Da “SAPERE” – Ulrico Hoepli Editore
Anno V - Volume X - n. 117
15 novembre 1939 - XVIII

 

SCOPERTE ARCHEOLOGICHE RECENTI
NEL TERRITORIO DELL'URBE
di Valerio Cianfarani

 

 


Una statua recentemente scoperta a Ostia, vista di dorso (Fot. Dott. Raissa de Chirico)

 

Il suolo dell'Urbe, generoso sempre di nobili trovamenti, da qualche tempo restituisce alla luce monumenti e opere d'arte con abbondanza inusitata. Le scoperte a volte importantissime che, quasi quotidianamente, vengono annunciate dalla stampa, sono il frutto, talora, di scavi appositamente predisposti, come ad esempio avvenne per l'Ara Pacis; ma più spesso il trovamento è opera del caso: il colonnato antico balza fuori dalle mura dei vecchi edifici intaccati dal piccone; la incorrotta, se pur mutila bellezza del dio marmoreo, risorge dalle fondamenta del nuovo edificio pubblico; il rilievo che narra una gesta di guerra o un'opera di pace, si rivela tra gli sterri di una nuova via. Al caso è dovuta la recentissima scoperta avvenuta in Trastevere presso le sponde del fiume.

Occasione ad essa furono i lavori che il Genio Civile eseguisce da qualche tempo quasi di fronte alla basilica di San Paolo, onde infrenare l'irregolare defluire delle acque, in quella località non ancora costretta dagli argini: i rostri delle escavatrici meccaniche, nell'affondarsi fra la mota giallastra, incontrarono una resistenza impreveduta: l'ostacolo ignoto consigliò ai dirigenti dei lavori una maggiore cautela; lo scavo, abbandonate le macchine, fu, quindi, proseguito a mano e ben presto si riconobbe la presenza di un notevole gruppo di murature antiche.

Avvertita la Sopraintendenza alle antichità, fu inviato sul posto il prof. Giulio Jacopi, studioso ben noto per la lunga e fruttuosa permanenza a Rodi e per le grandiose scoperte avvenute durante una sua missione in Anatolia. L'archeologo, avendo compreso di trovarsi dinanzi ai resti di un notevole complesso monumentale, dispose senz'altro che lo scavo venisse continuato con metodo scientifico. Si vennero, in tal modo, delimitando i resti di vari ambienti, alcuni dei quali forniti dal tipico sistema di riscaldamento detto hypocaustum. L'hypocaustum è un vero e proprio antenato del nostro termosifone, diverso in quanto, mentre quest'ultimo emana calore da condutture metalliche percorse, normalmente, da una corrente d'acqua calda, quello funzionava mediante aria riscaldata, immessa in una intercapedine esistente sotto il pavimento delle stanze, e nelle pareti traversate da tubi laterizi. Tale sistema di riscaldamento era adottato tanto in edifici termali pubblici, quanto in appartamenti e bagni privati; non è quindi possibile poter stabilire il genere dell'edificio mediante la presenza di un hypocaustum. Così, nel nostro caso, non possiamo dire, allo stato presente dei lavori, se ci troviamo dinanzi ad un complesso di edifici termali o se, piuttosto, gli ambienti riscaldati non facciano parte di una nobile costruzione privata. Ma se pure non possiamo ancora indovinare l'uso cui erano adibiti gli edifizi, possiamo affermare che la scoperta apporterà un non piccolo contributo alla storia dell'arte romana, per una squisita ed originale serie di affreschi che decorano le pareti di due ambienti di modeste dimensioni. Le stanzette, in una sola delle quali è rimasta la volta, conservano anche due bei pavimenti a mosaico. Ma, come dissi, attraggono sopra tutto l'attenzione gli affreschi che ornano le pareti: quivi, sopra uno sfondo azzurro, sono alcune navicelle intorno alle quali si agita, una copiosissima e variatissima fauna marina.

 


Affresco scoperto presso la Basilica di san Paolo. Particolare di tombe millenarie dopo i primi scavi.

 

Le navicelle, sei in tutto, che sembrano costruite per allietare ozi signorili, sono paragonabili meglio a gondole che a panfili; infatti più che per lunghe crociere appaiono adatte per brevi gite su laghi e su fiumi.

Gli scafi, elegantissimi, hanno armoniose curve, secondate dagli ornamenti terminali che lo Jacopi chiama, per una forte analogia con le gondole veneziane «ferri di poppa e di prua». Essi sono intieramente avvivati da decorazioni policrome figurate o a carattere semplicemente ornamentale; ove più vasto è lo spazio offerto all'estro del pittore, vediamo gruppi di divinità: ad esempio una triade fra cui campeggia la figura del Giove egizio Serapide, a lato del quale vigila il cane Cerbero, il mitico custode dell'Ade, figlio di Tifone e di Echidna. Ove lo scafo, invece, si assottiglia, le figure seguono l'andamento della sua linea: ed ecco, allora, sinuose vittorie alate e figurine muliebri, sdraiate mollemente. I parapetti infine, ed ogni più piccolo spazio, offrono il campo ad altri soggetti, scelti dalla fantasia più varia e festosa; paesaggi, animali, scene di genere rappresentanti lotte fra piccoli amori e mostri marini... Dovunque si rivela grande finezza di osservazione, sapienza di tocco e miniaturistica cura dei particolari. Tale decorazione, che. come sappiamo dai vari autori, costituiva realmente un ornamento delle navi, doveva essere in gran parte dipinta direttamente sul legno; ma alcune parti forse erano in rilievo, sia che questo fosse ottenuto sul legno stesso, sia che venisse eseguito in metallo o stucco. La superficie decorata acquistava, in tal modo, un caratteristico movimento di colori e di piani, che doveva rendere oltremodo piacevole e gaia la piccola imbarcazione. D'altra parte per avere una idea di tale genere d'arte decorativa basterà porre mente ai carri di talune nostre città, dal «dipinto plaustro» umbro ai carri siciliani. Questi ultimi, specialmente, devono aver conservato assai fedelmente questa tipica decorazione.

Accennammo già come intorno alle navi si muova una varia e pittoresca fauna marina; riconosciamo delfini, polipi, pesce spada, conchiglie, ricci... ingranditi sino ad apparire talvolta maggiori delle navi stesse e rappresentati come se nuotassero sullo stesso piano dì queste: tale bizzarra ma geniale interpretazione della vita acquatica non è nuova: un esempio insigne possiamo osservare nel meraviglioso affresco della Venere Anadiomene scoperto da Guido Calza in Ostia. Anche qui, intorno alla bella nudità della Dea e nella stessa atmosfera azzurra in cui essa sorge, volteggiano i palpitanti corpi argentei degli abitatori del mare.

Non è difficile datare questo complesso monumentale. Fra i laterizi adoperati negli ambienti muniti di hypocaustum, se ne sono rinvenuti alcuni con impresso il bollo dì una officina che lavorò al tempo dei consoli Petinio e Aproniano, cioè nel 123 d.Cr, Con questa data concorda anche il genere delle murature che, come è noto, costituisce un importante elemento per la datazione degli edifici. Dobbiamo, perciò, ritenere il complesso dell'epoca di Adriano. Questa epoca rappresenta un vero rinascimento per le arti figurative, ed in special modo per l'architettura; basti ricordare, tra gli altri infiniti monumenti, il tempio di Venere e Roma progettato dallo stesso imperatore che si piccava di essere buon architetto e, presso Tivoli, la sontuosa villa adorna delle ricostruzioni dei più insigni edifici che egli aveva ammirato nei suoi numerosi viaggi.

Adriano, spirito Colto e raffinato, improntò l'arte del suo tempo al suo gusto, formatosi appunto durante questi suoi viaggi, mediante la visione dei nobili monumenti del passato, e il contatto con gli artisti depositari della grande tradizione ellenica. Specialmente influì sul suo spirito quella scuola artistica che s'usa chiamare alessandrina per essere fiorita in Alessandria, la capitale del regno tolemaico. Questa scuola, ramo della grande arte ellenistica, mentre da una parte fa sfoggio di preziosità e virtuosismi, ama, dall'altra, trarre i suoi modelli dalla osservazione diretta della vita quotidiana, non rifuggendo da rappresentazioni contrastanti ai canoni di bellezza seguiti dai grandi artisti dei secoli V e IV. Se, nel cercare intorno a sé ispirazioni per le loro opere, gli artisti alessandrini ebbero costantemente sott'occhio il vasto e complesso mondo che formicolava nelle terre e nelle acque del Delta, non si compiacquero solamente della figura come era avvenuto per il periodo aureo dell'arte greca; amarono essi cogliere anche l'ambiente paesistico in cui si muoveva la vita da loro osservata. E le opere che di loro ci sono rimaste, fanno rivivere sotto i nostri occhi i verdi canali del Nilo in cui si specchiano gli innumerevoli tempietti innalzati sulle sponde, nuotano pesci e uccelli acquatici e scivolano flessuose imbarcazioni. È questo il caso degli affreschi che abbiamo preso in esame e che vediamo quindi seguire la moda della loro epoca. Possiamo immaginare che le festose policromiche imbarcazioni, si muovano in uno degli infiniti canali che solcano la terra del Delta: forse il Canopo, il braccio del Nilo celebre per le feste sontuose e licenziose che si celebravano lungo di esso.

Ma l'Egitto non è ricordato fra questi ruderi solamente dagli affreschi che abbiamo tentato di descrivere e di illustrare; da essi un'ombra fatale sorgerà dinnanzi a noi, evocata dal nome di colui che possedette quei luoghi.

La sponda al di là del fiume, chiamata per antonomasia Trastevere, era occupata negli ultimi anni della Repubblica da numerose abitazioni di carattere popolare e da vaste estensioni di terra coltivata a campo o lasciata a prato per il pascolo delle greggie. Cesare per primo pensò di risanare il Trastevere sottraendolo alle piene del fiume che doveva essere deviato lungo il Vaticano. Se la morte immatura impedì al Dittatore di attuare il suo progetto, a testimoniare le sue cure per questa regione, restò la grande villa che egli si era costruita colà e che lasciò nel testamento al popolo romano come luogo di delizie. La villa è stata cercata dagli archeologi in vari punti del Trastevere, il Lugli sulla base di documenti inoppugnabili fissa i suoi limiti fra piazza Mastai, ove oggi sorge la Manifattura dei tabacchi, e il secondo chilometro della via Portuense: ora i resti in esame venendo a trovarsi precisamente in questi limiti, sono di conseguenza entro il perimetro degli Orti Cesariani; le costruzioni adrianee, a cui essi appartengono, non sono sorte in un'area libera ma si sono innalzate sui resti di edifici databili alla fine delta Repubblica, di cui si sono ritrovati le fondazioni sotto le murature più recenti. Queste strutture più antiche appartengono certamente alla villa di Cesare, che dobbiamo immaginare ricca di costruzioni oltre che di piante e di statue come ci narrano gli antichi scrittori.

Cicerone in una sua lettera all'amico Attico ha un interessante accenno alla villa cesariana.«Non posso fare a meno di ricordare con ira la superbia della regina d'Egitto quando se ne stava nei giardini in Trastevere». La regina è Cleopatra e i giardini sono appunto quelli di Cesare.

Cleopatra dunque, l'ultima sovrana delta terra dei Faraoni, fu in Roma ospitata dal Dittatore nella sua villa: la regina era venuta a Roma nel 46 a.Cr. per assistere al trionfo del suo fatale amante, dal quale aveva avuto un anno prima un figliolo, Cesarione. Essa che, appena ventiduenne, doveva essere allora nel pieno fulgore della sua bellezza, fu ospite negli Orti del Trastevere, fino alle Idi di Marzo, cioè per circa tre anni. Dobbiamo immaginare che nella sua dimora romana la figliola di Tolomeo Aulete seguitasse a godere di tutto il fasto orientale a cui era abituata nel suo regno; possiamo pensarla, quindi, circondata da una sfarzosa corte di dignitari, da policrome turbe di schiavi e di ancelle e seguita da musici, poeti, pittori, scultori trapiantati nel suolo dell'Urbe dalla lontana Alessandria. È certo che anche la casa abitata dalla sovrana fu da questi artisti adeguata al suo gusto mediante mobili, statue, pitture atte a ricreare sulle rive del biondo Tevere, l'atmosfera propria alle terre del Delta. Fra le pitture non saranno mancate visioni del Nilo che ridestassero nel cuore della regina il ricordo del suo paese.

Possiamo perciò immaginare che le pitture rimesse in luce nei recenti scavi se pure dovute ad una moda posteriore di quasi due secoli al soggiorno romano di Cleopatra, ripetano soggetti che già avevano adornato le preesistenti costruzioni cesariane. Delle pitture più antiche non resta oggi alcuna traccia, ma il ricordo di esse balenato traverso gli affreschi adrianei, ci ha permesso di rievocare la dolente e fatale visione dell'antica signora egizia ospite su quella sponda del Tevere che, già ricca d'un fasto creato per ozi geniali, divenuta poi inospitale e selvaggia, è ora tutta fervente di opere, nell'attesa di una nuova serena vita di lavoro.