Da “SAPERE” – Ulrico Hoepli Ed.
Anno VII – Vol. XIV –Serie Seconda – n. 37/157
15 luglio 1941 - XIX

 

ORME DI ROMA IN ORIENTE
di Gjika Bobich

 

Dal Mediterraneo all'Eufrate si estende il più vasto campo di ricerche archeologiche che finora si conosca. Su questo antico suolo siro-mesopotamico il passato non si misura a secoli ma a millenni e non esiste forse un'altra regione al mondo che riunisca in così piccolo spazio tante meraviglie uscite dalla mano dell'uomo. Su questi paesi antichissimi si sono avvicendate le civiltà più imponenti dell'Europa, dell'Asia e dell'Africa, grandi imperi hanno lottato per impadronirsi stabilmente di queste terre che davano a chi le possedeva il dominio dell'Asia e schiudevano le porte dell'Africa. Vestigia grandiose sorgono anche nel deserto siriaco e nelle steppe del Nord ricordando un passato millenario, una storia così ricca di avvenimenti e di uomini che è come una sintesi di tutta la storia dell'umanità.

Ittiti, Egiziani, Assiri, Persi, Greci, Romani, Bizantini, Arabi. Franchi e Turchi hanno lasciato su questo suolo le tracce della loro civiltà e della loro potenza. Sulle coste sono le rovine dei grandi porti fenici, il sarcofago con le lettere del primo alfabeto e antichissime città, di cui alcune sussistono ancora nelle loro forme moderne. Nell'interno, le grandi strade che conducono al mare sono coronate da fortezze dei Crociati: il Castello Bianco, il Castello Rosso, il Krak dei Cavalieri, il Castello di Sayoun, di Massiaf, magnifici testimoni di un'epoca gloriosa per la Cristianità in Oriente. Verso l'Eufrate e il deserto sono le vestigia ittite, assire, caldee. Membidy, Tell-Amar, Djerablus, Arslam-Tach. Verso l'Oronte e la costa sono ancora le vestigia greche, romane, bizantine, franche e le grandi città cristiane del V e VI secolo, mute e deserte e in cui sembra che gli abitanti si siano addormentati come in un racconto di fate.

Ma di tutte le arti e le civiltà che si espansero su questo suolo attraverso i millenni, la greco-romana e la romana hanno lasciato le più nobili impronte, le perfette vestigia. Fra le rovine, così numerose da renderne impossibile anche la più sommaria descrizione, Palmira, Baalbeck e le città romane del Gebel Druso portano i segni più commoventi di un grandioso passato.

 

Palmira

Da Aleppo in automobile si raggiunge facilmente il deserto. La pista corre lungo l'Eufrate, largo nastro che si svolge lentamente nella chiarità delle sabbie, per inoltrarsi dopo qualche ora verso Sud in pieno deserto siriaco. Il paesaggio è nudo, mollemente ondulato, senza colore, ma le aurore e i crepuscoli stendono sulle sabbie e sulle dune delle tonalità squisite e fanno del deserto un magico specchio. Il viaggio sembra non debba aver mai fine, quando improvvisamente da un'altura si scoprono i resti di una città immensa sorgente dalle sabbie. È Palmira con i suoi famosi viali di colonne, i suoi archi, i suoi fastosi templi, immensi santuari degli Dei palmireni. Possono certamente esistere monumenti più belli e di un'arte più pura ma non si può trovare da nessuna parte un insieme più impressionante in una cornice più grandiosa. Non si può contemplare senza emozione questa vasta pianura coperta di rovine, di lunghe file di colonne sparse, rovesciate, e il Tempio del Sole la cui porta è ancora superbamente in piedi come una sfida ai secoli. E colonne dappertutto, fasci di colonne riunite, dritte come pioppi che formano una fantastica foresta.

L'arrivo nell'oasi è uno spettacolo meraviglioso. Fra due costoni di roccia nuda e desolata un'ampia gola discende verso l'infinito deserto. Da ambo i lati della pista torri potenti sembrano custodirne il passaggio: sono i monumenti funerari dove dormono i grandi borghesi di Palmira. La «dimora del silenzio» precede la città in rovina. In alto, sopra una collina quasi inaccessibile, il castello arabo drizza le sue muraglie quasi intatte e ai piedi di questa collina alla fine della Valle delle tombe sono le rovine della città e la macchia verde dei palmizi. Al calar del sole l'effetto di queste rovine è sorprendente: una luce rossa e violetta sembra palpitare su queste vestigia che ricordano il magnifico passato di quella città la cui regina, Zenobia, osava tenere testa ai Romani.

 


Palmira – L’arco di trionfo ed il Castello eretto dagli Arabi.

 


Palmira – Veduta generale della Valle delle Tombe.

 


Palmira – La Valle delle Tombe, coi sepolcreti a torre dei borghesi di Palmira.

 


Palmira – L’Arco monumentale.

 


Palmira – Altorilievo funerario: il defunto è rappresentato a convito, circondato dai suoi.

 


Palmira – Statue di borghesi di Palmira che continuamente sono tratte in luce. Notare il costume così differente da quello greco-romano, soprattutto il copricapo. Il tipo non è affatto semitico come alcuni studiosi hanno affermato.

 

Zenobia, adorna dei più rari pregi della natura e dello spirito, fece sorgere nel deserto questa grande città che strappava l'ammirazione di tutti gli storici antichi. Vie sontuose, tutte selciate l'attraversavano, fiancheggiate da ogni lato da file di colonnati, ciascuna colonna recante una statua. Al principio delle strade erano porte monumentali simili ad archi di trionfo e tutti questi viali si estendevano da un capo all'altro della città chiusa in una lussureggiante oasi celebre per la freschezza delle sue acque: 300 mila abitanti colti, ricchi, imbevuti di civiltà greco-romana aveva la bellissima metropoli del deserto all'apice della sua potenza nel III secolo dopo Cr. E solo la caduta dell'ambiziosa Zenobia vinta dall'Imperatore Aureliano segnò per essa il principio della fine. Ma il tempo non ha potuto cancellare i segni della sua potenza e del suo artistico passato. Le rovine sono lì, eloquenti nel loro silenzio e nelle loro masse imponenti, e una specie di vita irreale sembra ancora animarle. Nel Tempio del Sole e tutto intorno fra le colonne, sembrano ancora scivolare i fantasmi del passato dando vita e colore a queste meravigliose rovine immerse nell'oro del sole calante.

 

Baalbeck

Se a Palmira l'arte greco-romana è un po' carica essa ha conservato a Baalbeck tutta la sua purezza e genialità sotto un ciclo più terso e una luce più calda. Baalbeck è veramente il trionfo dell'arte romana. Tra il Libano e l'Antilibano, in una fertile pianura, sono le più belle rovine d'Oriente. Quando dalle cime nevose della montagna biblica gli occhi s'abbassano verso quell'enorme massa di costruzioni emergenti da un piedestallo di verdura la prima impressione è di stupore vedendo che l'enormità della cornice non diminuisce queste opere degli uomini e che il loro genio eguaglia quello della natura. E man mano che si avanza, il paesaggio con le sue distese verdi, con le sue profondità, le sue luci, non diventa che un accessorio, uno sfondo a questo meraviglioso complesso architetturale. Il Tempio di Baalbeek era considerato dagli antichi come una delle « meraviglie del mondo » e ancor oggi niente può essere paragonato alle sue rovine. Impossibile rendere con le parole quel caos di splendori crollati, quel mare immenso coperto di porfido e di marmo, di colonne e di capitelli, di archi e di volute. Il disastro stesso attesta un'immensa grandezza.

 


Baalbeck – Particolari architettonici.

 

Baalbeck non è un tempio ma un complesso grandioso di templi e santuari dove sembra si possano adorare tutti gli Dei. Il piccolo « Tempio di Venere » davanti al quale si passa è così ben proporzionato e così grazioso con le sue belle colonne corinzie che si sorride di piacere guardandolo. Ma esso non è che un piccolo anticipo alla grandiosità e bellezza del Tempio di Giove e di Bacco le cui rovine coprono completamente l'Acropoli circondata d'alberi e di verdura. Questa Acropoli che sostiene il tempio e le costruzioni che lo circondano non è molte alta, sorpassa appena la cima degli alberi; ma costituisce un lavoro formidabile. È una piattaforma gigante di 400 metri per 300 che riposa su dei blocchi ciclopici. Alcuni raggiungono 20 metri di lunghezza su 4 di spessore. Quali titani portarono questi monoliti stravaganti dalle cave vicine?

 


Baalbeck – Tempio di Bacco.

 


Baalbeck – Il colossale portale del piccolo tempio di Bacco a Baalbeck. Le figure umane servono di confronto. Il tempio di Giove è molto più grande.

 


Baalbeck – Peristilio del tempio di Bacco.

 

Impeccabile è la struttura di questi templi e dall'ammasso di rovine che sembrano caotiche risalta ancora oggi nettamente la meravigliosa concezione artistica di questi santuari che videro accorrere fra le loro mura innumerevoli folle adoranti il Dio supremo Baal, il Sole, Giove. Perché è proprio sul posto dell'antico santuario di Baal che Antonino il Pio cominciò nel II secolo d. C. la costruzione di questo magnifico Tempio di Giove, il più grande che i Romani abbiano mai costruito: l'epoca degli Antonini fu veramente uno dei periodi più risplendenti della storia non solo romana ma mondiale. Altri imperatori vi lavorarono, senza poterlo finire. Gli imperatori bizantini ne tolsero, insieme a molti altri ornamenti, le famose colonne di marmo verde che sostengono la volta di S. Sofia e cercarono di ridurlo a basilica cristiana; gli Arabi adoperarono le meravigliose statue come proiettili e trasformarono le potenti mura in fortezza; ma nessuno poté togliergli la sua divina maestà. Bisogna dare delle misure a Baalbeck per rendere almeno in parte l'idea della sua grandiosità. La maestosa entrata si trova in asse con due cortili e con il tempio stesso. Il primo cortile esagonale ha 60 metri di diametro, quello rettangolare si estende su una lunghezza di 143 metri per 113. Il tempio stesso è grandioso. Attorno a questo edificio lungo 89 metri e largo 48, correva un peristilio di 58 colonne alte quasi 20 metri. Le sei colonne che suscitano l'ammirazione universale sono le sole superstiti di questa prodigiosa costruzione. Si accede ai propilei con una scala di proporzioni imponenti. Il primo cortile esagonale è solamente un vestibolo mentre intorno al secondo erano colonnati sontuosi, esedre, specie di sale semicircolari, di cui si possono ammirare la ricchezza e l'ornamentazione dalle nicchie, dalle scannellature ancora intatte di qualche soffitto e con una quantità di decorazioni sparse tutt'intorno. L'altare per i sacrifici si eleva all'estremità di questo cortile, davanti al tempio. Due grandi piscine si stendevano nel cortile. L'acqua corrente che abbevera ancora i verzieri attorno l'Acropoli non viene più a rinfrescare i visitatori, ma si possono ammirare ancora le decorazioni preziose e artistiche dei margini finemente scolpiti che racchiudevano i bacini.

 


Bassorilievo rappresentante adolescenti che preparano un banchetto, rinvenuto a Baalbeck, ma proveniente da Palmira.

 

Le sei colonne del tempio di Giove si profilano sul ciclo azzurro, con una potenza e una maestà sovrane. È tutto ciò che resta intatto del « Tempio del Dio e della Dea », poiché questo deve essere stato il suo vero nome. Il «terzo Dio» di Baalbeck, o Heliopolis come era anche chiamata, aveva il suo tempio più piccolo appoggiato al loro come conviene non per un Dio secondario ma per un « Dio figlio », complemento della « Trinità sacra ». Questo « piccolo tempio » ha in realtà dimensioni molto grandi. Esso conserva le sue mura e la grandiosità del suo portale d'entrata fa rimanere stupefatti.

Ma sono le sei colonne del Tempio di Giove che suscitano la più grande ammirazione. La loro bellezza è incomparabile: si staccano fieramente sull'orizzonte come cose vive, e il loro slancio è così armonioso che danno l'idea della perfezione. Il tono caldo della loro pietra cambia a tutte le ore del giorno: roseo al mattino, oro al meriggio, rosso e violetto la sera.

 


Baalbeck – Le sei colonne del tempio di Giove. In primo piano un angolo del tempio di Bacco.

 

La sera le veste dei più bei loro colori e da loro una bellezza tale da superare quella di tutte le altre rovine di Baalbeck. Scrittori e poeti cantarono queste rovine che sono « una delle bellezze del mondo » ma le più alte espressioni di poesia e di entusiasmo furono dedicate a queste sei meravigliose colonne senza tempio che « sembrano sorreggere il cielo ».

 

Il Gebel Drusa

Palmira e Baalbeck, per quanto grandiose e imponenti, non hanno però nulla del carattere assolutamente eccezionale del Gebel Druso. In tutti i paesi del turismo classico la filosofia l'estetismo e l'archeologia possono servire ad esaltare le impressioni, ma al Gebel si arriva impreparati. Ed è una continua sorpresa. A soli 100 km da Damasco questo paese vulcanico, violento, allucinante in cui elevano le più belle rovine romane di tutto l’Oriente, è ancora oggi quasi ignoto. La regione si chiamava anticamente Bosan o Bachan e fu detta in seguito Auranitide dal monte Hauran che la domina. A parte le razzie dei vari Salmaassar e Asurbanipal nei cui documenti cuneiformi è nominata dall’8oo-6oo a. Cr., essa si affaccia per la prima volta nella storia con Alessandro che la conquista e con i Seleucidi che la governano, però solo breve tempo. Il paese fu occupato fra il II e il III secolo a. C. dai Nabatei, uno dei più interessanti e dinamici nuclei umani con cui i Romani vennero in seguito a contatto combattendo in Oriente. Fin dal V secolo a. C. essi avevano un regno con la capitale Petra in Transgiordania, il quale fu conquistato dai Romani nel I secolo d. C. A presidiare Tauranitide divenuta «Provincia Romana d'Arabia» sotto Traiano nel 109 d. C. fu chiamata la III Legione Cirenaica con base a Bosra, che lasciò molti segni della sua permanenza. A TelI-Nemara un'iscrizione su di una roccia, fatta dai legionari stessi che probabilmente costruirono la strada vicina, dice in termini lapidari: Legio III Cyrenaica Feliciter invicta, « La III Legione Cirenaica gloriosamente invincibile». Nella sua concisione evocatrice e simbolica questa fiera iscrizione della civiltà latina è ancora perfettamente visibile dopo 1800 anni sui confini del deserto siriaco.

 

Bosrà

Sembra che Traiano abbia voluto colmare di particolari favori questa città, ornandola di monumenti bellissimi e facendole perfino assumere il nome di Nova Traiana Bostrà.

Quasi tutti gli imperatori ebbero speciali attenzioni per le città della Provincia Romana d'Arabia che continuò ad avere una vita molto brillante anche sotto il Cristianesimo. Fra i-suoi vescovi, Beryllus era notissimo per l'eleganza dei suoi scritti.

Con l'invasione araba comincia la decadenza dì tutto il paese. Bosrà fu la prima città della Siria conquistata dagli Arabi nel 634 e grazie alla sua importanza non fu distrutta. Ma la sicurezza dei tempi romani non esisteva più, il deserto non era più presidiato e quando le carovane per ragioni di sicurezza si spostarono ad Ovest la città cominciò a declinare rapidamente finché rimase deserta. La Bossora ellenica, la Nova Traiana Bostrà, un tempo metropoli fiorente, non è oggi che un povero villaggio i cui abitanti sono come sperduti in mezzo alla distesa di rovine. Tutto intorno è distruzione e silenzio. Le muraglie della città romana sono state quasi interamente spogliate delle loro pietre per la costruzione della fortezza, certo la più strana costruzione che esiste in Oriente. Attorno al magnifico teatro romano di Bosrà gli Arabi hanno elevato possenti torri quadrate circondandole da un fossato e dall'alto di questa cittadella-teatro le case basse, disperse nella pianura di una tonalità simile a quella del suolo sembrano un accidente naturale del terreno. Ma in mezzo a questa uniformità si slanciano le colonne, gli archi, le mura, le cupole dell'antica Bosrà. della metropoli cristiana e accanto alle terme, agli acquedotti e alle basiliche bizantine la moschea del Califfo Omar fa una ben timida figura. Vicino ad essa è l'arco ovoide della chiesa del monaco Bahira. prete greco che avendo incontrato Maometto ragazzo quando costui semplice cammelliere accompagnava una carovana dall'Higgiaz a Damasco passando per Bosrà gli predisse la sua vocazione profetica. La tradizione dice che fu presso questo stesso Bahira che il futuro Profeta compose il Corano e che fu anche da lui aiutato nei plagi che esso fece alla legge mosaica e cristiana.

 


Bosrà – Il teatro romano ridotto a fortezza dagli Arabi.

 

Da Bosrà a Salkhad il paesaggio non potrebbe essere più opprimente e nello stesso tempo più grandioso. Il Gebel Druso non è fatto per i sentimentali perché penetra nel cervello con grande violenza. Benché indubbiamente abitato, la grandiosità di questo paesaggio è fatta di solitudine, assenza quasi totale di abitazioni umane e di colture. E di silenzio: un grande silenzio, un silenzio unico che fa quasi male. Sopra le terre color ferro magnetico e sopra il nero delle lave è l'accecante riverbero di un cielo d'Oriente. Nessun paesaggio può tacere fino a questo punto: neanche la steppa che ha una sua voce inconfondibile, neanche il deserto con i suoi torrenti di luce e in cui le albe e i tramonti hanno fremiti immensi.

Anche Salkhad si alza dalla pianura con un tell coronato di rovine. È la Salkha della Bibbia che la nomina come città di frontiera del reame di Bachan. Essa conserva poche rovine romane perché era soprattutto un posto fortificato. Insieme a Bosrà essa assicurava nell'epoca romana e anche araba la difesa di Damasco contro un attacco proveniente da Sud e allora, come oggi, il tell le dava un grande valore strategico. La cittadella è letteralmente costruita attorno al cratere di questo tell che è un vulcano spento e benché non sia imponente come quella di Bosrà è molto più elevata (1500 m) ed offre un colpo d'occhio stupendo. Si vede perfettamente a Sud l’immensa distesa fulva della Transgiordania sotto mandato inglese e il massiccio più alto del Gebel che si eleva oltre i 1800 metri a Levante. Salkhad è la chiave strategica del sistema dei Mandati che domina facilmente le due celebri condutture del petrolio che vanno al Mediterraneo; ma specie quella inglese che passa a 12 km a sud di essa. Anche nell'antichità il valore maggiore di tutta la provincia derivava appunto dal suo trovarsi su una delle grandi vie commerciali che dai paesi africani a Sud del Mar Rosso e dall'India andavano al Mediterraneo.

 

Il «limes» romano

Il sistema romano di sicurezza e di controllo era molto-geniale. Data la natura del terreno. il limes era formato di fortilizi posti a distanza l'uno dall'altro e collegati fra di loro mediante strade. Molti di questi castelli sono stati trovati ed esplorati e testimoniano la cura che alla loro costruzione e manutenzione rivolsero gli imperatori, da Traiano a Diocleziano. Anche il mistero del rifornimento d'acqua di questi posti isolati nel deserto fu recentemente svelato. Sfruttando abilmente la forte differenza di temperatura fra il giorno e la notte nel deserto, i Romani facevano scorrere le goccioline d'umidità notturna che si condensavano sulle superfici levigatissime di grandi piramidi o tronchi di cono appositamente costruiti, in un sistema di condutture conservandole in appositi serbatoi a molti metri sotto il livello del deserto. Alcuni anni or sono un capo beduino cercando l'acqua a grande profondità si imbatté in una di queste condutture di pietra e temendo trattarsi di qualche conduttura clandestina di petrolio ne avvisò le autorità mandatarie. Nelle vicinanze furono trovate le basi di un castello romano e così l'archeologia constatò come senza pozzi artesiani e aeroplani Roma provvedesse di acqua fresca e abbondante i suoi presidii isolati nel deserto.

Anticipando di due millenni le teorie degli economisti moderni, Roma sapeva già che non è la ricchezza che crea i trasporti ma il trasporto che genera la ricchezza; perciò molto importanti e più numerosi di oggi erano le strade romane del Gebel. Dall'alto della cittadella-vulcano le si vedono slanciarsi in tutte le direzioni. In mezzo al caos del terreno roccioso esse rappresentano la logica, l'equilibrio, la tenacia, qualità necessarie per dominare questo fortissimo paese in cui vive uno strano mondo di Drusi accampato in mezzo ad un sorprendente mondo romano.

Verso Shabbah l'orizzonte non è che un caos grigio, terribile, senza voce, da tutti i quattro lati in cui si estende. Il terreno è fortemente vulcanico e tutto il paese attorno Shabbah, che è il punto centrale del vulcanismo, è dovuto al raffreddamento subitaneo delle lave nelle epoche preistoriche e alle scosse sismiche che l'accompagnarono. Per dare un'idea della potenza delle eruzioni basteranno dei dati: la distesa delle lave al Gebel Druse è di 100 km per circa 100 km ossia di 10.000 km quadrati, la pianura dell'Hauran è a 500 metri d'altezza, i villaggi drusi sono a circa 1000 e le cime salgono fino a 1800 metri. Se si pensa che tutti questi terreni sono formati da materie eruttive si può avere idea del disastro. Solamente Roma è riuscita a dare vita a questo paese inanimato. L'invasione araba del VII secolo devastando città e campagne fece ritornare il paese nella sua desolazione primitiva e i due terremoti che devastarono la Siria alcuni secoli dopo fecero il resto. Un manoscritto siriaco nel British Museum e dei documenti armeni della storia delle Crociate narrano i disastri causati dai due più noti, nel 712 e 1114, che rasero al suolo i più importanti centri del paese. La popolazione cristiana che ancora era rimasta dopo l'invasione araba lasciò allora completamente il paese che rimase deserto per 10 secoli fino al 1860, quando i Drusi cacciati dal Libano vennero ad accamparsi in mezzo a queste rovine. La pianura si allunga senza un angolo che sorrida; solo quei grandi cicli di muraglie che sono i vulcani spenti tagliano la circonferenza dell'orizzonte. Questo vecchio suolo roccioso fa pensare ad un pianeta senza vita, rotante ancora informe nel caos primitivo.

 

Shabbah e Filippo l'Arabo

E in mezzo a questo caos improvvisamente sorge una città imperiale, Philippopoli, l'attuale Shabbab. Il suo fondatore fu il figlio di uno sceicco arabo salito alla porpora imperiale con il nome di Filippo l'Arabo. Suo padre passato al servizio di Roma, aveva ricevuto con tutta la famiglia la cittadinanza romana e preso il nome di Giulio Marino. Filippo nacque intorno al 204 d. C. forse nell'attuale Shabbad e, abbracciata la carriera delle armi, nel 243 era Prefetto di Pretorio sotto l'Imperatore Gordiano. Assassinato questi, Filippo fu acclamato imperatore benché non fosse stato estraneo al delitto; e per un'ironia della storia toccò proprio a lui, arabo, discendente forse da un capo di briganti, celebrare il millenario della fondazione di Roma il 21 aprile del 248.

Era l'epoca dei « pronunciamenti » militari, anarchia alla quale 40 anni dopo doveva mettere fine il dalmata Diocleziano e Filippo, partito in spedizione contro le legioni del Danubio che avevano proclamato imperatore Decio, fu ucciso in battaglia nel 249. Nonostante la sua origine, gli ideali e le virtù di Roma trovarono anche in Filippo l'Arabo la loro eterna personificazione. Durante il suo breve regno egli dimostrò solide qualità, consacrò grandi cure alle comunicazioni, idea-madre della civiltà romana, combatté il brigantaggio e il disordine sotto qualunque forma si manifestassero e cercò perfino di fondare altre colonie nuove. Così che fu proprio ad un arabo permeato di civiltà romana che si dovettero gli ultimi tentativi di romanizzazione secondo il classico sistema che aveva condotto l'Impero alla sua grandezza. Naturalmente le sue maggiori cure andarono al suo paese natio, che elevato al rango di colonia, fu colmato di favori; perciò Shabbah conserva il più bel complesso di monumenti romani del III secolo di tutta la regione.

Le muraglie che la circondavano sono ancora riconoscibili in tutto il loro percorso. Esse formano un rettangolo interrotto da tre porte monumentali e la città è ancora servita dalle due strade principali romane che si tagliano ad angolo retto nel centro. Esse sono lastricate di grosse pietre che parlano della solidità delle concezioni romane. Da Shabbah spira ancora benessere e opulenza. Il suo teatro, assai più grazioso di quello di Bosrà. è stato completamente liberato e si mostra in tutta la sua semplice bellezza. Edifici imponenti, colonne, vie trionfali il cui selciato dopo 16 secoli è ancora intatto, niente manca a questa bellissima città. Nelle sue magnifiche terme molte famiglie druse hanno trovato comodo alloggio. Una grande sala, forse il Calidarium, la cui volta è crollata, mostra ancora nei muri i solchi longitudinali delle condutture d'acqua. Le pareti erano rivestite di lastre di marmo le cui tracce si vedono ancora. Grandi archi appaiono attraverso la campagna. Sono i resti dell'acquedotto che conduceva fino alle terme l'acqua delle sorgenti dell'alta montagna drusa mentre oggi quasi tutto il paese soffre la sete. Altre terme private esistono e molte case antiche anche anteriori all'epoca romana, perfettamente conservate, sono oggi abitate da famiglie druse E poiché l'assoluta mancanza di legname nel paese obbligava i costruttori di allora a servirsi unicamente della pietra, le pesanti porte di basalto chiudono ogni sera l'abitazione di oggi come quella di 2000 anni or sono.

Non si sa a chi appartenessero quei Palazzi in cui furono trovati i più bei mosaici d'Oriente. La «Casa dei Mosaici» a Shabbah ora li raccoglie quasi tutti e sono così belli che fanno restare a lungo in ammirazione. È il matrimonio di Teti che ha per testimoni i più alti personaggi dell'Olimpo, è la scena di un festino circondato da nature morte di un grande verismo, frutta, uccelli, anitre, lepri perfettamente disegnate e colorate. Ce n'é uno, il più bello, che celebra la Fecondità fra la Filosofia e la Giustizia. È una fiorente matrona fra due altre figure muliebri piene di dignità e di grazia.

 

Civiltà romana

Fecondità. Maternità, Giustizia, ecco che qualche cosa si fa vivo ed arriva fino a noi dalle nere solitudini di questo Gebel dalla storia cosi tormentata. Eruzioni, cataclismi, abbandoni, invasioni formano la storia di tutti questi paesi d'Oriente che parteciparono solo alle effimere se pur brillanti fortune di dinastie e di monarchi ma non composero mai una civiltà, nel senso più alto cioè umano della parola. La sola dominazione che attraverso i secoli e i millenni abbia potuto assicurare al paese un periodo di pace e di ordine interno fu quella romana. Sotto Roma il progresso civile e la prosperità economica di queste terre si svilupparono al massimo grado. I Romani, con quella saggezza che li distingueva, lasciarono alle popolazioni indigene l'uso della propria lingua, la pratica dei culti e delle costumanze antiche e questo metodo ebbe per effetto di diffondere così ampiamente la cultura greco-romana nelle regioni, che dopo il tempo di Traiano non si rinviene più in essa nessuna iscrizione che non sia in greco o in latino.

Perfino la coltura dei campi resa impossibile dalla natura del terreno fu fatta fiorire vigorosamente. Sapienti opere d'irrigazione e la repressione rigorosa del brigantaggio diedero all'agricoltura e alla pastorizia un impulso mai conosciuto né prima né dopo di allora. Dappertutto nelle campagne e in territori oggi incolti e disabitati sono rovine di edifici rustici, di muri di terrazzamento, di acquedotti. La prova della floridezza raggiunta allora dalla regione si riflette nell'incremento della popolazione e dei centri agricoli e nello splendore edilizio delle città. I 70.000 abitanti di Bosrà avevano bisogno di due teatri per allietare la loro esistenza e quelli circa in egual numero di Shabbah oltre al teatro e agli splendidi edifici pubblici e privati avevano terme pubbliche e private che rivaleggiavano con quelle d'Italia.

La civiltà romana al Gebel Druso è un trionfo dello spirito sulla materia. Le sue rovine non sembrano quelle di un passato morto che non potrà mai più risorgere dalla cenere dei secoli: sembrano invece assopite, raccolte in una pausa, dopo la quale potranno riprendere in una nuova forma il loro posto alla luce del sole.

Così è anche la storia di Roma. Vi sono state tante nazioni e tante civiltà nel vasto mondo, ma nessuna ha lasciato più di una scia luminosa sul suo cammino. Avventure di dinastie e non storie di popoli. La storia nel suo più alto significato, nel suo più completo sviluppo di umanità, arti e conquiste politiche ed economiche è una sola, ed è la storia di Roma, che è storia dell'uomo nel senso più elevato della parola. Solo i Romani formano il centro dell'intera storia con quell'Impero universale in cui non solo si confonde tutta la storia precedente ma nasce quella susseguente, perché fu ancora dallo sfasciarsi del grande dominio di Roma che sorsero gradatamente quei regni e quei paesi dell'Europa che si possono chiamare « Stati ». Ciò che distingue la storia di Roma da quella di tutti gli altri popoli e che fece così grande e duratura la potenza romana è appunto la sua universalità: l'aver cioè affermato ed esaltato tutti i valori umani che soli possono portare sul meraviglioso cammino del dominio universale. E dal principio della storia di Roma comincia quella catena ininterrotta di avvenimenti che continuano ancora e che non è difficile rintracciare.