Da “SAPERE” – Ulrico Hoepli Editore
Anno V - Volume X - n. 116
31 ottobre 1939 - XVIII

 

UNA CIVILTA' DEL MIELE
di Ernesto Bertarelli.

 

La civiltà bianca ha ormai permeato tutti i sentieri della terra: si è spinta sino presso ai due poli, ha penetrato tutto il continente africano, ha violato la barriera sacra del Tibet, ha esplorato le isole più deserte, ed ha imposto a tutti i viventi la sua supremazia. È quasi incredibile che esistano ancora popolazioni le quali sfuggano al suo dominio spirituale: e pochi tra coloro che seguono lo sviluppo del pensiero umano credono che siano oggi reperibili sul pianeta popoli o tribù che vivano in uno stato che appena può avvicinarsi a quello dell'età della pietra, e che forse è di un piccolo gradino al di sotto della civiltà dell'epoca glaciale.

Eppure in alcune zone del pianeta si hanno ancora popolazioni che ignorano i benefici più elementari della civiltà ; che non hanno compiuto quasi nessuna delle conquiste che già rallegravano l'uomo delle caverne dell'epoca quaternaria; popolazioni che vivono in uno stato che difficilmente la fantasia saprebbe creare.

Nel continente nero tutte le tribù (compresi i pigmei dell'alto Congo) hanno tratto qualche beneficio dalla vicinanza dell'uomo bianco. In Australia gli Arunta vivono ancora allo stato primitivo; ma sono di frequente in contatto colla civiltà bianca e ne conoscono i benefici anche se li rifiutano : nelle isole dei mari del sud uno sviluppo di vita civile si è iniziato da anni, e soltanto alcuni punti della Nuova Caledonia si possono considerare sfuggiti all'opera di civilizzazione. In Groenlandia e all'estremo della Siberia asiatica la civiltà ha portato già costumanze e strumentario tecnico. I soli punti nei quali la civiltà non è penetrata e stenta assolutamente a farsi strada sono le regioni montagnose della penisola di Malacca. e piccole zone dell'Orenoco, del bacino amazzonico e una parte almeno del Chaco.

 


Nella foresta del Chaco

 

In questi tratti inesplorati di pianeta vivono popolazioni e tribù mal definite e mal note, che sfuggono ogni contatto coi bianchi e coi meticci, che si trovano ancora al primo gradino della vita civile, e che pare sfidino tutti gli sforzi dell'uomo bianco per trasformarli e per rendere meno penosa e bestiale la loro esistenza. La fantasia ha spesso lavorato intorno ad essi : alcuni gruppi umani indicati dalle tradizioni orali si sono mostrati insussistenti: altri sono apparsi ben differenti dal come la leggenda li aveva descritti. Ma esistono ugualmente gruppi e tribù che si trovano ancora agli albori della civiltà e che indubbiamente debbono ritenersi di molto inferiori all'uomo dell'epoca neolitica.

A questo gruppo appartengono i misteriosi indi Guayakis del Chaco intorno ai quali quasi nulla sino a ieri si conosceva di esatto.

I Guayakis rappresentano oggi sulla terra gli individui di razza umana più arretrati nel cammino civile ed è merito non piccolo di J. Vellard averli in questi giorni rivelati alla nostra conoscenza.

Il Chaco forma una immensa distesa che si prolunga ad un dipresso tra il 20° ed il 30° di latitudine sud del continente americano toccando i confini dell'Argentina, del Brasile, della Bolivia, del Paraguay e del Chile. Politicamente è soprattutto diviso tra Argentina, Paraguay e Bolivia con piccoli tratti appartenenti agli altri stati limitrofi.

Si tratta di una immensa regione (occupa molte centinaia di migliaia di chilometri quadrati) per alcune zone assolutamente inesplorata, nella quale le foreste a fondo paludoso o semipaludoso si alternano a praterie ed a regioni di discreta altimetria, e nel cui interno vivono popolazioni indie di indubbia origine mongolica, varie di nome di linguaggio e di civiltà.

Un gruppo dì tribù, assolutamente male conosciute ed appena intraviste dal bianco, è costituito dagli indii Guayakis intorno ai quali corrono leggende strane: tribù di non dubbia esistenza, in quanto alcuni individui catturati in periodi di guerriglie o di aggressioni sono rimasti nelle fattorie di bianchi e di meticci, e sopra i quali uno studioso di etnografia (il Bertoni) anni sono ha richiamato l'attenzione.

Si ripeteva che i Guayakis vivono nell'interno della foresta sfuggendo ogni relazione coi bianchi e cogli indi civilizzati; che erano dediti all'antropofagia, che vivevano come le belve della foresta: ma ben poco di preciso sulla loro esistenza e sulla loro vita si conosceva.

Uno studioso di scienze naturali e di etnografia, il Dr. J. Vellard, da tempo sognava di penetrare il loro mistero.

Vellard è uno degli uomini meglio preparati per compiere spedizioni difficili nella foresta americana. Chi scrive ha avuto il piacere di conoscere e frequentare per qualche tempo il Vellard circa dodici o tredici anni sono quando questi lavorava all'Istituto di Butantan presso S. Paulo (Brasile) occupandosi dello studio dei ragni velenosi e della preparazione del siero contro le loro punture.

Fisicamente robusto, coraggioso come pochi, conoscitore profondo delle scienze naturali, glottologo di valore, esperto in spedizioni amazzoniche e nelle foreste (aveva percorso buona parte del Matto Grosso), Vellard era preparato nel migliore modo per affrontare un compito cosi difficile come quello di scovare tribù selvagge e aggressive, sempre pronte all'offesa e di difficile avvicinamento.

Un mecenate argentino fornì i mezzi per la spedizione che durò più di un anno, durante i! quale Vellard, alla testa di un gruppo ardimentoso, affrontò il mistero della foresta in un largo tratto di Chaco prospiciente il Paraguay, riuscendo a penetrare il segreto dei Guayakis e a stabilire le prime nozioni esatte sopra un gruppo umano che indubbiamente sta al gradino più basso della civiltà.

Questi indi selvaggi vivono nascosti nella foresta sfuggendo ogni contatto con altri individui. Qualche volta dall'alto delle loro colline essi possono nella notte scorgere le luci della città paraguaiana di Villa Rica, e forse intravedono anche qualche treno internazionale diretto a Buenos Aires: ma nulla di quanto si riferisce alla vita civile li ha toccati, e questi poveri esseri si trovano ancora al punto iniziale dell'uomo all'epoca della primissima età della pietra.

Una spedizione nella foresta dell'alto Chaco non è piccola impresa; occorre rinunciare ad ogni comodo di vita: impossibile trasportare nell'interno dei fitti boschi a fondo umido e talora nettamente paludoso, carichi dì qualche entità, sì che bisogna necessariamente rinunciare alle tende, ai letti da campo ed a qualsiasi comodo della vita civile.

Per giunta il bianco che intraprende una spedizione di questo genere non deve dimenticare che gli indi ed i meticci che formano il corpo della spedizione hanno un vero terrore dei Guayakis, talché al primo arrivare delle frecce durante una aggressione, si danno alla fuga. Bisogna quindi assolutamente contare sul proprio coraggio, sulla capacità risoluta al comando e sulla buona fortuna.

La natura si incarica poi di aggiungere altre difficoltà: foreste cupe nelle quali la luce solare arriva a stento, terreno umido e paludoso con lunghi tratti impervi nei quali da secoli si accumula un fango umido pronto a stringere nella sua morsa letale colui che per accidente pone il piede su un tratto infido; una umidità permanente senza remissioni, che toglie il respiro e rende difficile la vita, torme fantastiche di zanzare e di mosche accompagnate da un'abbondanza incalcolabile di zecche che penetrano nella pelle e che rappresentano un tormento senza scampo per mesi e mesi.

A questi inconvenienti sì aggiunge la difficoltà grande di scovare nel folto della foresta, su percorsi di centinaia di chilometri, i gruppi di indi sempre pronti all'agguato, facili all'insidia ed alla fuga, sino ad esasperare l'esploratore che arriva nel cuore delle immense distese boscose.

Vellard ha superato tutti gli ostacoli e durante un anno ha condotto tra le pene e le sofferenze la sua vita di esploratore e di studioso.

Talvolta nascosto nelle erbe è rimasto senza cibo e senza acqua per interi giorni seguendo con prudenza felina una pista recente, attendendo la notte per sorprendere i piccoli gruppi di selvaggi intenti alle loro opere.

Altra volta ha dovuto sopportare le aggressioni improvvise di esseri invisibili arrampicati sugli alberi o nascosti dietro le felci arborescenti o a tergo delle grandi essenze, cercando di evitare le reazioni violente che avrebbero allontanato per sempre i gruppi dei selvaggi.

La fortuna lo ha aiutato. In varie occasioni, appiattato tra le altissime erbe è rimasto in prossimità dei gruppi indi, spiando per ore ed ore i movimenti e le azioni, sorprendendo tutte le manifestazioni di questa vita primitiva.

La narrazione che egli  fa è interessante come un romanzo.

Egli non soltanto ha scoperto vari gruppi di Guayakis e ne ha sorpreso le manifestazioni di esistenza, non solo ha raccolto tutto lo strumentario modesto che caratterizza la loro civiltà, ma ha potuto in qualche momento fortunato avvicinare qualche gruppo scambiando segni e parole: ed in due attacchi ha potuto raccogliere una giovinetta ed un ragazzo che sono poi cresciuti in contatto colla civiltà bianca. La piccola fanciulla Maria Yvonne è stata anzi adottata da Vellard e da sua madre, ed in pochissimi anni ha dimostrato uno sviluppo mentale non diverso da quello che si ha nei ragazzi di razza bianca.

I Guayakis vivono in piccoli gruppi nomadi distribuiti sovra una immensa distesa. non esistono vere e proprie tribù, ma modestissimi clan, sebbene essi debbano riconoscersi tra di loro. Questi selvaggi sono interamente nudi: non un accenno di tessuto destinato a nascondere il sesso, non una capanna, non un embrione di villaggio.

I gruppi indi si accampano per un giorno o per una notte tagliando le piante per pochi metri quadri, rispettando i grossi tronchi. Nella notte accendono molti fuochi, sia per vincere l'umidità, sia per tenere lontane le innumeri zanzare. Durante le pioggie si difendono con una specie di tettoia di liane o di foglie sostenute da pali piantali nel terreno.

Ogni giorno cambiano di posizione e al più piccolo accenno di pericolo si internano nella foresta percorrendo lunghe distanze.

Le loro risorse alimentari sono costituite di pochissimi vegetali e specialmente delle gemme terminali della palma «pindo» (Cocos romanzoffiana} che mangiano generalmente cruda.

Ma soprattutto vivono di miele: il miele e la cera costituiscono la loro grande conquista sulla natura; e per questo Vellard a proposito della loro vita crede di dovere usare la espressione di «civiltà del miele». È attorno al miele che si esplica quasi interamente la loro esistenza. Essi raccolgono i favi soprattutto nell'interno dei tronchi, valendosi di grossolane asce di pietra che formano il solo vero strumentario contundente di questi paria dell'umanità.

Sanno riconoscere le diverse qualità di miele, ed evitano ad arte quella specie tossica che è fornita da una particolare nectarina intorno alla quale però poco sappiamo.

Il miele forma la base del loro nutrimento; e negli accampamenti possono mancare tutti gli altri cibi, ma in nessun caso fa difetto una certa piccola riserva di miele.

Utilizzano la cera con larghezza: con essa formano dei piccoli recipienti, talora mescolandola all'argilla, talora impiegandola da sola.

I frutti offerti dalla foresta si riducono sostanzialmente all'arancio: mangiano indifferentemente le specie dolci e le amare, e preferiscono aspirare il succo del frutto.

Poche risorse offre la caccia per la quale si valgono dì grossolani ma robusti archi, e dì frecce formate con bambù terminate da punte di legno duro lavorate mediante valve di anodonta o gusci dì lumache.

Per lo più si accontentano di uccidere piccoli mammiferi (armadilli, scimmie). In qualche caso affrontano anche il giaguaro, soprattutto perché amano il trofeo della sua bella pelle. Però non posseggono lance e non conoscono succhi velenosi coi quali impregnare le punte delle frecce.

Ancora più piccola è la risorsa della pesca poiché debbono esporsi a essere veduti per raggiungere le zone ricche di acqua pescosa.

Sì ripete che sono antropofagi: ma in nessuna occasione Vellard ha potuto scoprire negli accampamenti e lungo le piste, residui di ossa che giustifichino questa accusa.

Lo strumentario di questi selvaggi è ridotto a poca cosa: anzitutto, l'ascia di pietra grossolanamente foggiata. La pietra delle asce è una diabase frequente nella Cordigliera: per lo più la parte contundente non misura che 12-15 cm ed il tagliente della pietra è primitivo ed imperfetto. La pietra è fissata con liane e con cera su di un manico di legno resistente.

 


Utensili guayakis

 

Abbondanti sono i cesti di fibre e di liane: talora le fibre sono mescolate a cera, e ne fabbricano di dimensioni diverse.

Ogni arte fittile è ignota: i Guayakis si accontentano di foggiare piccoli recipienti dì argilla nerastra e di cera: recipienti che espongono con grande prudenza a debole fuoco per far fondere la cera stessa.

Nessun cenno di sviluppo artistico si trova in questi oggetti primitivi di gran lunga inferiori allo strumentario dell'uomo eneolitico europeo.

Il fuoco è prodotto confricando tra di loro delle pietre: essi si valgono non della silice, che ignorano, ma di una quarzite a granì fini che portano sempre seco in certa quantità. Come esca utilizzano fini fibre o i peli del kapok.

L'arte tessile è ridotta alla fabbricazione di corde di fibra e di liana: però tessono colle fibre dei piccoli quadri di tessuto grossolano senza valersi di telaio, anche primitivo. Questi piccoli quadrati sono usati esclusivamente per posare sul terreno umido quando dormono, in modo da proteggere la testa contro l'umidità o sono impiegati dalle donne per difendere i tratti di cute che vengono in contatto coi canestri destinati al trasporto dei cibo o del povero loro strumentario,

I soli ornamenti di questi individui primitivi sono i denti dei mammiferi infilzati così da formare delle collane, e che attestano anche del valore cinegetico di colui che li porta. Il capo del gruppo o del clan usa anche una specie dì berretto di pelle non conciata.

 


Ornamenti guayakis

 

In genere sono puliti ed usano con frequenza dell'acqua: non si preoccupano però dei parassiti ospitati tra i peli, ed i pidocchi formano i compagni indivisibili di quasi tutti i Guayakis.

Il linguaggio è ridotto a poche parole. Vellard si è valso in grande parte della memoria del ragazzo e della fanciulla restati in sue mani dopo due aggressioni, per tracciare un vocabolario schematico del linguaggio. Nel linguaggio fanno difetto alcune consonanti e predominano le vocali, come del resto si verifica per tutti i linguaggi indii americani.

Il vocabolario usato da questi selvaggi è estremamente povero: essi però pronunciano le parole in modi differenti, ed è possibile distinguere almeno tre forme di emissione fonetica: la normale, la seminasale e la nasale. E naturalmente ogni forma di emissione corrisponde ad una differente significazione oggettiva.

Questi clan de! Chaco costituiscono, senza forse, il primo gradino nella scala della civiltà umana. E' stato impossibile a Vellard scoprire un solo segno o una manifestazione qualsiasi di credenza religiosa o di vero organamento sociale.

I singoli individui vivono in contatto colla natura senza formulare ne! loro pensiero nulla che assomigli ad una idea astratta. Paurosi, dotati di una acuità visiva ed uditiva alte, fuggono ad ogni cenno di pericolo. Nei pochi rapporti col bianco (rapporti incidentali verificatisi al confine delle zone boscose) raccolgono con cura i frammenti di ferro o gli altri oggetti che possono servire, ma dei quali male sanno valersi.

Anche l'affettività pare limitatissima: i due ragazzi raccolti dopo la uccisione dei genitori non hanno mostrato qualsiasi segno di dolore o dì commozione innanzi ai genitori morti.

Eppure tanto la giovinetta Maria Yvonne quanto il piccolo Luigi portati in mezzo alla popolazione bianca, hanno rapidamente appreso tutti gli elementi della vita civile ed hanno mostrato intelligenza e sentimento.

Come e per qual mistero i gruppi Guayakis, che pure in qualche occasione osservano l'uomo civile e lo strumentario della civiltà, nulla hanno saputo elaborare per modificare la loro miserrima esistenza di selvaggi primitivi, resta difficile comprendere. Cosi la rivelazione di questa «civiltà del miele» fatta da Vellard, può essere ragione di meditazione e di studio per tutti coloro che cercano penetrare il mistero dell'anima umana e dell'evoluzione della civiltà.

Bibl.: J. Vellard, Une civilisation du miel, Gallimard ed.