DIVAGAZIONI INTRODUTTIVE
AD UNA RIVISITAZIONE DEL MITO
DI ARDUINO DA POMBIA
MARCHESE D’IVREA E RE D’ITALIA

 

I ricordi

 

Mio nonno ‘Ngeta ([1]) era andato malvolontieri a Milano e malvolontieri v’era rimasto, sperando solo di riuscire a crescervi bene i suoi figli col farli studiare e avviandoli a lavori decorosi.

Per sé, aspettava il momento giusto e benedetto di tornarsene al paesello natale, a godersi la pensione, momento che gli fu negato da una morte repentina e, per buona sorte, indolore.

Non aveva studiato, lui, ed era inibito dalla propria ignoranza incolpevole, immeritata dall’agilità del suo cervello nutrito di storia orale e di filastrocche popolari.

Per sua fortuna, ma anche a suo limite, era stato sorteggiato - come avveniva a quei tempi - per l’esenzione dal servizio militare, cosicché non aveva viaggiato se non per tragitti brevi che gli erano comunque parsi avventurosi ed emozionanti: nei dintorni del Lago Maggiore; a Torino dove aveva una sorella sposata; a Varese a trovare un fratello; a Verona, nel 1915, per assistere al giuramento dei matai, questi spavaldi e quasi irriconoscibili nelle uniformi guerresche.

Quando i ragazzi tornarono a casa dal fronte, riportando la corrispondenza ricevuta e custodita a conforto e talismano, si videro le molte cartoline che affidavano principalmente alle illustrazioni il messaggio di tenerezza e di affetto e che trasmettevano comunque “Saluti e baci” dal “Vostro Padre Angelo Ferazza”.

Solo così il nonno era riuscito a vincere il “pudore delle manifestazioni sentimentali, esprimendo anche, senza dirlo, il dolore per la lontananza e il terrore di separazioni irrimediabili.

La crudeltà di quei terrori gli aveva infuso tepidezza o addirittura assenza del cosiddetto “amor di Patria” che genericamente ma diffusamente si esaltava in quei tempi.

Sempre più spesso, negli anni successivi, egli avrebbe dimostrato indifferenza, con bofonchiamenti infastiditi, al mio essere “Piccola Italiana” e, con cupo scrollar di testa, ad ogni manifestazione di nazionalismo.

L’idea dell’Italia gli richiamava soltanto quella d’una bella donnona ingualdrappata in bandiere tricolori e con una corona turrita sulle chiome fluenti, giacché la sua Patria era Pombia e il suo Universo era l’ipotetico cerchio che se ne dipartiva lasciandola al centro.

 

Quanta nostalgia doveva nutrire, il nonno, per il suo paese!

A mia madre e a me, milanesi, che dicevamo:

“Nessuno sa dov’è questa Pombia: non c’è nemmeno sull’atlante di scuola!” egli rispondeva infiammandosi ad un’indignazione che lo ripiombava nel sintomo più antico ed acuto della propria timidezza: l’incespicare nelle parole.

Balbettando, apriva con gesti bruschi un baule e ne traeva poi, con ritrovata levità delle mani che avevano cercato rispettose, una pianta topografica, giallastra e pergaminosa, scovata alla meneghina Fiera di Senigallia della quale era assiduo frequentatore.

Era una mappa particolareggiata che suppongo essere stata militare in considerazione delle annuali manovre simulate che vidi più volte attuate su quell’altopiano, e che non so dove sia finita.

Comprendeva una zona limitata del Ticino in provincia di Novara - il fiume, simile a un nastro rigonfio di vento e acquerellato d’azzurro - dove Pombia era localizzata e protagonista, tra i boschi verde-scuro, i prati verde-chiaro, le alture marroncine,

Indicandone vittorioso il nome a tutto tondo, il nonno compitava poi a fatica - sia per colpa della vista calante che della scarsa alfabetizzazione - i nomi delle varie località, citandoli probabilmente a memoria, un po’ in taliacano e un po’ a modo suo, seguendo disordinatamente i ricordi, puntando l’indice e spalancando i miti occhi estasiati: il Castè, la Rocca, il Castlascc, l’0ppia, lo Splè, in Casà, San Martin, San Giorg, la Fabbrica, Montlamm ([2]) al Pont Viadott, l’èra d’la Cuntessa, l’èra dal Municipi, Santa Cattarina, al Moeutt, gli’a Scoll. E poi, in Campora, in Camporell ([3]) “in dua j summ nasù e j’mm summ marià”, e il Casone, il Vallone, la Valle, la Valletta; e l’Orèra, il Durbiè, al dovv Furnas, la Baraggia, il Baraggiolo, la Guzzetta. ([4])

Saltando da un luogo all’altro, sulla scia dei pensieri richiamati dai nomi, egli continuava in un crescendo di soddisfazione tanto più comica specialmente se espressa nella lingua nazionale: “Qui c’è la Piscina romana ([5]) dove i signoroni chissà cosa facevano fin dal tempo dei tempi; e qui c’è il Pisareu dove si va a prendere l’acqua per i bambini e i vecchi malati, un’acqua che di più buona e di più fresca non ce n’è al mondo!”

Sulla mappa, i pozzi e i risorgivi erano segnati da un circolino e da una P.

Io dicevo: “I pozzi, figuriamoci! L’acqua da tirar su a forza di braccia, col secchio, mentre qui, a Milano, basta aprire un rubinetto!” e lui, senza alzare la voce, brontolava contro la gioventù ch’è senza forze, che si da tante arie.

Poi, non rassegnato a non coinvolgermi nella fierezza ch’era nostalgia, continuava: “C’è acqua dove si vuole, anche sulla cima della collina come in tutto l’altopiano: basta scavare profondo seguendo le indicazioni del rabdomante, un vero mago con tanto di bacchetta”. I nomi dei siti continuavano ad essere declamati nella lettura, come se avessero indicato sue personali proprietà: “Ecco il Muss e, là, sullo stradone del Simplon, prima d’la stra Dimiana ([6]), il Ricreo; poi, più avanti e più su, il Lorisè e i Boschi “di sotto” e “di sopra”.

La foga lo faceva tornare al di qua della Statale del Sempione, scendere sulle rive del fiume, sconfinare in territorio dei Varascitt ([7]) dove trovava, tra i due Comuni, il Camp ad Fior “in dua as va a pischè l’or” ([8]), ritornare sopra la Stra d’la Stazion, arrivare alla Galleria che tagliava la collina e apriva il pozzo d’areazione Numar Du proprio vicino a casa nostra. Si soffermava un attimo alla Pesa, proseguiva per lo Chalet, saltava in Vernin per poi giungere, con una specie di carezza sui millimetri quadrati che riportavano i luoghi, nelle campagne della Fuarìa (“dite che c’è scritto Favorita?”) e della Fasola (“ma è il Vigneu!”) e concludere trionfante l’itinerario sul Passone e nella Regione Brera che veniva circondata da un segno dell’indice che appariva amorosamente magico, mentre la voce, emozionata, concludeva, con il rispetto e la gioia suscitabili dall’invenimento di un palazzo e non dal povero cascinotto appena tratteggiato: “Veh! Al Pasòn cunt la Brèra e la mè ca’!”

 

Di Arduino, il nonno sapeva vagamente ch’era stato un ribelle, un mangiapreti, ma anche un Re e, prudente come ritornava ad essere dopo l’esaltazione delle esplorazioni geografiche, e inadeguato come si sentiva a giudicare le cose dei Signori, non esprimeva pareri.

 

La nonna, che pure leggeva e scriveva speditamente ma non era andata più in là della Quarta elementare, taceva, e non per opportunismo, ma proprio per non rivelare la sua ignoranza su questo Re del quale aveva “ma sì!” sentito parlare, seppure in maniera contradditoria e nebulosa.

Non ne sapeva abbastanza per esprimere un’opinione. Del resto, aveva i suoi figli che parlavano per lei, e certo adeguatamente perché erano andati a scuola per parecchi anni, leggevano il giornale tutti i giorni e avevano buoni impieghi, grazie a lei che li aveva fatti crescere in città.

Il suo Pedrìn, ah!, lui non poteva più dire niente. Così lieto e pieno di vita com’era stato, adesso era immerso nel buio e nel silenzio d’una tomba che, però e almeno, non era nella nuda terra: un loculo era, in una Cappella del Camposanto in Castello che lei, ancora lei, aveva ottenuto nel loro paese che era stato il paese di Arduino, fosse o non fosse stato costui un vero Re come il Vittorio Emanuele che comandava al momento, nato a Napoli ma anche lui di razza e di lingua piemontese. Mah…

Maurizio, sì, il primo figlio “d’la Rusòt d’l’Angeta”, parlava e diceva.

Fin troppo, specie se si pensava al silenzio eterno del fratello, ed anche a paragone della sorella che aveva studiato “da maestra” e perciò ne sapeva più di lui eppure non parlava quasi mai, forse perché la vita, la gente, e magari nemmeno la loro Pombia, non le piacevano. Lei amava solo pregare e adorava il silenzio, essendosi votata a Gesù il quale si rivela appunto nel silenzio e nella meditazione.

Io la chiamavo “Rosa mistica”.

 

Tra questi figli, di mio padre - Pietro come il padre di sua madre, Negri - ho solo un ricordo molto vago.

Ricordo invece benissimo, e con grande tenerezza, quella zia Rosa.

Pia e gentile, era più istruita di quanto non lo fosse la media delle ragazze del suo tempo, e non solo in campagna ma anche in una grande città come la Milano dove ella viveva stabilmente con la famiglia. Lei sapeva certamente che Arduino aveva fatto uccidere un Vescovo e perseguitato la Chiesa, prima di pentirsi.

Inoltre, esecrava la politica ed evitava tutti quei riferimenti che potessero servire da aggancio alle discussioni che di solito nascevano a tavola, e proprio in occasione delle riunioni famigliari o delle Festività comandate.

Alcuni commensali, Ferazza anche loro, la pensavano esattamente come nella famiglia di mia madre e, seppure io non capissi bene il perché e il percome di quelle contrapposizioni, soffrivo nel vedere i visi alterati dal dispetto e dal risentimento, nell’udire le voci che si alzavano di tono, nell’assistere all’abbandono della mensa di quanti se ne andavano senza nemmeno aver assaggiato, dopo la paniscia, i bruscitt e il fricandò ([9]), piatti “festivi”, elaborati e tradizionali dei quali la nonna aveva elencato puntigliosamente gl’ingredienti, orgogliosa d’aver sconfitto l’originaria severa indigenza delle zuppe di cavoli e patate con la forza, il coraggio e l’onestà del lavoro ([10]) che l’aveva pervenuta a quel che considerava benessere e abbondanza.

 

Ricordo nitidamente anche lo zio Maurizio.

Man mano che crescevo mi riusciva sempre più difficile capirlo.

Uomo che vantava le medaglie di guerra “guadagnate” su diversi fronti, ch’era stato solerte seppur grigio impiegato di Banca per gran parte della vita, che custodiva la sua divisa da ufficiale in un sacco a prova di polvere e di tarme, “capocasa” dello stabile dove abitava, egli vantava - insieme ad un contradditorio antimilitarismo nutritosi certo ai giovanili e poi ritrovati slanci per un socialismo rivoluzionario - la propria compaesanità con il “primo Re d’Italia, Arduino”.

Spinta dunque dagli incitamenti dello zio, e fors’anche con la sotterranea intenzione di poterlo appropriatamente contraddire, lessi con cura quanto mi fosse accessibile su Arduino d’Ivrea.

In effetti, lo si lodava come campione d’italianità, quasi unico chiaroveggente nel groviglio politico delle vicende che avevano agitato un periodo di storia ch’egli aveva tentato di riscattare dall’oscurità per avviarlo, pareva, ad una coscienza nazionale.

I testi approvati e suggeriti dai programmi ministeriali dell’Italia post-risorgimentale prima e fascista poi, usavano aggettivi superlativi per Arduino che veniva proposto con frasi quali: “...preparandosi il popolo italiano alla resurrezione, dalle memorie più care balzò allora la figura di Arduino, vivida e forte; e ai giovani fu additato il fulgido esempio di colui che aveva voluto difendere l’indipendenza del suo paese in tempi difficili e con i soli mezzi del proprio ardimento.” ([11])

In seguito, quando lo zio Maurizio divenne - per cause forzose e tragiche che parevano continuare ad imperversarmi intorno - anche mio tutore, mi fu giocoforza dover ascoltare sovente anche le sue idee che contraccambiai di molti dissensi.

Il tempo e l’esperienza appianarono in seguito le asperità tanto da indurmi a far coincidere non poche delle mie opinioni con quelle che m’erano parse inaccettabili.

Arduino, argomento marginale ma non ultimo né infimo, entrò spesso nelle nostre animate discussioni.

Sentii poi, da nuove, più recenti campane, ch’egli poteva essere definito: “rozzo, coraggioso, prepotente ed ambizioso, capace di non farsi intimidire da nessuno”.

In conclusione, pareva essere stato “un arrivista, che aveva badato ad innalzare il proprio rango” e a cui “non mancarono tuttavia né l’audacia né l’accortezza”. ([12])


NOTE



[1] Da “La ballata dei poveri avi” in “Poemetti Pombiesi” di G. Ferazza

 

[2] Voce dialettale per Montelame, cascina a valle di Pombia, il cui significato, erroneamente ritenuto “monte delle lame” è invece derivante da Monte Emo, questo in Tracia (oggi è regione tra la Turchia e la Grecia) ch’era la patria d’origine dei Bessi, lavoratori addetti specificatamente all’estrazione del materiale aurifero dalle sabbia del Ticino. Ad Oleggio c’è la località Bessa.

 

[3] Anche di “Campora” e “Camporello” si travisò a lungo il significato che in realtà è campus auri, campo dell’oro.

 

[4] Guzzetta, ai confini con Marano, è contrazione di Aguzzetta, questo diminutivo di Augustea. Durbiè significa auribicus.

 

[5] Piscina romana, o “vasca romana” è il Ninfeo, ossia un tempietto a pianta ottagonale tipica delle costruzioni “magiche” ed ora seminterrato, ch’era dedicato alle Matronae, divinità femminili celto-liguri il cui culto, rimasto vivo in tutta l’età romana, era particolarmente diffuso nel Novarese. (“Iscrizioni romane della Liguria Occidentale inedite e poco note” di P. Baroncelli in “atti della R. Accademia di Scienze, Torino)

[6] Strada per Divignano.

 

[7] Nome dialettale per i Varalpombiesi.

 

[8] Campo dei Fiori, in realtà Campfiord “dove si va a pescare l’oro”, comprende una zona pianeggiante di Varallo Pombia ed è stato citato da Livio per una vendita all’asta di miniere (si trattava probabilmente di diritti d’estrazione) ai Pubblicani. Inoltre, sia Polibio che lo stesso Livio (XXI, 43-45: Discorso di Annibale ai suoi soldati prima della battaglia sul Ticino) dicono che la presenza in queste terre degli Ictimuli e dei Bessi (questi ultimi citati nella nota 2) sta a testimoniare che qui esisteva materiale d’oro. Va notato che i suddetti nomi sono di popoli ma anche di categorie di lavoratori, forse schiavi, importati per le ricerche aurifere nella zona citata, oltre che nella Bassa Vercellese e sul greto dell’Adda nonché in altri fiumi padani.

 

[9] Piatti tipici del Novarese, il primo di risotto con fagioli e verdure, il secondo di carne triturata, il terzo composto da un ripieno vario in carne stufata nel vino.

 

[10] L’emigrazione di alcune famiglie pombiesi in città quali Torino e specialmente Milano cominciò negli ultimi decenni del 1800. I contratti di baliatico erano ritenuti vantaggiosi dalle sane e giovani madri molto ricercate negli ambienti nobili ed altoborghesi per l’allattamento dei figli neonati. (Si veda “Demetrio Pianelli” di Emilio De Marchi, 1890) Sovente le balie furono raggiunte dai mariti, vigorosi com’erano costoro di fisico, di probità e d’intelletto, qualità tutte che venivano certificate dalla autorità sia religiose che civili alle prospere famiglie ospitanti le balie.

 

[11] Enciclopedia del Ragazzo Italiano, ed. Labor

 

[12] Indro Montanelli e Roberto Gervaso in “L’Italia dei Comuni”.