UNA PARENTESI PER LIUDOLFO, PRINCIPE RIBELLE CHE NUTRÌ
PROPOSITI AMBIZIOSI E MORÌ MISTERIOSAMENTE A POMBIA.

 

L’Imperatore Ottone I di Sassonia appare, nel “Evangile de l’Empereur Othom” conservato al Museo Condé di Chantilly, nel fulgore d’una maestà consacrata, simile a Giustiniano quale lo si ammira nel mosaico di Sant’Apollinare a Ravenna. Gli storici lo definirono saggio, valoroso, nobile. Uno dei migliori tra i successori di Carlo Magno.

 


Ottone I
da “Evangile de l’Empéreur Othon” – X secolo
Chantilly – Museo Condé

 

Dal padre Enrico, Ottone aveva ereditato anche il Castello di Pombia dov’era installato, a titolo di suo Vassallo, il Conte Dadone, nome, questo, derivante per idiotismo da Ottone.

Il vassallaggio concedeva di tenere il beneficium e di lasciarlo in eredità ai figli maschi. Ne derivavano il dovere di assicurare fedeltà e protezione al Signore che stava sopra e al quale s’era giurato fedeltà, e il diritto di proprietà sugli schiavi che vivevano sulla terra e sugli allodi, popolani liberi e non servi.

In cambio della protezione sulle terre che il Signore gli affidava, il Vassallo (in questo caso Dadone) assicurava all’Imperatore ospitalità a lui e alla sua corte quando capitava dalle sue parti. Ecco perché Ottone I, come i suoi predecessori e successori, venne più volte a Pombia, vi si fermò per i tempi necessari ad avere il numero pattuito di armati - cavalieri o fanti che fossero - proporzionali al “beneficium” concesso e comandati da Dadone stesso, al suo fianco e a suo sostegno durante le guerre che avvenivano “in pratica, tutte le estati” così com’è detto da G. M. Capuani nel testo “Ottone ad Orta”.

Tra le disavventure che si contrapposero al successo ed al prestigio di Ottone il Grande, le più note sono quelle dell’aver dovuto riconoscere Berengario II quale Re d’Italia (sia pure in suo vassallaggio e avendo comunque modo di continuare la politica volta a favorire e a privilegiare la Chiesa) e di avere contro di sé il proprio figlio, il primogenito Liudolfo.

 

Questo Liudolfo - o Litulfo - gli era nato dalla moglie anglosassone Editta, figlia del Re d’Inghilterra

 


Ottone I e la regina Editta
Statue nel Duomo di Magdeburgo

 

Liudolfo s’era alleato a Corrado il Rosso, capo degli invasori ungari, causando, oltre che danno, grandissimo dolore al padre.

Va però detto che, certo, il giovane ribelle s’era sentito a sua volta tradito ed esautorato dal nuovo matrimonio di Ottone con Adelaide, la vedova di Lotario, matrimonio che avrebbe dato il suo frutto in Ottone II designato in tenera età - e ancor vivo Liudolfo - a regnare col padre. Infatti, nel 959, Ottone I fece consacrare Re di Germania come proprio aggiunto il figlioletto di soli quattro anni d’età.

Eppure, a parte la ribellione che denunciava la sua ambizione frustrata, Liudolfo, Duca di Svevia, diede di sé prove non infime. Ottone, da quel gran diplomatico che era, gli aveva - in un certo senso - contrapposto anche il secondo figlio, Guglielmo Vescovo di Magonza, nominato tutore, insieme a Brunone suo fratello, del piccolo Ottone II.

L’irritazione di Liudolfo lo indusse perciò ad associare altri Signori di Svevia nella propria solidarietà alla ribellione di Saafeld.

Stavolta Ottone tornò personalmente in Germania da Pavia e riuscì, dopo aver superato parecchi contrattempi logistici e le insidie di un inverno particolarmente rigido sui passi alpini, a contenere la baldanza di Liudolfo cui s’era unito anche il proprio genero, Corrado di Lorena.

La successiva concessione del titolo di Re d’Italia a Berengario II - ferma restando la definizione dell’Italia a feudo germanico e ancora da venire la speranza dell’indipendenza italica - non fece che acuire l’insofferenza di Liudolfo.

La minaccia degli Ungari “selvaggi, crudeli e inarrestabili che in meno di cinquant’anni devastarono l’Italia per trenta volte” fu sventata da Berengario che li sconfisse e poi concesse loro una pace a proprio svantaggio: per compensarsi della qual cosa fece man bassa dei beni della Chiesa che si rivolse ad Ottone chiedendo giustizia.

Ottone, pacificandosi di proposito col figlio Liudolfo (che se ne stava, forse confinato ma certo a proprio agio, nel Castello di Pombia con la protezione e la compagnia della famiglia di Dadone) gli fece balenare la prospettiva di poter avere il Regno d’Italia tolto che fosse all’infido Berengario. Sconfiggendo costui che, col figlio Adalberto saccheggiava il patrimonium Petri, Ottone avrebbe ottenuto l’unzione e la consacrazione ufficiale ad Imperatore, consolidando il trono di Germania e pacificando i territori secondo il suo desiderio ch’era anche la savia ambizione d’essere ricordato come Rex pacificus, Ottone il Grande.

Liudolfo accettò di guidare l’esercito reale contro Berengario.

Occupate Milano e Pavia, pose l’assedio al Castello di San Giulio d’Orta dove la Regina Willa resisteva fieramente avendo seco il tesoro del Regno e sostenuta dalle truppe della Marca d’Ivrea comandate da Roberto, Signore di Volpiano.

Questo Roberto, che di Berengario era feudatario e vassallo essendo la sua famiglia installata nel territorio eporediense, non era tuttavia “né longobardo né franco” ma svevo, e quindi tendenzialmente incline ad Ottone. Tuttavia, leale e fedele, non si sottraeva al compito di difendere Orta e la sposa di Berengario mentre quest’ultimo, coi figli, s’era chiuso “al limite orientale del marchesato di Toscana”, nella terra di Uberto, anch’egli suo fedele vassallo e cugino di sua moglie Willa. Da là, e precisamente nella fortezza di San Leo da dove si dominavano “gli accessi dall’Appennino alla piana di Romagna”, Berengario nutriva speranze di ricevere aiuto dai Bizantini o magari dagli Ungari.

Willa si rendeva conto che la resistenza armata si andava facendo inutile. Anche la presenza entro le mura (queste rafforzate per suo ordine con un bastione supplementare chiamato “il muro della Regina”) della famiglia di Roberto, le era di grande intralcio.

Infatti, la giovane moglie di lui, presente insieme ai tre figlioletti: Godefredo, Nitardo e Roberto, era figlia di Dadone di Pombia. Naturalmente, Liudolfo, che poneva l’assedio ma era anche loro parente, li aiutava e li proteggeva dall’esterno. Willa, furente, non poteva contare su nessuno che l’aiutasse nei suoi propositi di sortite, di vendette, di contatti con residui amici.

 

Liudolfo si comportava bene.

Era abile stratega, coraggioso per sé ma prudente per le vite altrui, specie in considerazione della presenza di Perinzia coi bambini.

Vitalissimo, amante delle compagnie e delle amicizie, egli “preferiva passare il suo tempo nella capitale del Comitato” ch’era, appunto, Pombia “alta sulla sponda destra del Ticino a sud del Lago Maggiore” e lassù si sentiva a suo perfetto agio coi castellani che lo ospitavano.

Vi portava notizie di Perinzia che la madre di lei, figlia di Arduino Glabrione Conte di Torino, gli chiedeva accorata per riferirne a Dadone. Raccontava dell’assedio ai ragazzini di casa che lo ascoltavano attentissimi e partecipi. Specialmente il piccolo Arduino lo subissava di domande e gli affidava messaggi per la sorella e per i nipotini suoi coetanei.

Fu durante una di queste “licenze” che Liudolfo si ammalò.

Si disse che lo stesso Ottone avesse voluto tenerlo lontano, dubitoso sulla sincerità del “ravvedimento” del figlio, ma la supposizione è improbabile, considerando gli attuali successi logistici di Liudolfo e la sua acquisita buona fama di condottiero.

Fu avanzata l’ipotesi che Berengario l’avesse fatto avvelenare tramite qualcuno dei numerosi “infiltrati”.

Altri sostennero che le eccessive fatiche di un anno speso in viaggi e in guerre lo avessero sfinito.

L’ennesima interpretazione dei fatti fu quella di un’indigestione di carne di cinghiale che lo tolse di mezzo, concedendo a Berengario altri cinque anni di tregua.

Di fatto, Liudolfo morì nel Castello di Pombia il 6 novembre 957.

 

Ottone si trovò colpito nei suoi sentimenti di padre e sconfitto nelle trame ch’egli stesso aveva ordito mandando il figlio allo sbaraglio.

Compiendo la feudalizzazione del Clero aveva originato la lotta dei Feudatari laici contro il potere dei Vescovi-Conti, lotta, questa, che culminerà con Arduino.

L’Imperatore aveva pur sempre condotto una politica di destreggiamento con tutti coloro che potevano essergli utili ed era andato concedendo poteri alla Chiesa di Novara fattasi custode del Sacro Romano Impero della Nazione Germanica,

La Chiesa poté ripagare in seguito la sua benevola gratitudine permettendo al successore, Ottone II, la costruzione del Nartece di Pombia quale monumento al fratello ch’era colà deceduto.

Lo storico G.Ravizza, nella sua opera “Annotazioni alla Novara sacra del Vescovo Bescapè” (Novara - Tipografia Editoriale F.Merati, 1878) ricordò di aver visto nella zona del Castello di Pombia, divenuto proprietà Simonetta “l’urna di pietra in cui fu riposto” e sulla quale “era scritto LITULPHUS” e commenta che, se il Muratori annota che Litulfo fu sepolto a Magonza “in vista di quella pietra si può credere o che non sia vero, o che vi fu trasportato in seguito”.

L’ipotesi è quasi certamente esatta. Infatti, se il Nartece funebre fosse stato la tomba di un Vescovo, i successori ne avrebbero difesa la conservazione e non avrebbero permesso le sovrapposizioni murarie irrispettose dalle quali solo recentemente la costruzione è stata liberata. D’altra parte, questi tipi di monumenti funerari si creavano solo in numero limitatissimo e per personaggi molto importanti, quali, a Saint Denis per Pipino il Breve, e, a Saint Martin de Tours, per Angilberto, l’Omero carolingio.

 

Nella Pombia del X secolo, l’unico personaggio importante per cui valesse la pena di costruire tale monumento a tomba, con la sovrastante cappella che, rispettando le distanze prescritte dal culto cristiano, consentisse la celebrazione di messe espiatorie a favore dell’anima del defunto, era dunque solo Liudolfo.

 

Una sommaria descrizione del suddetto monumento, o di quel che ne resta, si può trarre dal testo di uno studio pubblicato su “Bollettino Storico per la Provincia di Novara”, settembre 1973, firmato da Pietro Favini di Varallo Pombia. Vi si dice di un loculo funerario tutt’ora visibile dal portico del Nartece, posto al centro di un arcone e ricoperto da una lastra di pietra.

I resti dell’affresco, visibili nel lunotto sopra il loculo, raffigurano tre persone, una delle quali ha mano benedicente e capo coronato da un diadema di tipo bizantino.

Questi affreschi - insieme a quelli nel velario dell’absidiola che raffigurano un gallo simbolo della vigilanza, un pavone simbolo dell’immortalità e un cane tricefalo demone infernale, tra altri disegni bizantineggianti ancora tipici del secolo X - sono probabilmente (come ribadisce Giovanni Donna d’Oldenico ne “Gli affreschi ottoniani di Pombia” Industrie Grafiche Falciola - Torino, 1969) relativi “ad una cappella espiatoria dove si svolgevano le funzioni religiose e si innalzavano preci in favore dei defunti”.

 


Pombia – San Vincenzo
Esonartece - presunto loculo funerario di Litulfo

 


Pombia – San Vincenzo in Castro
Pianta con esonartece ed il presunto loculo sepolcrale
di Litulfo figlio di Ottone il Grande di Germania