DIVAGAZIONI INTRODUTTIVE
AD UNA RIVISITAZIONE DEL MITO
DI ARDUINO DA POMBIA
MARCHESE D’IVREA E RE D’ITALIA

 

I luoghi

 

La gente di Pombia sapeva poco o niente di questo antico e misterioso Arduino, anche se lo vantava gloria locale.

-         C’erano, e ci sono, i resti del Castello di suo padre, Dadone Conte di Pombia, così come le rovine ancora decifrabili del Castello del Vescovo dalle quali innumeri generazioni attinsero, per farne selci e calcina, ad elementi monumentali, frantumandoli.

-         C’era, e c’è, la Via intitolata al suo nome che sale - suggestiva tra muretti di tritume di cotto e pietre recuperate da scordate pavimentazioni romane, tra verdi prati e siepi, tra vecchie costruzioni nobiliari saviamente ristrutturate - fino al culmine del colle.

-         C’era, e c’è, il carattere, così come una certa qual tipologia somatica degli abitanti che affondano le loro radici millenarie in questa terra: fisici come caratteri vigorosi e indipendenti, custodi di usanze tramandate con puntigliose intelligenza e perseveranza applicate al lavoro, alla fedeltà nei rapporti umani che ancora si esprimono con riservatezza, senza smancerie né esclamazioni dispersive.

Qualcosa dello spirito inquieto e bellicoso ma anche mistico di Arduino sembra persino aver ispirato scelte e comportamenti degli avi, rivali tra loro e divisi fin nelle Chiese che qui non furono, come altrove, riferibili alla dislocazione civica dei fedeli, ma ciascuna eletta a luogo di culto per gruppi di famiglie che tutt’ora rispettano le vecchie opzioni separatiste: San Vincenzo in Castro e Santa Maria della Pila.

 

San Vincenzo in Castro è la Prevostura cui appartiene tutta la popolazione di base, senza predicati particolari.

Chiusa entro le antiche e semidistrutte mura che comprendevano la vasta zona castellata, con le case dei sottoposti; edificata sul precedente Tempio pagano del quale è ancora visibile l’ara votiva poi inserita come pietra angolare alla base del Nartece ([13]), vicina al Castrum Plumbiae di costruzione arduinica, la Chiesa è dedicata al Patrono che non è lo spagnolo diacono martire nel secolo IV, ma il meno noto San Vincenzo d’Agen, francon diacono, vissuto tra il 250 e il 282, che subì anch’egli il martirio, un secolo prima del suo omonimo.

Al Prevosto di San Vincenzo si riconosce ancor oggi, per decreto Vescovile, il diritto di portare il Piviale rosso.

 

Santa Maria della Pila, in località La Villa, è Chiesa Arcipretuale oggi aggregata alla Parrocchia di San Vincenzo.

Divenuta gentilizia di Patronato con le famiglie Ferrero, Boniperti e Simonetta - tutti costoro succeduti ai primitivi Feudatari - ([14]) è la Chiesa preferita dai loro discendenti e dai discendenti di quanti scelsero queste fazioni.

Alcuni nomi suggeriscono ascendenze spagnole, così come la denominazione “della Pila” richiamantesi alla Vergine del Pilar ed ai tempi della Battaglia di Lepanto.

Inoltre, siccome qui non vi furono invasioni spagnole, è lecito supporre che queste persone fossero, di alcuni poderi staccati dal complesso “castellato”, o i conduttori o i proprietari post-fèudali divenuti, in seguito e in altri luoghi, professionisti, mercanti, industriali.

Si vuole anche che queste casate della borghesia letterata fossero le prime ad usare correntemente la lingua italiana, e a captare i segni dei “lumi” d’oltralpe.

Così, “quelli d’in Santa Maria” acquisirono la fama d’essere i più istruiti.

 

Naturalmente, noi andavano nella Chiesa “in Castè”.

Pur sorridente, se non addirittura irridente a quelle che consideravo sopravvivenze anacronistiche di faziosità medioevali, portai i miei morti nella Chiesa che, voluta dall’Imperatore, era stata quella del Castellano, fosse costui il Feudatario o il Vescovo-Conte.

Là era affluita la “plebs” che aveva trovato entro le mura castellate, insieme al lavoro duro che la spingeva ai campi e ai boschi, a quello creativo dell’artigianato ed all’obbligo della dipendenza, anche guida, protezione dalle invasioni gotiche e conforto spirituale.

Là s’era parlato sempre e soltanto il dialetto, ossia “la lingua di Dio” ([15]) in cadenze che ancora sembrano cantate sui ritmi solenni delle preghiera e con vocaboli che rimasero il più possibile fedeli a quelli dei padri.

 

Li avrei anche fatti tumulare, i miei ultimi morti, nell’attiguo Cimiterino posto in uno dei punti paesaggisticamente più pregevoli del paese, se un decreto che considero saggio e pacificatore non avesse accomunato, almeno nella sepoltura, i “litigiosi” pombiesi entro i limiti del nuovo cimitero comunale ricavato in un grande prato ch’era chiamato “Valletta” perché, prima d’essere livellato, digradava dolcemente tra vigne e castagni.

Ho avuto care amiche e ho molto stimato egregie persone appartenenti a Santa Maria.

Pure, capisco e giustifico il perseverare d’una sorta d’ostinata ed orgogliosa fedeltà alle ascendenze plebee, fedeltà da molto tempo solo formale ma ancora in qualche modo contrapponente - con diversi stendardi processionali, con scelte di colori simbolici, con ricorrenze festive separate - un gruppo di cittadini ad un altro, ciascuno a suo modo campanilista e conservatore in un libero e civile paese dove, pure, oggi si convive con altri nuclei etnici in laboriosa sintonia di opere.

 

Per tornare ad Arduino e quella specie di fascino ch’egli continua ad esercitare su quanti incontrano le sue vestigia, bisognerebbe chiedere aiuto, per capirlo, all’analisi freudiana.

Ad Ivrea e in tutto il Piemonte lo si ricorda e non solo come personalità di spicco che dia lustro a varie località.

Molti, magari inconsciamente, gli attribuiscono esagerate virtù e ne minimizzano gli eccessi, così come si fa ripensando alla figura del Padre che, nella memoria, viene spesso mitizzato.

E’ successo anche a me. Dopo decenni dì quasi-sordità al pensiero di mio padre, morto giovane, m’è giunto il tempo del desiderio di memoria, della ricerca, della speranza d’una affinità non più verificabile ma intuibile .

Sono andata puntigliosamente chiedendo episodi della sua vita a quanti avessero potuto conoscerlo e ho ritrovato con violenta commozione alcune cose: lavori di ebanisteria, disegni, progetti, fotografie e lettere che possono darmi un’idea delle sue capacità e, anche, gli eventuali falli d’indole.

Bene ha detto, riferendosi ad alcune mie strofe, Roberto Pazzi ([16]) il quale privilegia nella propria scrittura il Mito Regale posto a modello e a simbolo: “...i suoi versi su Arduino sono suggestivi, cantabili, onesti...” e, in altra occasione: “Mi è piaciuto il rinvio all’Io atavico e ancestrale”.

Ho, dunque, certamente sovrapposte e mischiate le allusioni emblematiche del Re e del Padre secondo gli schemi classici della psicoanalisi: il “padre non più straniero / padre che mi sei forte / e saggio nel pensiero” insieme al “forte” (Re) “qui dove nacque / dove giocò bambino” accomunandoli d’istinto col riconoscergli simili “la malìa, l’ardimento, la sconfitta, la disfatta di un fallito sogno”. ([17])

Ci furono altri sintomi dell’inclinazione a questa ricerca, e mi parvero coincidenze da non ignorare. Uno, fu lo stupore destato dall’apprendere di almeno tre Arduino tra i numerosi cugini di mio marito per parte materna.

Ne chiesi il perché alla mia paziente suocera che me ne spiegò il motivo, contenta per l’interesse che dimostravo alla sua famiglia, e nel contempo addolorata per l’origine della moltiplicazione di questo nome: due tra i suoi bei fratelli (erano in dieci, tra maschi e femmine) caddero in trincea nel 1918, e uno di loro si chiamava Arduino. Di conseguenza, il suo nome fu ripetuto, insieme all’altro di Mario, tra i nipoti.

Si. Ma, per quell’Arduino (ancora sembrava sorridere, con scuri occhi scintillanti sotto le lucide piume del cappello da bersagliere dall’immaginetta-ricordo dove lo si accomunava al ritratto del fratello più serio ed astratto) come mai s’era scelto quel nome?

Mia suocera, Lidia dopo un’Argira, una Silvia e una Bice, mi elencava i nomi dei fratelli maschi: Ugo, Arturo, Erminio, venuti prima dei due perduti, e mi riconfermava - dicendomi del padre, gran lettore e uomo di subitanei slanci come di imprevedibili ire - nell’intuizione che già m’ero fatto di lui, e di lui solo, essendo la moglie stata donna di poche scelte e di molte accettazioni: vitalissimo, fantasioso, vigoroso.

Forse come quell’antico Arduino la cui eco, ampliata - come s’è detto - in età recente, era viva anche nella Bassa Padania, come ovunque in Italia, a riproporre quel primo Re italiano e a suscitare nuovi ed entusiasti consensi tradotti spesso in nomi fino ad allora disusati per i figli.

 

Aveva, il mitico Arduino, lasciato tracce di sé anche nel Lodigiano?

Sì, certo.

Anche qui, e al di là delle mie scarse attitudini alle ricerche d’archivio, il caso mi venne in aiuto.

Leggendo pagine di storia locale ([18]) seppi che un Vescovo, Andrea, “ricco, avveduto, operoso ... favorì l’elezione di Arduino a Re d’Italia, dal quale, per intercessione di Berta, moglie di esso, ne ottenne pel Vescovato di Lodi il diritto di cavar pagliette d’oro dalle arene dell’Adda, diritto sempre esercitato sino alla fine del secolo scorso”. ([19])

Mi fu emozionante il testo latino della concessione di quel diritto e specialmente il trovarvi, chiarissima, la firma autentica, il monogramma di Arduino, che già avevo incontrato - ma più incerto sia nella grafia che nella riproduzione - in un atto di donazione a Cuniberto, suo Cancelliere e Prevosto nella Chiesa di Vercelli.

So bene che la notizia è briciola in un mare d’altre che ancora ignoro, ma la possibilità di confrontarla, sullo stesso testo, non inferiore né disdicevole al paragone del sigillo di Ottone III - l’Imperatore colto ed istruito per eccellenza - mi confortò nel pensiero del non essere stato Arduino solo una sorta di avventuriero scaltro ed irrispettoso, ma letterato, sia pure col supporto degli scrivani di corte, ed anche benevolo e benefico, riconoscente e riconosciuto e non sordo alle istanze coniugali per concessioni generose.

 

Poi, vennero altre suggestioni, magari definibili segni. Furono casuali di persone disparate, confronti di caratteri, riflessioni sulle diverse  situazioni.

M’inducevo ad una specie di gioco: adattare ad aggettivi qualificanti o dequalificanti coloro che m’era stato dato di conoscere, e trovare altresì le figure storiche da potervi appaiare come ombre o come trait d’union.

E, sempre, se ero indotta a definizioni quali ardito, generoso, impavido, baldanzoso; oppure sfortunato, umiliato, illuso, offeso, pensavo ad Arduino.

 

Ancora, col fluire del tempo (che non è, come a volte lo si definisce, impietoso, ma galantuomo e inducente a riflessioni ponderate ed alla qualificazione finalmente sincera e spassionata dei propri gusti più veri ed inespressi) scoprii di amare gente e luoghi che mi richiamavano idee decadenti, anzi decadute ma no spente nel ricordo delle virtù e dei difetti, delle irruenze e delle successive rassegnazioni, le une e le altre ricoperte dalla cenere degli anni.

Le rovine potevano simbolizzare tutto questo.

Non le rovine gloriose richiamanti i fasti della classicità o dell’impero romano, ma quelle medioevali e senza marmi dei luoghi poco noti ed esclusi dagli itinerari sia turistici che romantici; luoghi che, nel variare dei dialetti locali si traducono con accenti e vocaboli circoscritti a paesotti o paesini, mucchi di pietre.

Quel che gli archeologi e gli storici avessero potuto dedurre dagli esami di ciascun mucc ad preje o mucc de sass m’ha interessato, sì, ma fino ad un certo punto.

L’attrattiva maggiore è consistita proprio nel mistero e nella successiva interpretazione che ciascuno avesse potuto dargliene, più o meno supportata dagli approfondimenti culturali.

Ed ecco che ciascun muro, ogni torre, finestra o feritoia in cadenti bastioni ha potuto diventare, nella fantasia, teatro d’una storia, tanto meglio se con agganci di verità.

La suggestione dei luoghi ancora vivi ed operosi contrapponibili alle rovine che predominano nell’itinerario sulle orme di Arduino, richiede adesso qualche frase per sé.

Molti di questi siti mi sono parsi ricollegabili da un ipotetico “filo d’Arianna” che, più e meglio che a districare gl’incauti nei labirinti di paura e di gioco, possa condurre alla definizione d’una passione per la leggenda scordata e negletta di un uomo la cui storia si potrebbe narrare col ritmo di un’antica ballata: C’era una volta un Re nato a Pombia...

 

I luoghi, dicevo.

 

POMBIA

Innanzitutti, come culla, scrigno e poi tomba di passioni vitalistiche.

 

Poi, altri paesi che il caso, o il destino, m’hanno eletto a Patrie, fossero temporanee, più o meno amate o provvisorie, più o meno definibili in bellezza, in fama.

 

LODI

Ho già detto del fortuito incontro imprevisto con la pergamena del Re.

Successive notizie apprese dalla lettura dello storico Tenivelli dicono dell’avere Arnolfo, Arcivescovo di Milano, negato il riconoscimento di Re ad Arduino durante un’adunanza di Vescovi e di Baroni tenutasi in Lodi, riunione durante la quale Arnolfo “si lagnò fortemente che il Marchese d’Ivrea si fosse fatto eleggere senza che fosse stato egli ad eleggerlo e ad incoronarlo, in vigore di un decreto di Papa Gregorio V”. Dichiarava che Arduino era illegittimamente eletto e che egli nominava al Regno Italico Enrico, Duca di Baviera.

V. Castiglione dice invece che “Arduino fu dichiarato Imperatore in Lodi molto prima che Enrico fosse eletto Re di Germania”. Nobile testimonianza dell’Imperiale sua dignità ancora ci da un’antica medaglia d’oro, metallo in cui - secondo Agathia - non s’improntavano immagini se non imperatorie.

Quella moneta fu coniata “nell’occasione che dall’Italia confederata Arduino fu eletto il Lodi Imperatore”.

 

PAVlA

Il ricordo d’una sera da tregenda, d’una fuga da una Milano negatami, dall’essere profuga e proscritta dalle macerie del mio mondo.

Qui, un cupo attraversare a piedi la città fino ad allora sconosciuta, nel buio di un coprifuoco ch’era stata inevitabile follìa lo sfidare, tra nebbie e tenebre calate sulle sagome che s’intravvedevano maestose degli edifici che bisognava superare... il Duomo, San Pietro in Ciel d’oro, San Michele... “Ah, Arduino vi fu incoronato”...

Poi, tra bagliori d’incendi, e bivacchi di truppe teutoniche, e ronde di nere milizie simili a concreti fantasmi, la speranza, di raggiungere, oltre il Ponte distrutto e su passerelle sorrette da barconi, mura amiche… “come la Fruttuaria per Arduino?”... amiche per qualche giorno, almeno...

 

ALBENGA

Ormai patria di plurime e ripetute estati, di sogni per i figli gioiosi tra mare e sole, di ritrovate armonie tra i carugi testimoni di secoli.

E, anche qui, qualcosa su Arduino rinvenuto tra i codici d’una ricca ma cadente biblioteca, nei saloni di un vetusto palazzo. Notizie polverose, in tutti i sensi, ma inoppugnabili e gradite: la madre di Arduino era figlia del Marchese di Torino-Albenga, quell’Arduino detto Glabrione che estendeva i propri territori fin qui e probabilmente fino a Ventimiglia e ad Alba, ch’era il fondatore della Casa degli Arduinici in cui nacque la famosa Contessa Adelaide di Susa.

Furono dunque predominanti le ascendenze materne nella vita di Arduino sul cui padre, Dadone, poco si disse e si sa?

Certo, i legami e le influenze femminili ebbero il loro peso.

La stessa moglie del Nostro, Berta, era figlia di Oberto Marchese della Liguria Occidentale e probabilmente nata ad Albenga, che di questa zona era il maggior centro.

 


SUSA

Vi ho avuto cenni di benevola attenzione al mio scrivere, mietendovi un Premio, l”Augusta Segusium l984”.

Soddisfacente, certo, ma non meno dell’aver trovato, in questa occasione e in questo luogo, documentazioni relative alla già citata Contessa Adelaide, Cugina di Arduino e destinata a dominare cinquant’anni di storia dell’Italia settentrionale oltre che a saldare - moglie di Oddone, costui figlio di Umberto Biancamano - la dinastia sabauda a quella degli Arduinici e ad originare così la storia dei Savoia in Italia.

 

IVREA

“…la bella che le rosse torri / specchia sognando a la cerulea Dora / nel largo seno, fosca intorno è l’ombra / di Re Arduino” si presenta ineluttabilmente legata, nelle carducciane reminescenze scolastiche, alla figura del suo Marchese.

Anche a me, giuntavi dopo un peregrinare nel Canavese tra estetismi gozzaniani e concretezze di ghiottonerie a base di cacao, l’impressione iniziale è stata di ammirata meraviglia per l’ampiezza dell’anfiteatro morenico che l’accoglie e per la serenità del colle che la ondula senza incomberle addosso, tra la Dora che l’attraversa e le eleganti Piazze che la slargano. Il Ponte romano sul fiume, il Duomo, la presunta casa di Arduino a Cuorgnè, il campanile dell’Abbazia di Fruttuaria a San Benigno, quante e quali le impronte ancora cariche del fascino che “vince e spegne il ricordo di sé altero, sprezzante e violento, del sacrilego e dell’omicida, del traditore e del tradito, del Re inquieto e del ribelle turbolento”! ([20])

 

Ai riferimenti fortuiti offerti dalle località nelle quali, con passi perduti ma non scordati, la mia strada è passata, si possono aggiungere le molteplici induzioni, sia letterarie che visive.

Quali e quante è arduo numerare. Valgono per tutte tre indicazioni:

-         “Le meraviglie segrete delle ville e dei castelli italiani”, volume d’immagini proposto da Rusconi Editrice, si apre con il servizio sul Castello di Malgrà, a Rivarolo Torinese, dove si conservano, in perfetto stato di manutenzione, sia la torre antecedente l’anno Mille, sia la “camera di Arduino” definita “una delle più belle e prestigiose stanze del Castello in quanto vi ha soggiornato il primo Re d’Italia”.

-         Il testo “Un certo tale di nome Arduino” di Giuseppe Maria Musso, oltre che riportare “Voci e immagini dall’ultimo Re feudale” propone in copertina un disegno di Francesco Gioana che fonde artisticamente, con i simboli tradizionali e le figure stilizzate del Vescovo e dell’Imperatore, il medaglione centrale con l’effige di Arduino e con il cartiglio ARDOINUS DODONIS FIL. (Arduino figlio di Dadone) ridotto dal più completo ARDOUINUS DODONIS FIL. DESIDERI NEP. ITALOR VLT. REX ET IMP. ELECTUS che può significare la discendenza dal longobardo Desiderio nonché l’essere stato, al momento del ritratto, l’ultimo re ed imperatore italiano fino ad allora eletto.

-         L’arcinoto IL NOME DELLA ROSA di Umberto Eco. Non so se l’averne tratto un film sia stato più o meno giusto, pur nel constatato rispetto complessivo dello scritto. Scritto che ha, invischiato milioni di lettori in tutto il mondo con la seduzione dì quella Abbazia, di quel monastero, di quel labirinto così reali e insieme cosi simbolici.
M’ha fatto pensare, in molte descrizioni, ai luoghi arduinici e specialmente alla Fruttuaria dove il Re che - io credo - cercò in vita, più che l’avventura e il potere, una sua verità ch’era parsa a molti la Verità per eccellenza e per la quale s’era sfortunatamente battuto, trovò il tempo della pietà.

Pietà e perdono da concedere e da ottenere, oblìo cui arrendersi per gli anni di preparazione ad una morte che, senza dubbi né ironie, può considerarsi pia.

Oscurità e silenzio, rozze tonache a mortificare corpi ancora frementi, cappucci calati sugli sguardi di fuoco di uomini votatisi all’anonimità, tra muraglie possenti, sotto archi di pietra scolpita e istoriata.

E, su tutto, la regola della preghiera, la ricerca della pace.

 

Su quest’ultima immagine di Arduino penitente, si conclude questa nota introduttiva.

Nel chiedere paziente comprensione per l’eccessivo indugio in intimismi forse fastidiosi al lettore, insisto a sperare in qualche interesse per la storia che seguirà.


NOTE



[13] Il nartece è in genere un portico sorretto da colonne addossato alle basiliche cristiane; era riservato ai penitenti e ai catecumeni. L’esonartece di Pombia, senza colonne e ad arco, contiene il loculo funerario che fu quasi certamente di Liudolfo, figlio di Ottone I il Grande. La dizione di esonartece risponde ad una specie di trasgressione alle antiche disposizioni liturgiche che lo volevano soltanto luogo di sosta per catecumeni e pellegrini, disposizione che, alla metà del secolo X, non era più richiesta da oltre cent’anni.

 

[14] Giovanni Donna d’Oldenico: “Pombia tardo romana”

 

[15] Chiarimento del Prof. Antonio Bodrero, “dialettologo” di Frassino (CN) più noto come “Barba N’Toni”.

 

[16] Roberto Pazzi, poeta e romanziere contemporaneo (Il Re, le Parole – Cercando l’Imperatore – La Principessa e il Drago)

 

[17] Da “Mio padre” e “I resti del Castello”. (vedi nota 1)

 

[18] Da “Storia di Lodi e del Lodigiano” di C. Vignati, nella collana diretta da Cesare Cntù e ristampata da Fausto Sardini Editore in Franciacorta.

 

[19] Come già detto nella nota 8.
Nei primi anni del 1900 una società francese appaltò la locale ricerca aurifera, impiantandovi macchinari diretti da tecnici specializzati e assumendo mano d’opera locale. L’attività fu in seguito sospesa perché il reddito si rivelò inadeguato ai costi.
Aggiunte notizie su fatti dei quali l’autrice ha memoria, dicono di un centinaio di disoccupati di Pombia e Varallo, molti dei quali reduci dalla guerra da poco conclusa che ripresero – tra il 1945 e il 1947 – a svolgere la ricerca d’oro a gruppi, lavando la sabbia con l’antico sistema della scaletta e della ciotola.
Sempre a proposito di quest’attività, e ritornando agli Ictimuli già nominati, si ricorda che le voci galliche IK o WIK indicano cose aguzze o punte, mentre MOL o MUL significa monte. Il riferimento ad un monte può dunque riguardare sia il Monte Emo, in Tracia (nota 2) sia gli ammassamenti a piramide di grossi ciottoli ancora visibili a centinaia al Campfiord e formati dai rifiuti della cernite insieme ai grandi mucchi di sabbia lavata.
Un’altra preziosa notizia, questa recente del 1980, dice del rinvenimento sul greto del Ticino in Comune di Pombia verso il confine con Marano, di una piccola pietra “percorsa di solchi trasversali incisi e paralleli, oltre che da un allineamento verticale e centrale di piccole cavità di interpretazione incerta”. Il reperto fu definito TAVOLETTA ENIGMATICA DI POMBIA, presentato all’annuale Congresso di Cavriana (MN) e definito “risalente all’età del bronzo”. (Dal n. 1 – Anno LXXII del “Il Bollettino Storico per la Provincia di Novara”)
La spiaggia sabbiosa nell’ansa del fiume a Pombia, protetta dalle alture retrostanti, a tratti ombreggiata dalla bassa vegetazione, è adesso Parco del Ticino e continua ad essere meta di escursioni per nuotate, soste, picnic, elioterapia e sabbiature a buon mercato. Negli anni Venti e Trenta dapprima – quando cominciò a diffondersi l’uso terapeutico ed estetico dei “bagni di sole” – e poi ininterrottamente, la zona tra Tisin e Tisinin (questo un ramo minore) divenne luogo di villeggiature nostrane.

[20] Gianni Oberti, Presidente della Regione Piemonte, nel 1974, presentando il testo: “Arduino d’Ivrea. Un prologoe e due tempi” – testo teatrale di Gian Maria Musso.