Da “SAPERE” – Ulrico Hoepli Ed.

Anno II – Volume IV – n. 44

31 ottobre 1936 - XV

 

COME SI SCAVA UNA CITTA’ ANTICA

di Guido Calza

 

In un'epoca come la nostra in cui, soprattutto in Italia, le testimonianze monumentali della civiltà passate risorgono a nuova vita suscitando generale interesse, c'è in tutti il desiderio di sapere che cosa sia e come si compia uno scavo archeologico.

È bene dir subito che non sempre gli scavi hanno lo scopo di rimettere in luce una città antica sepolta, ma spesso si limitano alla ricognizione archeologica di un territorio e cioè ad individuare la presenza di monumenti o documenti sparsi sul terreno, o a ricercare le tracce anche minime delle civiltà che precedettero le epoche storiche. In tal caso si tratta di una esplorazione o superficiale o profonda del suolo, per mezzo di sondaggi e di trincee o pozzi e col fine di chiarire determinati periodi della umanità. Ma certo lo scavo che più interessa e più appassiona, anche perché è più intuitivo, è quello che conduce alla resurrezione di intieri complessi monumentali siano essi città o necropoli.

Tra le città antiche del mondo romano più generalmente note nelle loro imponenti rovine sono da ricordare: Pompei, Ercolano, Ostia, Aquileia in Italia, Leptis Magna e Sabhrata in Tripolitania, Cyrene.

Ebbene, ciascuna di queste città è scomparsa per cause differenti e quindi lo scavo di esse richiede metodi tecnici diversi. Pompei ed Ercolano per quanto abbiano avuto la stessa fine, pure furono sepolte da materiali diversi. Le costruzioni pompeiane, case e monumenti, sono state in parte schiacciate in parte combuste per il peso enorme dei lapilli e delle ceneri accumulatesi sui tetti e sulle terrazze e l'alto grado di calore che carbonizzò le travature.

Ercolano è stata avvolta, oltre che da lapilli, da un fango lavico che incapsulò le costruzioni le quali sono quindi racchiuse entro materie vulcaniche assai consistenti e la cui rottura richiede alle volte potenti mezzi meccanici. In queste due città sorprese da una morte violenta, tutto ciò che costituisce l'arredo e il corredo delle costruzioni è rimasto al suo posto o leggermente spostato dalla collocazione originaria, e le murature stesse sono, in genere, abbastanza ben conservate. È evidente infatti che la pressione del lapillo e delle ceneri e anche la carbonizzazione dei materiali lignei ha portato non già uno sconvolgimento totale ma, per lo più, un abbassamento delle parti più alte degli edifici che hanno gravato sulle sottostanti senza troppo scardinarle. Il procedimento col quale gli archeologi ridanno vita a Pompei è quindi precisamente l'opposto di quello usato dai suoi costruttori antichi: dal tetto alle fondamenta, anziché dalle fondamenta al tetto. Rimosso lo strato di terra vegetale formatasi durante venti secoli alla superficie della città sepolta, scavato e rimosso il primo strato di lapilli, si incomincia a mettere allo scoperto le parti alte delle costruzioni (tetti, terrazze, cornicioni, balconi, soffitti, ecc.) le quali però col loro cedimento non solo si sono abbassate, ma possono aver causato lo sconquasso delle murature sottostanti. Occorre quindi sorreggere in modo provvisorio o definitivo i primi elementi architettonici trovati, innanzi di procedere oltre nello scavo. Quando si è arrivati al piano stradale o ai pavimenti, la costruzione è già consolidata in modo che essa può iniziare la sua nuova vita archeologica.

Lo scavo non è quindi una semplice rimozione di terra ma un complesso e lento lavoro di consolidamento e sistemazione delle rovine scoperte.

Come si presentava l’edificio degli Horrea Epagathiana prima dello scavo. Una folta vegetazione cresciuta sopra i materiali caduti e sopra la volta nascondeva quasi interamente il fabbricato.

 

Lo stesso edificio come si presentava dopo il primo mese di scavo.

 

Il cortile dell’edificio a scavo e sistemazione compiuti. Si notino gli archi degli ambienti come si vedono nelle due fotografie prese dallo stesso punto.

 

Ci sono poi delle città come Leptis Magna in Tripolitania che sono state seppellite dalle sabbie portate dai venti le quali accumulatesi a poco a poco sulle costruzioni già duramente provate da terremoti ne hanno determinato il crollo. In tal caso muri e colonne si sono inclinate e abbattute sulle loro stesse fondazioni. Si tratta quindi di togliere tutto il cumulo dì sabbia che con una pressione lenta ma costante ha causato il crollo, e poi di rialzare le colonne sulle proprie basi, i muri sulle loro fondazioni e così via. In questo modo sono tornati a vivere gli imponenti edifici della città natale dell'imperatore Settimio Severo alla quale egli prodigò infinite cure e molte ricchezze. Le rovine di Leptis Magna sono tra le più suggestive del mondo non solo per il mirabile stato di conservazione dovuto anche alla protezione della sabbia ma per gli enormi cumuli di rena del deserto che avviluppa ancora gran parte della città.

 

Leptis Magna

Tre grandi archi del “frigidarium” delle Terme ricoperti in parte di sabbia che nascondevano tutto il resto dell’imponente monumento.

 

La stessa veduta della figura precedente dopo che si è tolto il primo strato di sabbia e dopo il rialzamento delle prime colonne trovate. Gli indigeni sono al lavoro per completare los cavo e la sistemazione.

 

Lo scavo di Ostia è differente da quello di Pompei e di Leptis.

Ostia è stata abbandonata dai suoi abitanti quando non servì più quale emporio commerciale a Roma e quando cominciarono le incursioni dei predoni del mare. La città è quindi crollata a poco a poco per mancanza di manutenzione. Le macerie degli ultimi piani, formatesi dalla disgregazione dei tetti dei soffitti e delle murature più alte, hanno sepolto i piani inferiori che hanno resistito sopra una linea di crollo che varia da cinque a dieci metri di altezza. Per raggiungere le parti delle costruzioni rimaste salde, occorre togliere dunque un cumulo di macerie in cui sono confusi varii elementi architettonici e decorativi lanciati spesso a notevole distanza dal loro posto originario. Fino a venti anni fa, queste macerie venivano asportate in blocco e gettate via: il nuovo metodo di scavo consiste invece nel gettare soltanto gli sfabbricini o i pezzi informi di muratura, conservando tutto ciò che può essere applicato di nuovo e quindi riutilizzato nell'edificio antico. Va da sé che la restituzione al posto originario dei pezzi ed elementi caduti è molto meno semplice e facile ad Ostia che non a Pompei, non solo perché si tratta di frammenti murarii di grande mole e di grande peso, ma per la grande dispersione e commistione di essi, giacché quasi mai si ritrovano, come a Pompei, vicino alla collocazione originaria.

 

Ostia

La casa dei Triclinii come si presentava dopo il primo periodo di scavi.

 

La stessa casa dei Triclinii (la fotografia è presa dal medesimo punto della precedente) dopo compiuto lo scavo, rafforzati i muri, coperti i pavimenti. Le due fotografie sono molto istruttive per rendersi conto del grande lavoro di sistemazione ed assetto delle rovine che segue all’allontanamento delle terre di copertura.

 

Le Terme presso il Foro, dopo il primo sterro delle macerie che lo ricoprivano.

 

La stessa veduta della grande sala delle Terme presso il Foro, a scavo compiuto e dopo il rialzamento delle colonne, dei capitelli, delle trabeazioni e dopo il consolidamento delle murature.

 

Il pregio della nuova tecnica di scavo si risolve in un indiscutibile valore scientifico.

Infatti mentre col vecchio sistema, gli edifici di una città antica mancavano quasi sempre delle parti alte e conservavano ben poco delle loro facciate, oggi le strade di Pompei e di Ostia mostrano ancora portici, finestre, balconi, cornici, nell'aspetto originario.

Quando poi si sia compiuto questo lavoro, occorre quasi sempre scavare anche al di sotto del piano stradale per ritrovare le testimonianze monumentali della città più antica che è sottoposta alla città recente. Ciò si costata molto bene in Roma, dove per giungere alle memorie dell'età repubblicana, bisogna scavare sotto edifici del Rinascimento, del Medioevo e dell'età imperiale.

Il dislivello di tre quattro e anche cinque metri tra Roma antica e Roma moderna è causato appunto dalle sovrapposizioni di edifici di vana epoca e da colmate di materiale proveniente da costruzioni distrette che hanno rialzato il piano originario della città. Ecco perché noi vediamo i Templi repubblicani della zona Argentina e gli stessi Fori imperiali ad un livello molto più basso della strada attuale, né sempre è possibile, come è avvenuto per il Pantheon e il Colosseo, togliere il dislivello esistente tra monumenti antichi e città moderna.

Ci sono poi città, campi fortificati, zone monumentali che sono state distrutte per umana violenza. E' il caso delle città o campi fortificati romani, nella Gallia nella Britannia o sul Reno, di Aquileia o della Cartagine punica, rase al suolo, e di tante altre.

Qui la terra vegetale ricopre, in genere, più la pianta che non l'alzato degli edifici già in antico distrutti. Si tratta allora di rintracciare le fondazioni degli edifici e di individuarne la pianta.

Perché non bisogna credere che gli archeologi posseggano, come taluni ritengono, piante o disegni antichi di antiche città e centri monumentali.

L'unica pianta di città che si abbia è la Forma Urbis cioè la planimetria di Roma imperiale conservata in pochi frammenti marmorei che ci danno qualche utile indicazione topografica. Tutte le altre città antiche ci sono note o attraverso notizie sommarie di antichi scrittori o attraverso tradizioni conservatesi di generazione in generazione o per la conoscenza di alcuni ruderi emergenti sul terreno in cui le città erano poste. Di Pompei si era perfino perduto il ricordo della esatta località in cui essa sorgeva.

Ma anche nel caso in cui qualche rovina si innalzi dal piano di campagna, da quale parte e in quale punto incominciare le ricerche? Non si possono dare regole e insegnamenti: è proprio qui che interviene il fiuto o la fortuna dello scavatore, il quale però dovrà iniziare gli scavi mediante saggi con trincee in profondità in modo da potersi orientare rapidamente, ritrovando anzitutto le strade della città e gli ingressi delle costruzioni entro cui poter penetrare. Se si tratta di colonie romane, sappiamo che due strade principali si incrociavano quasi sempre nel Foro della città: il cardo massimo, che andava da nord a sud mentre il decumanus maximus era tracciato da est ad ovest. Ma dalla visione stessa delle fotografie qui aggiunte, si può comprendere quanto difficile sia scavare un monumento di cui non si conosce né l'estensione né la forma né la pianta. Si può affermare dunque che l'archeologia della zappa e del piccone, come si chiama la ricerca archeologica del terreno, non è meno facile né meno meritevole dell'archeologia cattedratica, giacché la esplorazione e la resurrezione dei monumenti del passato ha ampliato notevolmente le nostre conoscenze sulle civiltà antiche.