IL FIGLIO DI DADONE NELLA SUA “PICCOLA PATRIA”

 

A Pombia e tra i Pombiesi, l’una e gli altri immersi nella vita agreste e forse qui un po’ meno “agra” di quanto renda oggi il significato dell’aggettivo, Arduino nacque nel 955.

La località, “grossa rocca ma piccola borgata presso Novara” (Cesare Violini) era posta a difesa - come s’è visto - oltre che a controllo dell’importante strada introducentesi a Stazzona dall’alta Valle del Rodano attraverso i passi alpini della Valle del Toce che portava a Novara, nella Padania, la grande pianura ch’era in pratica la Gallia a sud delle Alpi, inglobata da Augusto nel territorio di Roma.

Questa strada aveva preso il nome di Septimia dall’Imperatore Romano Septimio Severo. Poi, dopo la conquista carolingia dell’Italia, essendo usata dai Franchi come alternativa di terra alla più facile e perciò più usata via d’acqua del Lago Maggiore e del Ticino verso Pavia capitale del Regno d’Italia, si chiamò Via Francisca.

Così come aveva servito i Bizantini e poi i Longobardi guidati dal Duca Minulfo, la strada giovò agli spostamenti sia militari che civili e fu d’uopo fortificarla con vari Castrum o Castelli presieduti dai Conti.

 

Di Dadone, Castellano in qualità di Vassallo, Arduino non fu il primogenito, visto che il titolo paterno di Conte di Pombia spetterà al fratello Guiberto. Si ritiene tuttavia anche costui fosse succeduto al diritto dì Amedeo II che vi rinunciò per seguire Arduino nelle sue imprese, mentre Gualperto fu indirizzato alla carriera ecclesiastica.

Quanto al nome scelto per lui a ricordare il nonno materno, significava “amico valoroso” dall’unione di hardhu (forte, valoroso) con wini (amico) ed era di origine germanica, introdotto in Italia dai Longobardi ma diffuso specialmente tra i Franchi ed era stato portato da Sant’Arduino d’Inghilterra, morto nel 627. Nelle cronache e nei documenti dell’Alto Medioevo il nome di Arduino ricorre con innumeri variazioni: Ardoino, Adroinus, Artoinus, Artwinus, Hartwigus.

La sorella Perinzia - che abbiamo già incontrata, moglie di Roberto da Volpiano - era sicuramente la maggiore; aveva avuto un figlia ad Orta durante l’assedio a quel Castello capitolato ad Ottone I, l’Imperatore che magnanimamente lo tenne a battesimo e lo volle chiamare Guglielmo come uno dei propri figli, al momento Vescovo di Magonza.

 

Già considerata la pianta materna, uno “stato di famiglia” oltre che l’albero delle sue ascendenze paterne, può essere così letto:

 

 

 

Si sa che il figlio di Perinzia, Guglielmo, sarebbe divenuto un segreto sostenitore dello zio Arduino e considerato “pericoloso e potente avversario, suggestionato, più che dalle tradizioni germaniche della famiglia paterna, dai legami materni” e perciò inviso ai fautori della causa imperiale.

 

Di sicuro, Arduino trascorse l’infanzia nel paterno castello di Pombia “non certo in mezzo a grandi comodità perché è notorio che i castelli dei signori del tempo si distinguevano dai tuguri dei sudditi solo per la solidità delle mura e l’imponenza della costruzione.”

Si suppone che il fratello a lui più affine per istintivi sentimenti fosse, fin da allora, Amedeo.

Notizie particolareggiate sugli anni plumbiensi di Arduino non sono documentate, quindi sarebbe arbitrario il dirne. Si può invece attingere alle trascrizioni relative alla vita di quei tempi nei castelli piemontesi e lombardi, ribadendo che in effetti non vi si trovavano agi.

Oggi, quando si pensa alle dimore medioevali, s’immaginano torri merlate, ponti levatoi, fossati perimetrali, trabocchetti e grandi sale fastose.

Circa i loro abitanti, la fantasia rimanda a guerrieri nelle loro armature e sempre alla vigilia - o al ritorno - di imprese guerresche; a dame sospirose sugli spalti illuminati dalla luna o chine a ricamare arazzi istoriati e sciarpe amorose; a pregare nei loro chiostri o a giocare a scacchi con paggi più o meno innamorati.

Invece, sicuramente - e specificatamente nelle dimore nobiliari sì ma anche rustiche come quella di Pombia - sia gli uomini che le donne vivevano i loro giorni castellani e campagnuoli indossando vesti rammendate, frequentando gli addetti alle stalle - appunto i famigli - raccogliendosi al focolare e lesinando sulle spese mentre le nobildonne non disdegnavano di sciorinare i panni del bucato, di cucinare sapide vivande cui facevano seguire scipiti decotti digestivi prima di coricarsi nelle gelide stanze dove solo un treppiede reggente catino e brocca, solo un rado pettine e qualche boccetta “d’acqua d’odore” e di impasti d’erbe servivano alla loro toeletta.

Quanto alla gente del paese, poco incline all’ossequio per natura e spesso animata da uno spirito d’uguaglianza, facile al motteggio e all’ironia, guardava al castello nel quale si susseguivano e si

dissolvevano diverse signorie ciascuna dalla storia intricata e confusa, quasi come ad una locanda feudale dove gli avventori si susseguivano all’incirca ogni vent’anni, trovando la loro estinzione nelle guerre imperiali, nelle faide feudali, nelle malattie frequenti che li portavano a precoci sepolture entro i recinti delle mura castellane.

Non va tuttavia dimenticato che (come dice il Giacosa) “i popoli fieri, probi e operosi inclinino facilmente al sentimentale e al fiabesco.”

 

Mentre, successivamente, la Rinascenza avrebbe trovato in Italia molti paesi e famiglie elevate a dignità e potenza principesche e visto resistere dignitosamente le antiche, in Piemonte i movimenti accentratori delle grandi monarchie europee impedì l’insorgere di nuovi Signori e, specie nel sec. XVI, decadere vertiginosamente gli antichi.

I San Martino e i Valperga, discendenti di Arduino, si sarebbero impoveriti nelle guerre del Tuchinaggio delle quali si dirà più avanti

Contro l’estinzione di parecchie casate illustri, altre si sarebbero innalzate in Piemonte: i Provana, i Solaro, i Balbo, Grosso, Villa, Pietraviva, Dodoli, Vagnone, Asinari, Lajoli, Buschetto, delle quali restano “numerosi ed ornati edifizi” e costruzioni signorili risalenti al sec. XV.

Il più potente dei consortili tra i Signori dell’alto e medio Novarese sarebbe stato nel basso Medioevo quello dei Pombia-Biandrate.

Successivamente, l’insediamento dei Visconti, dei Nibbia, dei Caccia, Ferrero, unì a Pombia l’attigua Varallo che già apparteneva alla stessa Pieve, poi Vicariato. Questa iniziale simbiosi fu inizialmente proficua, ma in seguito si sarebbe evidenziata - come già detto - la preclusione di Pombia a  favore di Varallo.

 

In questa succinta panoramica sulle famiglie più note, non può essere ignorata la lotta fra Ghibellini e Guelfi che imperversarono intorno al 1310 e finirono con la devastazione di Pombia, Oleggio Castello, Crusinallo, Borgosesia, Boca, Magiate, Revislate, Bogogno e Gattico, quest’ultimo paese feudo della famiglia Gattico, nobile beneficiaria ecclesiastica che si divise successivamente in tre rami stabilitisi rispettivamente ad Agrate, a Borgomanero e a Pombia dove il nome è ancora presente.

 

Per tornare, dopo questa digressione, alla famiglia degli Arduini presente a Pombia nell’ultimo quarto del 900, si sa che Dadone discendeva dall’ultimo Re longobardo Desiderio, mentre la moglie Ichilda, venutagli da Torino, pare discendesse da Carlo Magno.

S’è visto che la loro figlia Perinzia era assediata ad Orta col marito Roberto di Volpiano essendo costui legato da giuramento a Berengario.

 

Gli altri matai più piccoli giravano dentro e fuori le mura del Castello, avvistavano dalla torre l’arrivo degli ospiti tra i quali Liudolfo era graditissimo; facevano comunella coi figli dei Manenti, artigiani, servi o contadini che fossero e probabilmente accendevano la compiaciuta ammirazione dei sottoposti che, pur restando tali di nome e nei loro innegabili doveri, di fatto continuavano a risiedere da innumeri generazioni e sempre più a lungo dei signori i quali, pur dominandoli, molto dovevano dipendere da loro ch’erano usi ai luoghi, ai costumi e all’adattamento ambientale da tempo immemorabile.

 

La storia intricata e confusa vissuta tra le spesse mura della Rocca richiama la successione indefinita dei Signori che l’abitarono.

Solo pochi tra i loro nomi rimasero documentati.

 

Più simili alle abitazioni richiamanti severamente un vivere aspro e rude ben diverso dal contemporaneo “viver castellano” in Provenza o nell’Italia meridionale ispiratore di trovatori e di musici, il locale Castello, atto nel proprio isolamento tra gente fedele, alle pause armate di genti guerriere, senza indugi allo sfarzo ed alle ostentazioni, ed anzi verosimilmente vólto a non dare nell’occhio al Sovrano per non destarne la gelosia, si faceva pur anche, con la famiglia di Dadone, luogo per giorni sereni.

Si possono immaginare i maschi nelle sobrie vesti quotidiane che s’ispiravano al parsimonioso precetto di “una addosso e l’altra al fosso” ed anche bisognose di rattoppi: camicie di tela grezza, brache con prolungamento atto ad insaccarvi anche il piede. Quindi, niente calzette né mutande, sopravvesti con cinture di cuoio e fibbie d’osso, calzari di panno o di cuoio sottile per la casa e in pelle di lupo o di cinghiale per le cavalcate, i viaggi e le cacce.

Solo nelle grandi occasioni si traevano dai cassoni di legno - unici arredi nelle camere insieme ai letti posati direttamente sul pavimento - le casacche e i giustacuori di panno, i mantelli coi lunghi cappucci, i berretti di feltro a tesa larga come quella dei pellegrini che servivano per riparare dalla pioggia come dal sole. Durante l’inverno, sia uomini che donne portavano anche in casa cappotti foderati con dorsi di volpe e pantofole ricavate ad alluda, cioè col procedimento con cui si conciavano le pelli rendendole flessibili.

Davanti ai grandi camini gli alari reggevano le scodelle delle tisane e le brocche di vino caldo (in estate c’erano i pozzi e le ghiacciaie sotterranee) e le grandi cassapanche o le scranne dalle alte spalliere mobili permettevano di volgere al fuoco ora le spalle ora il viso.

Le credenze addossate ai muri avevano alzate a baldacchino scolpite, così come erano spesso scolpiti altre casse dove il Signore teneva carte, libri, denaro ed oggetti di valore mentre le Dame vi custodivano i merletti, i cinti (anche quelli di castità?), i nastri, i guanti e i colletti, tenendo invece i gioielli nei preziosi stipi che erano sempre portati in dote col corredo nuziale.

Cominciava a diffondersi l’uso di collocare nel mezzo delle stanze una tavola posata su cavalletti intagliati a traforo intorno alla quale si disponevano sgabelli e seggioloni.

Adiacente alla camera del Signore c’era un piccolo oratorio affrescato.

Nei cortili aspettavano ogni mattina gli addetti ai diversi incarichi, dai famigli usuali e - due o quattro volte al mese a seconda dell’importanza della signoria ed a norma del costume - i Commessi alle diverse attribuzioni feudali.

Se si doveva rendere giustizia a qualcuno, il Signore(che pure era tenuto a conoscere bene le norme del diritto chiamate Costumiere, ma non voleva entrare nella dottrina curialesca, questa lasciata ai Sacerdoti) si sedeva nella sala baronale e qui, in uno spazio di tempo che durava “da una all’altra Avemaria”, amministrava la legge. Va detto che questo spazio di tempo e quest’incombenza erano per lo più sgradite ai Signori, sia per il disuso alle occupazioni sedentarie che per la scarsa propensione alle attività intellettuali. Raramente egli si pronunciava in prima istanza su crimini e criminali; più spesso si rimetteva ai suoi ufficiali, preferendo intervenire di persona solo se, trattandosi di accogliere dei prigionieri - fossero debitori o delinquenti - o, caso rarissimo e a Pombia sconosciuto, di elevare forche patibolari per le quali occorreva comunque e sempre l’espresso consenso regale.

Può apparire curioso quanto, invece, il Feudatario fosse di rapide decisioni se si fossero lesi i suoi diritti venatori o quelli delle colombaie, queste concesse ai soli nobili. Infatti, sia i diritti alla caccia come l’allevamento dei pennuti viaggiatori erano considerati simboli della signoria, perché i colombi, spandendosi per la ricerca del cibo in tutta la campagna, affermavano il potere anche sulle terre i cui effettivi proprietari non potevano pretendere nessun diritto di risarcimento ai danni che ne venissero ai seminati.

Anche nei giorni esentati dal dovere “rendere giustizia”, al Signore incombevano molte beghe, per la qual cosa egli teneva in casa i Champion (vasi con i tipi di granaglie) ed allestiva l’Echantillon (una pertica sulla quale erano segnate le misure convenute). Doveva anche ordinare i bandi e le grida, provvedere alla sicurezza ed al mantenimento delle strade.

Quando poi moriva uno dei suoi sottoposti, egli doveva - se gli eredi minorenni lo chiedevano - sigillare i mobili e la casa del defunto e inventariarne il contenuto “senza dispiacere a nessuno”, funzione che in genere veniva delegata ad appositi commessi pur rispondendone il Signore con i propri averi. Inoltre gli spettava la vigilanza a difesa dai pericoli del fuoco, contro le possibili pestilenze e a freno del peregrinare dei lebbrosi.

Ad onore di tutto il Piemonte, aggiungono le cronache, non s’usarono qui le feroci persecuzioni e ripulse avvenute altrove e specialmente in Francia, anche perché non si hanno notizie di epidemie locali di grande portata.

Tornando al Signore, lo troveremmo, dopo i provvedimenti per la giornata, raccolto con la famiglia ad ascoltare la Messa, servita in genere da un Cappellano residente nel Castello o, anche, dal Prevosto. Poi, seguiti gli addestramenti alle armi insieme coi figlioli, cogli ospiti e con gli scudieri e, raramente, il disbrigo della corrispondenza il cui recapito era affidato a pedestri messaggeri dai nomi indicativi: Galoppino, Grossagamba, Trinciamontagne, pervenuti alla celerità di passo tramite il continuo esercizio e il sacro terrore delle pene che ogni ritardo connetteva.

Circa l’istruzione della nobile figliolanza, sia maschile che femminile, ne era affidato l’incarico al Cappellano che s’incaricava d’impartire il latino (un latinaccio!) e “un po’ d’abbaco” che comprendeva la geometria, l’aritmetica e un po’ d’algebra.

Indubbiamente, le applicazioni intellettuali erano brevi: qualche lettura a svago della mente o atta a fornire un’infarinatura culturale, qualche vita dei Santi, qualche storia cavalleresca.

Il desinare era sancito da uno squillo di corno, alle dieci di mattina, e non sembri l’ora troppo prematura, giacché tutti, dal Signore alla Dama, dai figli ai sottoposti, erano mattinieri.

Sui pavimenti della sala da pranzo, a pianterreno, quasi sempre di lastre di pietra o di mattoni, si usava stendere paglia d’inverno e erba d’estate. Solo eccezionalmente, nelle camere, c’erano pelli di pecora o d’altri animali. A proposito della paglia, si ricorda che era considerata simbolo d’investitura: nella legge Salica, la formula per la trasmissione dei beni prevedeva la consegna al nuovo investito d’una festuca di paglia e con la consegna di una paglia un uomo libero chiamato in tribunale per liti, trasmetteva ad altri il diritto di rappresentarlo. Inoltre, il sorteggio di un’eredità contesa avveniva tramite le buschette estratte a caso ed era considerato un gesto di minaccia e una dimostrazione di rancore e di rotture il gesto di respingere una paglia. Ancora: quando i Signori, riuniti in Assemblea, si pronunciavano per la decadenza del Sovrano, ognuno di loro gettava a terra una paglia.      

Passando ora dal pavimento alla tavola, dovremmo considerare che la ghiottoneria e la raffinatezza divennero abituali solo dopo il secolo XII quindi, al tempo di Dadone e di Arduino, il desco era, sì, imbandito di carni di bue, cinghiale e montone, di pesce e di volatili quasi sempre cotti allo spiedo, ma ancora quasi esenti dalla salse e dalle spezie e ricchi, semmai, d’aglio e di cipolla. Quanto alle bevande, il vino locale era abbondante e genuino, spesso arricchito da importazioni, tramite ospiti ed amici, dal Nebiolo e dal Caluso. Probabilmente non accadeva, qui, di dover ricorrere all’assaggiatore, tenuto in gran conto altrove o di servirsi degli «specifici» (ad esempio, lingue di serpente) e di amuleti (pietre nere con pagliuzze d’oro) per provare la loro innocuità.

A tavola, se c’era un forestiero, lo si serviva con maggior larghezza e le dame gareggiavano nello scegliergli i bocconi migliori che, posati dapprima sul proprio piatto, veniva poi offerto con le loro dita, giacché le dita erano, col coltello e il cucchiaio, gli equivalenti delle forchette, che, introdotte appunto nel secolo X, erano però usate solo per la frutta sciroppata che avrebbe troppo sbrodolato dita e mento.

Indubbiamente, le mani venivano accuratamente lavate in acque odorose di menta e di viola e spesso asciugate nella grande tovaglia i cui lembi scendevano fino a terra e servivano anche a detergere la bocca,

Avveniva spesso che la castellana e le sue figliole, congedati i servi, attendessero personalmente al servizio della tavola e - se la usanza appare oggi di poco conto - bisogna considerarla atto di squisita cortesia nei tempi cui ci si riferisce, aggiungendo altresì che, servendo, si soleva cantare gentilmente!

Non si dirà dei grandi banchetti anche perché pochi Castelli erano atti a prestarvisi e che comunque i nobili ospiti che capitavano di frequente a Pombia, venuti in visita, o di passaggio per recarsi in Lombardia, nell’alto Piemonte, in Savoia, in Svizzera, vi giungevano in abiti da viaggio, accolti con famigliare e semplice larghezza.

Dopo il pranzo (dice sempre Giacosa ne La vita castellana) il Signore si riduceva nelle sue stanze a farvi la siesta quotidiana, i figlioli adulti vanno cavalcando ai vicini castelli, o pedestri intorno in cerca di facili amori(!) mentre la castellana e le figliole, a seconda dell’età, sonnecchiano, sognano sveglie, s’aggirano per la casa.

A primavera, quando fiorisce il biancospino e cantano gli usignuoli, la famiglia e gli ospiti convengono, al pomeriggio, nel verziere dove si trattengono confettando, a cantare, a novellare, e a quei giochi arguti di domande e di risposte che oggi, impacciati dalle convenienze e dal riguardoso linguaggio, hanno perso ogni sapore ma che furono a quei tempi, per franco parlare, per lecita indiscrezione e per sottili malizie inquirenti, gustosissime.

A quelle occasioni erano serviti rosoli, marmellate, bacche di dama, pasticcini, uccelletti arrosto e le migliori frutta della stagione.

Qualche sonatore di mandola o di musetta - ch’era strumento simile alla cornamusa - o d’ocarina, segnava il tempo a danze figurate quali la Pavana (o Padovana), a intrecci di figurazioni mimiche che con inflessioni della persona esprimevano inviti e resistenze d’amore.

Nei giorni di festa, i castellani uscivano sullo spiazzo antistante il Castello o sostavano davanti alla Chiesa, all’uscita della Messa per il popolo e non sdegnavano mescolarsi poi, sulle aie (ch’erano di fatto terrazzamenti della collina) ad unirsi alla gente che ballava la tresca, il trescone e la correnta, tutti balli contadini a coppia, molto vivaci che abbisognavano di pifferi, di tamburi e richiedevano batter vigoroso di mani e di piedi oltre che strette alle mani, alle braccia, alla vita e si frammischiavano a canti ed esclamazioni ricorrenti in misura, con vigorose battute dei piedi sulla terra.

Il verziere, oltre ad essere luogo di piacevoli divertimenti, diventava sede di atti di signoria, tanto che sotto l’olmo o il faggio che si usava allora piantare sulla piazza della Chiesa, si assembravano i comizi popolari per ricevere giustizia, mentre l’olmo, simbolo della giurisdizione feudale, se piantato davanti al castello era privilegio e retaggio del primogenito. Il signore che d’estate rendeva giustizia sotto le sue fronde poteva protrarre il proprio compito fino ai primi di novembre, giacché tenaci sono le foglie sulle fronde consentendo di compiere all’aperto gli atti di signoria con vivo gradimento di quanti amavano l’aria aperta.

Anche il parroco annunciava le pubblicazioni di matrimonio sotto un olmo e vi comunicava l’ordine delle divozioni settimanali, per non dire del monaco che radunava alla sua ombra i fedeli per pronunciare i suoi sermoni, mostrare le sacre reliquie e concedere le indulgenze.

Nel castello, graditi e festeggiati erano i giocolieri e i cantastorie accolti con lo stesso entusiasmo dai padroni, dai famigli, dalle fantesche e dal contado, tutti felici d’ammirarne le prodezze (ballo dell’orso e della bertuccia al suono della ribeba - questa strumento ad arco con tre corde, d’origine araba -, salto nei cerchi, destreggiamenti tra le spade e coltelli, declamazione di rime improvvisate e contorcimenti coreografici del corpo.

Specialmente graditi erano i trovatori, gli allegri pellegrini che raccontavano dei loro viaggi descrivendo paesi, costumi e genti diverse e, nelle lunghe sere intorno alla fiamma, deliziavano con la loro facondia e fantasia le dame e damigelle che, attonite nell’udire tante avventure, vere o false, favolose o miracolose, riscattavano la lunga solitudine, la vita monotona e silenziosa, le poche letture con i rapimenti e la credulità alle più inverosimili fiabe.

Effettivamente, e specie per le donne castellane, i sentimenti erano spontanei, impreveduti, emotivi.

Non va dimenticato che la sicurezza domestica era una conquista del giorno: la fortificazione della casa, la chiusura delle porte, un coprifuoco effettivo anche quando non era comandato.

La stessa proprietà del castello, anche se era stato costruito dai padri, conservato ed abbellito preziosamente attraverso generazioni attente, era soggetta alle osservanze che prevedevano la disponibilità dell’edificio per i cavalieri del seguito del Sovrano, il quale, quando scendeva a presidiare le Assemblee generali degli Stati, delegava quanti erano preposti a guarnire i castelli, facendone, appunto “guarnigioni”. I Signori, richiamati alla loro funzione di vassalli, erano tenuti a consegnare le chiavi ai commessi imperiali i quali si impegnavano a restituirla e a consentire l’uso delle magioni ai loro abituali fruitori, a meno che una sentenza intercorsa a seguito di eventuali mancanze criminose constatate, non li escludesse dalla concessione.

Avveniva così che il popolo si rallegrasse nel vedere i consueti signori umiliati all’ossequio di più potenti signorie, mentre, d’altra parte, l’amore delle parate, l’occasione.di avvicinare i prìncipi, l’orgoglio della piccola patria fattasi temporaneo centro di persone importanti esaltasse quei loro sentimenti che sarebbero poi stati definiti “campanilistici”. Gli stessi Feudatari dovevano apprestare gravosi tributi e regalie, rinnovare i patti e gli omaggi, fare, insomma, buon viso a una cattiva sorte avente il solo conforto d’essere quasi sempre temporanea.

Interessanti notazioni dell’epoca dicono che l’arrivo dell’Imperatore era annunciato dal suono di campane ed accolto dal Prevosto e dal clero locale, oltre che, naturalmente, dalla famiglia intera del Vassallo schierata sulla soglia della Chiesa mentre veniva intonato il canto del “Veni Sancte Spiritus”. Al termine delle solenni funzioni religiose, il Sovrano ribadiva pubblicamente il proprio impegno a “difendere con ogni suo potere i diritti e i beni della Chiesa, dei Vescovi e del Clero, delle vedove, dei pupilli, degli orfani e di mantenere e conservare al Feudo tutte le provvigioni, diritti, buone usanze, lodevoli costumanze...”

Ogni nobile ed anche ogni popolano poteva chiedere copia di quell’impegno sovrano ed ogni notaro era tenuto a stilarla.

Quando il castello era occupato a nome del Principe, la famiglia del più modesto Signore che l’abitava abitualmente trovavano più semplici alloggi nei dintorni, e spesso erano costrette a restare nei castelli forzate a convivenze estranee e fors’anche dovendo subire atti d’autorità.

 

In un ambiente come quello descritto, Arduino nacque e crebbe, bene educato nelle maniere ed istruito nelle dottrine, specie le religiose. Anche grazie ai periodi trascorsi presso i cugini Marchesi d’Ivrea e soprattutto alla Corte degli Ottoni, ebbe modo di avere una cultura complessa, rafforzata ulteriormente da altri soggiorni presso Lotario, re di Francia, il che ribadisce ulteriormente la convinzione sulle ascendenze carolingie materne.

E’ presumibile che la famiglia comitale plumbiense intrattenesse rapporti anche con la corte bizantina in quanto quest’ultima teneva a controllare ed a influenzare i Vassalli sentendoli vìa via estraniarsi e volgersi sempre più decisamente al mondo occidentale ed ai preludi d’autonomia.

 

Non è difficile immaginare Arduino ragazzo, sportivo come non poteva non essere un giovinetto nobile di quei tempi, tra spade e lance, archi e faretre, tra cavalli e cacce.

 

La caccia col falco era lo sport eccellente tra i signori del tempo, cosi come la caccia a cavallo praticabile sia nell’altopiano plumbiense che lungo i dolci pendii del colle, e quella d’appostamento, fosse questo teso agli uccelli con roccoli i cui resti permangono sul declivi, che quello apprestato per catturare cinghiali ambiti per la carne, ed anche lupi, linci, donnole, puzzole, tutti responsabili di stragi negli ovili, nelle stalle, nei pollai.

A queste ultime cacce alle quali partecipavano volentieri come battitori molti contadini i cui sonni erano turbati dalle bestie da preda, il Feudatario in genere (e quindi anche Dadone coi suoi figli) muoveva nella prima mattina.

Ma si cacciava anche al crepuscolo, con trabocchetti tesi seguendo le orme delle prede, e perfino di notte al chiarore delle fiaccole; anche in questo caso sia i figli che i servi venivano addestrati alle fatiche ed ai pericoli.

Così, tra rudi esercizi di forza fisica - severi anche se non estenuanti -, applicazioni dell’intelletto, pochi e semplici divertimenti, impegni domestici e doveri derivanti dall’attribuzione feudale, trascorrevano i giorni della vita castellana.

Gli uomini di maggior valore risiedevano brevemente tra le mura, chiamati com’erano dal Sovrano alle guerre, o ai Consigli, o alle Ambascerie.

A chi restava incombeva spesso la noia, quello stato di vita e dello spirito che mortifica e fiacca ogni coraggiosa risoluzione.

Ma la noia non è descritta nelle cronache, giacché solo i fatti, gli ospiti, i giocolieri, le danze si possono raccontare e non invece i lunghi e freddi inverni, le sere scese precoci dopo le cene alle quattro pomeridiane, l’oscurità delle stanze dalle finestre profonde chiuse da vetri a piombo che ritardavano il giorno e anticipavano la notte. Lunghe monotonie, interminabili soste attorno ai camini dove la presenza di Madonna e di Messere (qui erano già Madama e Monsiù, e, anche il Resgiù e la Resgiòra) precludevano a successive ed eccessive confidenze ed a scherzi salaci dei giovani.

Poca luce dalle lucerne fumose, braci incandescenti sul focolare, faville che davano lampi e poco calore.

Erano probabilmente più vivi, nell’ambiente, i ricordi, i sogni, le aspirazioni e le preghiere che non le ormai stanche e prudenti conversazioni, le litanie del Rosario intonato dal Cappellano e i congedi finali del Padre che s’avviava alla propria stanza, seguito poi dai famigliari che s’indirizzavano ciascuno alla loro.

 

Tornando ad Arduino ed alla sua prima età, lo si potrebbe vedere occupato negli esercizi cavallereschi quali la Giostra, il Passo d’armi, il Carosello, la Quintana e la Corsa all’anello, sovente giocati per i begli occhi di una Dama presente al Castello o intesi come parate militari, mentre i Tornei e le Corti bandite richiamavano non solo i Signori delle Marche e delle Contee vicine ma anche i Sovrani europei, e venivano disputati in recinti chiusi e secondo le ferree regole del codice cavalleresco.

Parte attiva nel piccolo mondo pombiese, Arduino ragazzo non sdegnò certo di correre a rompicollo coi suoi coetanei nei «motti» castellati e lungo i sentieri della collina che scendono nei boschi della Valle fino al grande fiume dove nuotare sfidando l’impetuosa corrente che a tratti rallenta maestosa affrontando l’ampia curvatura locale.

Quasi sicuramente il ragazzo era già dotato di quello “charme” e di quel prestigio incontestato che gli derivò dalle sue qualità umane ma anche dell’essere depositario di quella difficilissima arte che è quella del saper comandare. Infatti i cosiddetti “condottieri di uomini” hanno la capacità di trasmettere ad altri il convincimento di partecipare a compiti importanti, di contribuire a far qualcosa che “ha valore” e che merita dedizione; d’essere orgogliosi di appartenere ad un’impresa e di prodigarvi le proprie energie senza risparmio. Uomini cosiffatti sanno come evitare nel popolo rivalità ed invidie e come indirizzare l’entusiasmo non tanto sulla propria persona ma verso l’opera collettiva in cui tutti possono identificarsi. Francesco Alberoni dice che “a realizzare un’impresa importante, l’ambizioso deve (paradossalmente!) sacrificarsi e mettere al primo posto gli altri, sia pure solo in un momento importante e cruciale, sia pure solo sul lavoro”.

 

Si sostituisca “lavoro” con “battaglia” e si avrà la spiegazione del fascino dei “Dux”.

 

Sul fascino personale di Arduino non vi sono dubbi. Istruito convenientemente, gradevole conversatore e brillante compagno, non manifestò in giovinezza quella parte di sé più incline all’intolleranza che sancì - sia pure con indubbie motivazioni - le sue azioni adulte.

Manifestò invece buone disposizioni e notevoli interessi per gli aspetti umanitari della cultura del suo tempo, rivolgendo cura particolare alla vita delle Abbazie, veri cenacoli del sapere, che già gli rappresentavano l’inconscio desiderio di misticismo che la senescenza avrebbe esaltato.

 

A proposito della Cultura nelle Corti medioevali si dia spazio a qualche frase tratta da un saggio di Marc Bloch: “Il gruppo e il linguaggio dei “letterat” era quello dei capi? Cattive nomine spinsero alcuni ignoranti a posti importanti, ma, in genere, tutti gli Stati, le Corti episcopali, i grandi Monasteri, le Cappelle dei Sovrani, non difettavano di Chierici istruiti che - spesso d’origine nobile o cavalleresca - s’erano formati alle Scuole dei Monasteri o in quelle delle Cattedrali”.

Questi Chierici passavano spesso, a loro volta, ad istruire altri figli di Castellani.

 

Se l’ambiente descritto si riferisce alle classi “superiori”, anche tra il popolo non si trascurava l’apprendistato ai figli, quelli, beninteso che non fossero legati al servizio del Castello.

Era d’uso, nel Novarese, affidare i figli giovinetti o i pupilli ad un Maestro che insegnasse loro un mestiere. A lui veniva pagato il mantenimento e l’alloggio del ragazzo per il tempo necessario che variava dai tre ai cinque anni. L’apprendimento lo rendeva poi in grado di essere a sua volta un buon artigiano, falegname, fabbro, calzolaio, stagnino, sarto, conciatore di pelli e, via via, ombrellaio, spazzacamino, coltellinaio-spadaro, seggiolaio, spaccapietre iniziale con possibilità d’assurgere alla scultura, potatore d’alberi e di vigne, barbiere con eventuale proiezione a cerusico, rabdomante.

S’intuisce che per il lavoro di questi artigiani si rendesse sovente necessario vagare da un luogo all’altro, necessità che, da bisogno, si faceva pur anche piacere o addirittura elezione rendendo questa gente laboriosa ricca di spirito libero e picaro, aperti alla conoscenza d’altri paesi e perciò stimolati alla cultura e all’avventura, addirittura usanti un loro gergo linguistico chiamato in novarese “tarûsc”. Per le loro peregrinazioni bastavano, in genere, buone gambe; solo a pochi era dato di servirsi di un cavallo spesso trainante la “lésia”, una sorta di slitta che bene si adattava ai terreni dissestati od impervi.

 

Nel mondo laico i Signori attribuivano molta importanza all’istruzione dei loro eredi, dal momento che anche i fondatori delle dinastie regali avevano coscienza della loro ignoranza. Oltre all’esempio di Carlo Magno che fu sempre oppresso dalla consapevolezza della propria “illetterarietà” che gli concedeva a mala pena una firma ampollosa, si sa che Ottone il Grande imparò a leggere a trent’anni.

Nei monasteri dove Signori e Sovrani si ritiravano, spesso al termine della loro vita, si consideravano sinonimi i termini di conversus (giunto tardi alla vocazione religiosa) e di idiota che significava l’uomo incapace di leggere i libri sacri o, genericamente, l’inesperto o ignorante in qualche specializzazione del sapere; non dunque stupido o deficiente come s’intende oggi.

Fino al sec VII i “Referendari” erano membri del Consiglio del Sovrano e tali si chiamarono poi gli archivisti ed i ricevitori di atti pubblici.

Tuttavia, gl’illetterati non erano ignoranti e non mancavano di farsi tradurre quel che non leggevano direttamente.

 

Non ignorante e neppure illetterato, Arduino, giovane baldo ed eclettico in molte curiosità, sposò Berta, figlia di Oberto, Marchese della Liguria Occidentale e di una non meglio definita Rolinda.

 

Anche la Liguria era compresa nelle terre dell’Impero Ottoniano e, proprio alla Corte di Oberto, Adelasia, principessa imperiale in quanto figlia di Ottone I - quindi sorella di Liudolfo - aveva conosciuto un paggio col quale era fuggita in un sobborgo ancora deserto della comitale Albenga, in una terra considerata inospitale e selvaggia compresa nel territorio ingauno che da lei avrebbe preso il nome di Alassio e avrebbe addirittura superato in fama turistica il vecchio capoluogo.

 

“...Quando il Signore conduceva le spose al castello, la camera nuziale era tutta rinnovata. Si prendevano dagli altri locali le più preziose suppellettili per abbellirla e sul letto si stendevano materassi di bambagia, lenzuola di tela sottile, coperte colorate e federe ricamate per le nobili teste. Alle pareti, arazzi ricamati ad illustrate storie di famiglia o con raffigurazioni d’alberi e di fiori.

Tuttavia, la convivenza intima degli sposi non durava mai troppo a lungo in quanto i diversi ritmi ed interessi li convincevano ad appartamenti separati ed alla spartizione degli arredi, compresi i tradizionali quattro materassi che venivano divisi tra moglie e figlie ed erano negati ai maschi che li avrebbero ricevuti dalle loro spose in dote d’uso.

Di notte, i Signori dormivano in compagnia dei famigli, giacché nessuno stava solo. Se c’erano ospiti, l’uso era di offrirgli il posto nel letto del Signore. Quanto alla Castellana, una vecchia fantesca dormiva in un giaciglio accanto al suo od anche nel suo stesso letto, non muovendosi nemmeno al sopraggiungere di miglior compagnia, tanto la sua presenza era tenuta in poco o nessun conto all’infuori di quello di vigilanza ed eventuale aiuto.

I matrimoni erano celebrati sulla porta della Chiesa. Sulla soglia della casa maritale veniva poi offerto agli sposi un pane benedetto che lo sposo doveva spezzare e porgere alla sposa. Appena entrati, si appendeva alla cintura del marito un mazzo di chiavi, simbolo di possesso della dimora.

I popolani usavano mettere una scopa all’ingresso: la sposa, a scongiuro, doveva passarvi sopra entrando. Meno frequente il costume di far slacciare una scarpa al marito e di mettersela in testa in segno di sottomissione.” (da G. Giacosa)

 

Questi erano gli usi del tempo.

Come viveva, Berta, al castello di Pombia? Non ce n’è stato detto. Filava, certo, a somiglianza della Berta Imperatrice ch’era stata, madre di Carlomagno, famosa per il grande piè e donna di testa e d’azione secondo la moderna definizione di Gianni Granzotto che, nel suo “Carlo Magno”, la ritiene essere stata capace di bene influenzare le decisioni dei maschi di casa come di cavalcare instancabile al loro fianco, eppure fermamente decisa a consegnarsi alla leggenda con l’immagine preminente della Berta che filava. Molti Signori s’ispirarono a lei, dando per devozione e per augurio di saggezza alle figlie neonate, questo nome.

La Berta arduinica può essere meglio definita come donna di cuore. Marchesina di Albenga dove già la famiglia di Arduino contava su potenti parentele, lasciò il mare nativo e venne alla più modesta Corte plumbiense. Era, come dimostrò, aliena dalle ambizioni, in questo dissimile dallo sposo al quale fu comunque sempre fedele e solidale, spendendo per lui tesori di tenerezza, provvida al carattere impetuoso del coniuge. Egli le dimostrò in più occasioni il suo amore e la sua gratitudine e la tenne in grande considerazione, dolendosi molto per la sua salute delicata che risentiva della diversità del clima e delle asprezze delle genti.

Forse - ma sono solo supposizioni - anche questa Berta, come le altre Castellane, discorreva del Mago Merlino, di Tristano e della bella Maghellona. Chissà.

Era graziosa, profumata, elegante?

 

La salutare usanza dei bagni e delle”stufe” era scarsamente considerata dopo che i costumi romani erano tramontati e ricominciava solo allora ad essere introdotta nell’uso dei nobili.

Anche se al momento la cura della persona non richiedeva troppe abluzioni giacché la Chiesa considerava inverecondo l’uso dei bagni, e i rigori stagionali consentivano solo in estate il piacere dell’acqua sorgiva scorrente sulle membra, la presenza di un Ninfeo a Pombia può far supporre la continuità del suo uso a scopi igienici anziché magici e sacrali per cui era stato costruito dai fedeli delle Matronae celtiche qualche secolo avanti.

Certo, anche Berta come le altre dame specchiava nel piccolo miroir il viso senza trucco con la rara eccezione di qualche manteca d’erbe emollienti.

S’è detto in precedenza delle tavole castellane sempre imbandite.

Circa i letti, s’aggiungerà che vigeva l’usanza di appoggiarvi sopra, durante il giorno, una larga graticola di legno con il motivo ufficiale di impedirvi il distendersi dei cani, spesso levrieri, che di notte fungevano in effetti da scaldaletto. In realtà, questa abitudine scoraggiava dal poltrire in sieste pomeridiane concesse solo al Signore che faceva vita faticosa e mattiniera.

 

Quanto a Berta, non v’è motivo per credere che fosse pigra. Era stata troppo bene educata ai sistemi dell’epoca, considerando anche il prestigio e l’importanza della sua Casa di provenienza.

 

Le dame erano laboriose: sorvegliavano la cucina; provvedevano al guardaroba di famiglia in un locale chiamato “tappezzeria” sistemato al piano alto e perciò meno umido e polveroso degli altri. Qui, con l’aiuto delle fantesche, spiegavano, battevano, rammendavano e ripiegavano con cura vesti e biancheria, arredi e paramenti.

Gli abiti, fatta eccezione per quelli di gala da indossare nelle cerimonie, consistevano solitamente in una gonna non molto ampia di panno blu o rosso e di un corpetto in tinta aperto a cuore sul petto, con maniche strette ai polsi e aperte a tromba sulle mani. Ci si poteva magari invece sbizzarrire un po’ nelle acconciature dei capelli e dei copricapi: cuffie e cuffiette, a rete o di stoffa, cappucci o fazzolettoni, dal momento che l’uso degli scuffioni di tela inamidata a grandi ali e a forma conica adorna di veli sarebbe arrivata dal sec. XIII in poi.

 

Capace di conquistare con la dolcezza, Berta era anche pia e generosa tanto che furono non pochi a dover gratitudine alla sua mediazione. Tra altri episodi, è rimasta testimonianza della propensione di Arduino a compiacere la moglie in una “...donazione al Vescovo di Lodi, Alberto, del diritto di cavar pagliette d’oro dalle arene dell’Adda, fatta per interecessione di Berta, moglie di esso...

 

Arduino ebbe da Berta quattro figli: ARDUINO II (detto Ardicino), OTTONE, GUIBERTO, ICHILDA (o Nichilda).

I nomi rivelano la fedeltà che ancora sussisteva all’Imperatore, i buoni rapporti col fratello, il rispetto alle tradizioni.

 

Era serena, la vita di Arduino?

Non mancavano, a turbarla, le lamentele di Dadone sull’incandescente situazione politica che si veniva creando ad opera del Vescovo di Novara. Costui, pur già godendo di molti privilegi, aveva fatto pesare la propria forza e l’indisponibilità non solo ad assoggettarsi ma anche a collaborare con i Signori di Pombia.

Più specificatamente, nel 972, avendo quel Vescovo ottenuto da Ottone I il beneficio dell’Immunità, s’era fatto attribuire la giurisdizione sui territori, l’esercizio sui diritti fiscali e l’autorizzazione a costruire torri e castelli nonché ad aprire strade ed acquedotti.

Il “diploma” ribadiva che gli abitanti dei suoi territori erano posti sotto la sua esclusiva giurisdizione ed emancipati dagli obblighi verso gli antichi padroni o funzionari imperiali, e quindi, esplicitamente, dai Signori di Pombia.

Oppresso da questa situazione e certo anche dal suo ruolo di cadetto, fremente di vitalità repressa e cosciente delle proprie capacità e possibilità, Arduino accettò come una liberazione la nomina ad erede del Marchesato di Ivrea.

Era accaduto che Corrado Govone, succeduto a Berengario in quella Marca e morto nel 989 senza successori, gliene avesse trasmesso il lascito.

Giunto con la famiglia e la scorta ad Ivrea, Arduino si adoperò subito per rialzarne il prestigio del potere marchionale, ma anche e soprattutto per rivendicare i diritti dei Feudatari ch’erano andati via via passando ai Vescovi.

Non rinunciò ai diritti della famiglia in terra plumbiense, né alle tradizioni di cui raccomandò il rispetto al fratello rimasto, Guiberto.

L’altro fratello, Amedeo, lo seguì.

 

Ormai decisamente volto alla politica, acceso di sdegno per le ingerenze sia imperiali che vescovili e ben deciso a non accettare supinamente gli arbitrii, Arduino sarà da ora in poi il fiero Marchese d’Ivrea.

A Pombia, la piccola patria, rimasero, come in uno scrigno sigillato, i suoi sogni e i ricordi giovanili. Là si serbò la sua memoria, e non, come in altre località, su basi dubbie.

Se si è forse lasciato eccedere la fantasia col chiamare Bagno di Arduino il già citato Ninfeo ch’è invece molto più antico del Mille (ma niente vieta di credere che il Nostro lo usasse a propria vasca!) sono indubbiamente arduinici i resti del Castello, della Torre e della Rocca, per non dire di altri ritrovamenti non ancora ben valutati, oltre che della memoria orale che attribuisce al Re molti fasti, qualche nefasto considerato quasi con compiacenza giacché riguardò l’esuberanza maschile di Arduino. Tra l’ipotetica discendenza locale attribuì tagli con molta confusione ma specialmente a causa dell’ambizione di quanti pretesero di discendergli, sembrano essere stati suoi figli un Guido, un Ugo e una Richilda.

 

G. Giacosa, nella sua prosa che privilegia storie ed ambienti piemontesi ancora vivissimi nel secolo scorso, dice:

 

“Nelle case contadine e borghesi, i vecchi mobili, dalla credenza gotica allo stipo cinquecentesco, dall’inginocchiatoio barocco alla scrivania del secolo scorso, tutti provennero dai suoi favolosi palazzi. Da intonaco sgretolato non appare figura che non rappresenti le sue gesta, negli innumerevoli e diversissimi stemmi che fioriscono, tutti leggono l’arme di Re Arduino e tutti gli alberi genealogici germogliano dal suo ceppo!”

 

Si arriva alla considerazione apparentemente paradossale che nell’Alto Medioevo...

 

“...i contadini, nonostante le ristrettezze in cui si muovevano, erano alla fin fine privilegiati nei confronti dei loro discendenti ottocenteschi. Miseri allora e miseri oggi (negli affetti fiscali riferiti al taglieggiamento, il taglieggiatore di oggi si può benissimo assimilare al signore feudale), quelli avvertivano meno di questi il peso della loro miseria. Vale a dire che mentre gli antichi contadini, salendo al castello vedevano il signore vestire alla grossa, dormire sui sacconi di paglia in camere nude e fredde ed attendere ad uffici dai quali essi riconoscevano tutela ed utile diretto, il contadino o pastore di oggi, quando viene alla casa del padrone, la vede ornata e deliziosa oltre ogni suo sogno paradisiaco e vede il padrone godersene fra occupazioni che a lui paiono oziose e mollezze”.

 

Recentemente, Giorgio Di Rienzo ha commentato che, se

… i termini di un’eventuale polemica sociale sono in Giacosa molto approssimativi, ma può restare al lettore l’impressione di una presa di coscienza di un problema veramente impensabile per quei tempi.” In altre osservazioni Giacosa sembra aggrottare le ciglia del suo volto sempre sereno in uno scatto d’ira, quando riflette sullo spietato utilitarismo della società in cui vive: quando cioè considera che per questa società gli uomini, come bestie da soma sono meno costosi perché ad ogni mulo morto corrono altri marenghi, mentre ad ogni uomo morto, basta una croce di legno e un deprofundis.

Giacosa aveva più volte proclamato la sua simpatia per il nascente socialismo italiano: ma sarebbe davvero arduo rintracciare nella sua opera, al di fuori di questi timidi e isolati spunti, delle prove concrete ad un’effettiva adesione, sia pure del tutto sentimentale.

Al contrario, nel suo teatro e nelle sue prove narrative, il mondo sociale appare come una beata Arcadia in cui tutto va bene, secondo un ordine stabilito da un’antica tradizione.

La società di Giacosa, una società gerarchicamente strutturata, è un’ideale famiglia senza irrequietezze, presieduta, con paterni affetti, dal Re. E si direbbe anzi che uno dei motivi che determinano l’amore di Giacosa per il popolo   sia proprio quello della sua natura conservatrice (almeno alla luce della sua sommaria indagine sociologica) dell’ordine stabilito; il configurarsi cioè di questo “popolo fiero e saggio” come “non irrequieto, non cercatore di novità”; come un popolo veramente “ideale” che “nella sua storia non clamorosa e non ingloriosa, si mostrò sempre forte e vigilante ma non trascese - o in estremi casi soltanto - ad atti di ribellione e di violenza”; che nei riguardi dei propri signori “non solo non li ebbe in odio, ma ancora inorgoglisce delle loro spente casate come di sua propria grandezza. (Sono queste espressioni che si leggono ne «I Castelli valdostani»).

“Un popolo, insomma” conclude Di Rienzo “ideale per la società liberale del tardo ottocento, la quale, accettando la divisione rigorosa di classi, ne propaganda all’interno di esse la singola promozione individuale, secondo la morale che il ‘mondo è di chi se lo piglia’ e nel rifiuto sistematico di ogni altra possibilità di discussione ideologica più matura.”

 

Sono, questi giudizi riferiti a cent’anni fa, in qualche modo ancora possibili?

Certamente no, e non solo ad Ivrea, a Sparone ed in Val d’Aosta alle quali è principalmente rivolta l’osservazione del Giacosa, ma anche al Novarese sul quale ci stiamo soffermando.

Se poi l’osservazione si concentra sulla piccola Pombia, non immemore ma ormai troppo lontana dai propri lauri , si constata che a molti degli odierni pombiesi sta a cuore il progresso e l’adeguamento ad un’auspicata competitività con altri comuni vicini più evoluti anche se storicamente meno interessanti, ma nessuno più sognerebbe “rifiuti di discussioni ideologiche più mature”.

Pure, l’attuale posizione geografica che sembra averla relegata in un apparente ristagno ha il merito di aver conservato, con la permanenza del dialetto poco mutato, delle vecchie costruzioni e delle tipologie somatiche di molti cittadini, quei caratteri millenari di vigore, d’indipendenza intellettuale e di sincero amore per le tradizioni che sono propri di quanti hanno la fortuna di conoscersi attraverso innumeri generazioni e di poter conservare fedeltà alle persone e ai luoghi amati da sempre con la riservata, dignitosa ed orgogliosa tenerezza, che si riserva ai figli (...Arduino) ed ai vecchi padri (...Arduino!).