Da “SAPERE” - Ulrico Hoepli Editore
Anno IV - Volume VIII - n. 88
31 agosto 1938 - XVI

 

I VIKINGI DEI MARI DEL SUD
di H. A. Bernatzik

 

 


La primitiva costruzione di un orou, doppia canoa con frangionde a ciascuna estremità. Le canoe sono collegate una all’altra con una piattaforma. Tutte le parti sono tenute insieme da corde di fibre di palma e da liste di bambù, senza viti né corde.

 

A SUD EST della Nuova Guinea vi è una piccola isola, denominata Mailu, i cui abitanti possono considerarsi i Vikingi dei mari del Sud, perché sulle loro doppie canoe percorrono ogni anno migliaia di leghe attraverso l'oceano. Queste navicelle, costruite secondo una esperienza che si perde nella notte dei tempi, sono munite di vele dalle forme fantastiche e tengono il mare in modo meraviglioso, nonostante che per costruirle non venga adoperato nulla di europeo, ma esclusivamente materiale indigeno, dall'imponente albero su cui si issa la vela, sino ai pieghevoli legamenti di canna d'India. Su di esse — cui gli arditi navigatori danno il nome di " orou " — non vi sono né chiodi, ne bulloni, né viti per dare solidità al materiale, ma tutto è elastico e straordinariamente resistente, assicurato come è con corde di fibre di palma o con liste di bambù.

 


Un orou quale viene costruito ed adoperato da migliaia di anni. La vela di traliccio, issata contro il cielo, sull’alto albero maestro, ha la forma di un’immensa tenaglia di crostaceo.

 

Io mi imbarcai su una di queste canoe assieme all'equipaggio indigeno, inoltrandomi per più di 400 chilometri in alto mare all'epoca delle tempeste di sud est, sicché potei ammirare la valentia dell'equipaggio e le eccellenti qualità nautiche degli orou. Legai i miei preziosi apparecchi fotografici all'albero maestro, dopo averti ravvolti in sacchetti di gomma, sicché potei abbandonarmi tranquillamente alla gioia della rapida corsa attraverso le onde mosse dal gagliardo vento di sud est che ci spingeva al largo. Nonostante che ad ogni momento onde infrante ci si rovesciassero addosso, tutti i comandi che il capitano dava nella sua lingua per me incomprensibile, ma armoniosa, venivano tranquillamente e naturalmente eseguiti dall'equipaggio. E le manovre non erano facili, specialmente allorquando, all'improvviso, si strappava la grande scotta, e bisognava arrampicarsi in fretta sulla vela fortemente inclinata per riparare il danno. Ed anche il raccogliere le scotte è una operazione dura per gli indigeni che non conoscono l'uso delle carrucole. Per virare, ogni volta si inverte la navigazione, nel senso che la poppa si tramuta in prua, e viceversa, e l’imponente timone deve venir trasportato al lato opposto della imbarcazione. E pure la ordinaria fatica del timoniere presenta speciali difficoltà e richiede abilità particolare, perché egli deve stare con un piede sulla canoa e con l'altro sull'oscillante timone che cerca di tener fermo anche con l'aiuto di un robusto bastone. E quando il vento è forte, due giovanotti gli si pongono a lato premendo sul timone per mantenerlo sott'acqua.

Così noi navigammo veloci sulla superficie lucente del mare, sino a che il disco sfavillante del sole lentamente non disparve all'orizzonte, e cadde su di noi all'improvviso l'oscuro drappo della notte. Il mare aveva riflessi blu scuro. Ma il vento non era caduto, e le creste spumeggianti delle onde biancheggiavano fantasticamente nella tenebra. Io mi chinai sul bordo della canoa: dove le prue solcavano il mare, l'acqua luceva come oro liquido per la fosforescenza. Il forte ma regolare rollio della imbarcazione mi fece assopire in una specie di delizioso dormiveglia che non mi impediva di scorgere quanto si svolgeva attorno a me. Lieve come una canzone che si moduli presso una culla, risuonava al mio orecchio il canto melodioso con cui l'equipaggio è solito tenersi desto, un antichissimo canto di pescatori tramandato di generazione in generazione. Ed intanto gli occhi lucenti dei naviganti cercavano di scrutare nel buio profondo della notte tropicale.

Questi uomini non hanno ancora perduto, come lo abbiamo perduto noi, il misterioso senso dell'orientamento che madre natura ha dato in dono alle sue creature e che fa sì che la colomba ritrovi il suo nido e l'ape il proprio alveare. E questi uomini sono in grado, senza bussola, senza fari luminosi, senza segnalazioni semaforiche, senza nemmeno aver più la visione della linea della costa all'orizzonte, direi quasi senza bisogno dell'aiuto dei propri occhi, di ritrovare la strada del ritorno. Ed essi mi trasportarono, nella romantica imbarcazione, anche nel buio della notte, tranquillamente, sicuramente, attraverso le più pericolose risacche, attraverso i più stretti passaggi fra scogli che i più abili nostri lupi di mare avrebbero osato appena di sfidare di giorno!

 


Si issano le vele e l’equipaggio si attacca alle corde con evidente sforzo.

 


Poiché gli indigeni non conoscono né carrucole né argani, è molto difficile raccogliere la grande scotta. Nella fotografia si scorge chiaramente la piattaforma che costituisce la vera tolda della imbarcazione.

 


Per virare, il pesante timone deve essere spostato. L’uomo a destra della fotografia tiene la corda della scotta per lasciar lente le vele.

 



Il timoniere sta sul timone e lo regola con la gamba. Quando il vento è forte, due uomini devono aiutarlo in questa bisogna.

 


I cavi di canna d’India che assicurano l’albero.

 


La vela è costituita da tralicci di fibre di palma intessuta, cuciti insieme.

 


Come è assicurato l’albero. Anche le forti gomene sono di fibre di palma.