Da “SAPERE” – Ulrico Hoepli Editore
Anno III – Volume VI – n. 68
31 ottobre 1937 - XVI

 

TRIREMI E POLIREMI
di Paolo Coridori

 

 

Calchi della Colonna Traiana (fotografie gentilmente concesse dal Direttore Generale dei Musei Vaticani dove i calchi medesimi sono custoditi). Essi rappresentano navi del I secolo e mettono in evidenza la forma della poppa e della prora, il rostro, i timoni e diversi dettagli della nave. La posizione dei vogatori a braccia piegate mentre il remo è con la pala a prora, lascia pensare che la manovra sia diretta a sciare per fermare l'abbrivo della nave. Si tratta di semplici biremì, forse per la necessità di risalire il Danubio, come volevano le circostanze della guerra condotta da Traiano. Le sole ippagini destinate al trasporto dei cavalli, come è quella nell'angolo basso di destra della fig. b, sono prive di remi, perché venivano rimorchiate. In tutte, però, le dimensioni - così degli uomini, come dei cavalli - non sono proporzionate a quelle delle navi, che non sembrano disporre che di pochi "remiges" e non mettono in evidenza alcun epibato; la sproporzione diventa enorme nella fìg. c dove due soli uomini occupano il posto riservato a ben 12 vogatori.

 

UNA POLEMICA, alla quale si appassionarono per lungo tempo storici, letterati e tecnici navali, quella relativa alla forma, alle dimensioni, all'armamento, alla manovra delle triremi e delle poliremi romane, e che i radicali mutamenti della guerra navale operati in quest'ultimo secolo avevano fatto porre in oblio, sta per risorgere per opera del cinematografo, che vuol ricostruire scene ed episodi gloriosi della Roma repubblicana sul mare. Con la resurrezione di Scipione l'Africano, sembrano destarsi dal loro silenzio su questo argomento Tito Livio, Diodoro, Polibio, Sallustio e, assai più vicini a noi, Jurien de la Gravière, Fincati, Guglielmotti, Pullino, Corazzini; un'eletta schiera insomma di autorevoli persone, alle quali il pubblico erudito di cinquanta nazioni ed i marinai di tutto il mondo vorranno ricorrere, per formulare la loro critica più o meno severa.

Prima che la discussione si riaccenda, tentiamo di orientarci fra gli elementi, che la caligine del tempo ha sottratto alla nostra analisi e nei quali però ci si potrebbe incontrare.

Dalla circostanza che il primo ricordo di un'azione navale romana — lo sbarco operato alle foci del Sarno — è anteriore di appena un secolo alle gesta che condussero alla vittoria di Zama, qualcuno crede di poter dedurre che l'abilità marinaresca dei Romani fosse ancora assai scarsa al tempo di Scipione e che gli uomini di mare non fossero tenuti in gran conto in quel tempo. Il giudizio appare errato non appena si consideri che, già sessant'anni prima di quella battaglia, Duilio infliggeva ad esperti marinai, quali erano i Cartaginesi, una sconfitta cosi grave da demolire il prestigio che essi godevano nel Mediterraneo. La colonna rostrata eretta nel Foro attesta il trionfo tributato al vincitore. La grandiosità della battaglia di Ecnomo, vinta da Attilio Regolo e da Manlio Vulsone quattro anni di poi sorprende ancor oggi, quando si pensi che su una flotta di 330 quinqueremi, completata da un centinaio di ippagini, si trovavano imbarcati ben 150.000 uomini.

Se a noi, lontani nipoti di coloro che combatterono sotto le aquile romane contro i Cartaginesi, fosse dato di assistere ad una pugna navale del periodo remico, ci compiaceremmo di vedere come si fracassava la nave nemica, quando veniva colpita dal rostro e di vedere in una strisciata di fianco rompersi tutti i remi di una banda. E ci compiaceremmo che fosse messa in evidenza la maestria dei remiganti, e dei timonieri diretta a rendere meno dannoso il colpo nemico e quella degli epibati, sia nello scaricare i loro dardi e le loro frombole, sia, dopo gittati gli arpagoni e i corvi, nel trasformare la battaglia in un corpo a corpo fatale, decisivo.

Conviene altresì ammettere che, per quanto rapido sia stato il progresso operato nella arte del costruire navi, Roma disponesse già da tempo di ottimi ingegneri e fosse già assai bene apparecchiata, tanto per combattere sul mare quanto a portarsi sulla terra nemica oltre il mare. Nel racconto che gli storici fanno delle vicende navali occorse nel III secolo a. C., riempie di maraviglia la rapidità con la quale i Romani costruivano le loro navi e la facilità con la quale le varavano o le tiravano in secco al termine della stagione favorevole per la navigazione. Che essi definissero col nome di "navi", galleggianti di modeste dimensioni e di limitato tonnellaggio, è da escludersi dinnanzi alla affermazione di Polibio (egli fu anche ammiraglio) che ogni quinquereme disponeva, oltre che di 300 rematori, di 120 combattenti (epibati) e di.       circa 25 uomini fra marinai e maestranze; ciò che costituisce un equipaggio di 445 uomini per nave. Ed il conto torna se si considera che nei quindici anni della prima guerra punica, Roma perdette con 784 quinqueremi un totale di 340.000 uomini!

Dice Tito Livio che l'armata che venne affidata a P. Cornelio Scipione possedeva tra l'altre 70 navi (30 triremi, 10 quadriremi e 30 quinqueremi) che erano state costruite, varate ed armate nel corso di soli 45 giorni a partire da quello in cui il legname era stato trasportato dalle selve ai cantieri; e che sulle 30 quinqueremi venivano imbarcati, per essere trasportati in Sicilia, ben settemila epibati, in ragione cioè di 235 per nave. Non v'ha dubbio alcuno, adunque, che ci troviamo in presenza di navi di grande mole ed è giustificata la domanda: una nave che si accinge ad affrontare le bizze del Tirreno con 560 persone a bordo e l'organo motore della quale, sia pure con l'ausilio della vela, è il remo, che richiede ampiezza di movimento, quali forme e quali dimensioni deve avere? qual tonnellaggio per garantire nel miglior modo l'incolumità e la sussistenza di tanta gente? Polibio (e con lui gli altri storici) tace su questi interrogativi, né spiega come i popoli avessero allora risolto l'arduo quesito della molteplicità degli ordini di remi.

Chi in passato ne ha cercato la soluzione, si è trovato in un pelago, dal quale si è tratto con difficoltà, specialmente per la eccessiva lunghezza dei remi dei traniti (cosi erano chiamati i rematori degli ordini più elevati). Né si può fare tranquillo assegnamento sulle rappresentazioni grafiche delle navi romane che ritroviamo su vasi, su monete o nei rilievi su pietra, quali ce le offre la Colonna Traiana, perché tutte sono affette dallo stesso errore nelle proporzioni fra le dimensioni delle navi e quelle delle poche persone, che sono messe in evidenza a bordo. Tanto meno, poi, le navi messe all'asciutto nel lago di Nemi possono venire in aiuto, che il rapporto di 1/4 fra la larghezza e la lunghezza (quando non fosse la loro stessa ubicazione) dimostra che il loro ufficio non era quello del combattimento, per il quale invece occorrevano navi sottili, dalle forme affinate per poter sviluppare la massima velocità.

 


fig. 1 Aplustia, ossia l’armamento della poppa di una trireme

 


fig. 2 Acrostolia, ossia la prora di una trireme

 

Dai documentari appaiono manifeste le forme e le dimensioni, cosi della poppa (aplustia) [fig. 1] come della prora (acrostolia) [fig. 2], le due prominenze ricurve delle estremità delle triremi romane, dipinte con divinità o mostri marini, dai quali le navi traevano quasi sempre il loro nome. Sulla acrostolia (che era sempre munita di rostro a punte ferrate fissato sulla ruota di prora poco sotto il galleggiamento) apparivano taluni degli ordigni di guerra: l'arpagone, travicello uncinato, e il corvo destinato ad improvvisare un ponte fra le due navi appena quella nemica fosse afferrata; la mano di ferro, uncino multiplo da getto all'estremità di una catena; la balista per gettar dardi e sassi. Sull' aplustia, invece, appariva come il governo della nave fosse affidato sempre ad una coppia di timoni, sporgenti a destra ed a sinistra della poppa. Non si vedono che assai raramente la sambuca, scala allacciata alla torre e che sulle torri nemiche doveva piombare; la catapulta per lanciar pietre pesanti; il delfino, trave sospesa alle antenne, da far cadere sul ponte della nave nemica al momento dell'abbordaggio. Parimenti risulta arduo trarre dai documentari la lunghezza delle navi e la disposizione sul loro fianco dei follicoli, dai quali uscivano i remi. Le navi erano pontate (catafratte) ed il ponte di coperta (catastroma) proteggeva completamente i vogatori, mentre lasciava libero per la pugna il piano di coperta. Un altro ponte correva inferiormente per tutta la lunghezza della nave, quasi a costituire una cassa d'aria stagna, nella quale però erano ricavati depositi per materiali e per viveri.

 


fig. 3 e 4 Sezione trasversale di una quinquereme nella quale sono schematicamente indicati, su un solo lato, gli uomini che armavano i remi. Sotto la sezione maestra si è rappresentato in pianta per un tratto della sua lunghezza l’interno della nave, per dimostrare come erano disposti presumibilmente i sedili dei “remiges”; a fianco di questa pianta schematica si dà per la stessa lunghezza la rappresentazione del fianco della nave per far vedere a che distanza si trovavano i follicoli di uscita dei remi. La differenza tra una figura e l’altra consiste unicamente nel numero dei remi, poiché nella prima si hanno cinque ordini  mentre nella seconda i remi sono disposti su tre soli ordini, il che consente di ravvicinare maggiormente i “remiges” dello stesso ordine.

 

Quale differenza corresse fra triremi e quinqueremi o pentere è difficile stabilire, tanto più quando si consideri che le dimensioni erano spesso le medesime cosi per l'uno come per l'altro tipo. Indubbiamente erano pentere quelle armate con  5 ordini di remi (fig. 3), ma lo stesso nome doveva esser dato anche alle triremi, quando ogni gruppo di tre remi era armato da 5 uomini: due franiti, due zighiti ed un talamita.

 

fig. 5 Disposizione differente dei “remiges” che consente una miglior utilizzazione dell’energia sviluppata ed un risparmio di materiale per l’approntamento dei banchi.

 

Le triremi, cosi armate, dovevano differire ancora fra loro per il modo col quale il remo veniva impugnato dai vogatori; nella figura 4 infatti vediamo i franiti seduti, mentre nella figura 5 essi sono in piedi. In questa seconda posizione la manovra del remo doveva riuscire certamente più efficace, per la maggior ampiezza di movimento. I franiti dovevano essere scelti fra i più robusti, mentre i talamiti potevano essere giovinetti o uomini di piccola statura. Nelle figure che accompagnano queste note la lunghezza dei remi è segnata per dimostrare come essa doveva essere appunto quella che vincolava più di ogni altra cosa le dimensioni delle navi e non consentiva al costruttore delle navi di oltrepassare un certo limite di larghezza. Si può ritenere che i remi dei traniti fossero lunghi press'a poco quanto era larga la nave alla quale dovevano servire.

Un particolare, relativo al modo in cui il remo giocava nel follicolo (il foro aperto nel fianco della nave per lasciarlo passare e che corrisponde a ciò che oggi si definisce lo scalmo), merita di essere segnalato ed esso si riferisce alla tenuta stagna del follicolo medesimo, resa tale con tutta probabilità da fogli di cuoio, assicurati al remo in corrispondenza del suo centro di gravita e cuciti solidamente col loro lembo al fasciame, tanto all'interno, quanto all'esterno, in modo da permettere che sia il girone sia la pala descrivessero nella loro rotazione un largo movimento conico. Assai probabilmente i remi dei talamiti dovevano esser compensati, sicché il peso della parte esterna (pala) equilibrasse quello del girone.

In una nave di tipo normale, le dimensioni dovevano essere pressocchè le seguenti: dal catastroma al I ordine di sedili 1,05 m; dal I ordine al V 2,40 m; dal V ordine al galleggiamento 0,45 m, mentre il bagnasciuga a pieno carico, doveva essere elevato sopra la chiglia di poco più di due metri. Fuori acqua, per conseguenza, ossia quando era tirata in secco, la nave romana doveva apparire alta circa sei metri. La sua larghezza poteva essere al massimo di sette metri e la sua lunghezza sui quarantaquattro. Se si tien conto, infatti, come appare dalle figg. 3 e 4, che ogni gruppo di dieci rematori (5 per lato) distava dal gruppo immediatamente successivo di circa 1,20 m, è facile arguire, che la zona del fianco, forata dai follicoli in numero di 150 per lato, doveva esser lunga all'incirca 36 metri.

 


fig. 6 Come era armata probabilmente una nave speculatoria, sì da essere resa più sottile e leggera.

 

Le triremi più veloci, le speculatene, cosi dette per il loro ufficio di esplorazione innanzi alla formazione, erano assai più sottili e perciò è presumibile che ad ogni remo venisse posto un solo uomo (fig. 6). Per un accorgimento mimetico, esse venivano tinte in azzurro.

In tutte le navi, fra i rematori di destra e quelli di sinistra, veniva lasciata una corsia sufficiente per il transito della gente e particolarmente dell'hortator o pausaurius, che era colui che dava il tempo ai vogatori (remiges) incitandoli al canto od accompagnandone il movimento col fischio o col flauto.

Quando il vento era favorevole venivano drizzati gli alberi e, assicurate ai pennoni trasversali retti da mantigli, si aprivano le vele quadre. A quei tempo non si conoscevano ancora le vele di taglio né l'arte dello stringere il vento era stata ancora applicata, come lo fu poi nel periodo velico. Vele ed alberi erano prontamente ricalati prima che si iniziasse la mischia; l'ultima vela che si abbassava era quella prodiera, detta dolone.

Come si è detto più sopra, oltre i remiges si trovavano a bordo altri uomini, che avevano incarichi speciali : erano marinai (nautae) o mozzi (mesonautae) destinati alla manovra delle ancore e delle vele; erano fabbri, velarii, trombettieri, credenzieri (dictarii), armaroli (armicustos), lo scriba, l'escareo, che aveva cura del fuoco e delle cucine, il victimarius addetto ai sacrifici auspicatori, i corbitores, che stavano in vedetta sulle coffe (carchesium), gli urinatores, specie di sommozzatori chiamati a disimpegnare le ancore, quando non riuscivano a spedarle, e via dicendo. Su tutti poi stava il magister navis ossia il comandante in prima, assistito dal submagister e dal proreta, specie di pilota pratico e buon scandagliatore.

Questi, gli elementi che componevano le flotte .al tempo degli Scipioni, le quali erano sempre rinforzate da un congnuo numero di navi onerarie, costruite per il trasporto dei cavalli e perciò dette ippagini.