalberto e definito dal Pivano “fecondo parlatore ed efficace operatore” che le gravi denunce contro Arduino ricominciarono, spalleggiate ed anzi anticipate da Varmondo Vescovo d’Ivrea che aveva conflitti di proprietà analoghi a quelli che avevano causato la sventura di Pietro e che indirizzò ai suoi pari grado una protesta: “Sappia la carità vostra, fratelli miei, che siccome un certo tale di nome Arduino, posponendo per consiglio diabolico le cristiane promesse fatte nel battesimo e la fede giurata a questa santa Chiesa Eporediense, abbandonato il servizio di Dio, non ha temenza di danneggiare e depredare la vigna del Signore”.

L’Imperatore Ottone III ammonì Arduino, ma gli lasciò le terre che Adelaide aveva donato alla Chiesa e ch’erano ritornate alla Marca d’Ivrea con la sanguinosa azione di Vercelli.

 


La corona del Sacro Romano Impero
creata per Ottone il Grande di Sassonia nel 960:
è in argento e smalto e contiene i resti dell’Imperatore Carlo Magno