Palagnedra
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La chiesa di San Michele a Palagnedra

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Palagnedra, la chiesa di San Michele
Palagnedra, la chiesa di San Michele

 

Veniamo ora a Palagnedra, luogo di un importante ciclo di affreschi di Antonio da Tradate, nel coro della chiesa di San Michele, restaurato dal pittore Carlo Mazzi nel 1965-1966, con il finanziamento della fondazione Dietler- Kottmann, su richiesta del parroco, don Enrico Isolini, e presentato dallo studioso Romano Broggini nell’opuscolo ad esso dedicato.

Faccio riferimento alle parole del presidente della fondazione, Fernando Pedrini, agli studi del parroco e agli aggiornamenti messi in rete dal Comune per la presentazione del piccolo centro22, situato a 652 metri d’altezza, su un poggio del versante sud delle Centovalli, popolato da 120 abitanti, su una superficie di 16,38 kmq.

Villaggio è il termine per lo più usato per indicarlo dalla popolazione locale, gente umile, ma fedele custode del patrimonio d’arte, in cui ha espresso i suoi valori più alti, tanta è la suggestione che traspare dalle sue piccole chiese e cappelle, fino a giustificare il restauro conservativo, gli studi, le mostre, la produzione letteraria, come il radiodramma su Antonio da Tradate dello studioso Arnaldo Alberti, di una ventina di anni fa, che vorrebbe farlo uscire dall’ombra dei suoi tempi e coglierlo mentre affrescava le chiese della zona e in particolare il coro di quella ‘bellissima' di qui.

Ai lati del paese ci sono profonde valli, solcate da antiche vie di comunicazione, come la mulattiera che attraversa il fiume su ponti di pietra, con una cappelletta, al vertice dell’arco.

Il confine, segnato nel secolo XV, poco lontano, ricalca antiche circoscrizioni religiose.

Il primo documento, conservato nell’archivio comunale, su Palagnedra è una pergamena del 1231: un arbitrato “datum in loco de Palagnedrio in platea Sancti Michaelis”.

Esso prova che già da allora esisteva la chiesa, due secoli dopo ornata nella zona del presbiterio dal nostro pittore, e che la vicinanza si riuniva lì davanti, dove, una volta all’anno eleggeva il console, come testimonia lo statuto dell’antico comune quattrocentesco.

L’agricoltura e la pastorizia non bastavano ai bisogni degli abitanti e, fin da allora, l’emigrazione si dirigeva verso la Toscana, ove i terrieri nel secolo XVI diventarono, per privilegio granducale, facchini di dogana, formando una comunità organizzata; poi si diresse anche a Roma e in America.

La chiesa attuale, costruita fra il 1640 e il 1731, usando del coro antico come sagrestia, segna il massimo sviluppo del paese (Isolini, 1966).
(fig.2)

L’antico coro della primitiva chiesa di San Michele è un ambiente quadrangolare, la cui base è di circa 40 mq, e venne affrescato in modo completo e organico sul finire del Quattrocento.
Nella seconda metà del Seicento venne costruita l’attuale chiesa e il presbiterio precedente venne usato come sagrestia, permettendo un’ottima conservazione di buona parte degli affreschi, che non furono mai scialbati né ritoccati e vennero restaurati da Carlo Mazzi23.

Questo tipo di pittura murale, ben praticata fin dall’Antichità, in area culturale romana, e continuata nel Medioevo, conobbe il massimo splendore con Giotto (Assisi, Padova, sul finire del XIII e gli inizi del XIV secolo), il Beato Angelico (monastero di S. Marco a Firenze, 1440 circa), fino, agli inizi del XVI secolo, durante il Rinascimento, a Michelangelo (Cappella Sistina, Roma, 1508-1512) e Raffaello (La scuola di Atene, Vaticano, 1510-1511).

Il termine affresco deriva dal fatto che i pigmenti in polvere mescolati con l’acqua sono dipinti sopra un intonaco non completamente asciutto, che funge da elemento di coesione.

Quando l’intonaco asciuga, la pittura penetra nel muro, diventando una sua componente e durando a lungo tanto quanto il muro stesso.

In Paesi dal clima per lo più asciutto è una tecnica molto efficace e rappresenta una sfida per un artista, perché è indispensabile lavorare velocemente, anche su larga scala, mentre l’intonaco è ancora umido; inoltre gli errori non possono essere corretti.

Quando comincia, l’artista possiede solo il suo schizzo preliminare, che stende con il carbone, incidendo i contorni e definendo alcuni colori, su un ruvido strato di intonaco particolare, chiamato arriccio, composto da due parti di sabbia e uno di calce24.

Poi traccia le linee della composizione in ocra rossa, realizzando la sinopia, sopra la quale costruisce l’opera, coprendola d’intonaco di volta in volta, solo per le parti realizzabili nella giornata di lavoro.

Nella seconda metà del Trecento, specie per i motivi decorativi, si afferma l’uso dello spolvero, un cartone forato lungo i bordi del disegno, appoggiato all’intonaco fresco e ripassato con un tampone intriso di polvere di carbone.

Sulla traccia lasciata l’artista inizia a dipingere, di solito dall’alto, in modo da poter eventualmente ricoprire le gocce di colore colate sul muro.

I pigmenti adoperati sono prevalentemente di natura inorganica (solo i pigmenti di terra sono adatti all’intonaco alcalino: ocra gialla e rossa, terra di Siena naturale e terra di Siena bruciata, terra verde e terre d’ombra, giallo terra e giallo di Napoli, bianco San Giovanni, ecc.).

Alcuni pigmenti, il bianco di piombo (biacca), l’orpimento, il cinabro, il minio, l’azzurrite e il lapislazzuli, ad esempio, pur essendo inorganici, mal sopportano l’alcalinità della calce e si alterano facilmente, così vengono sostituiti con altri più compatibili o dati, successivamente, a tempera, come l’azzurrite e il lapislazzuli, su una preparazione a fresco di tono diverso, rossa o grigia, che, con il tempo, svanita la copertura, riaffiora (nei cieli o nei manti)25.

Questo spiega la tavolozza di Antonio da Tradate e della sua bottega, dai colori terrosi e caldi, armonici e decorativi.

Rispetto a un Giotto o a un Angelico o ai più vicini a lui, dal punto di vista cronologico, Leonardo o Michelangelo o Raffaello egli dimostra di possedere una buona tecnica, ma non la loro eccellenza dal punto di vista figurativo, nella ricerca di modi nuovi di espressione o nella capacità di coinvolgimento del pubblico, attraverso la bellezza o la problematicità delle rappresentazioni.

Egli rimane ancorato al passato- la sua pittura è definita da uno studioso (A.D.L. 1994) ritardataria- perché tale è l’ambiente in cui vive e di cui condivide i valori; è soprattutto un buon e coraggioso mestierante, con esiti discontinui nei risultati, talvolta capaci di pathos e di suggestione, talaltra un po’ rozzi nell’esecuzione.

Tornando all’antico coro della chiesa di San Michele a Palagnedra, l’attribuzione al pittore nasce dalla lettura dell’iscrizione, in parte distrutta, per l’inserimento, a lato dell’altare, di un lavamani murato nel cartiglio che la conteneva, trasmessa oralmente e confermata dal confronto con gli affreschi della chiesa di San Martino a Ronco, firmati e datati 1492, simili dal punto di vista formale e stilistico, tanto da far ritenere verosimile l’uso degli stessi cartoni.

Affine è pure il ciclo conservato nel coro primitivo della parrocchiale di Verscio, sempre nel medesimo territorio attorno a Locarno e ad Ascona.

Nella dedica dovevano esserci scritti i nomi del committente e del pittore e la data di esecuzione.

A Palagnedra si può leggere, dopo la pulitura, “M[CCCCLXXXX…] […] OPUS FECIT FIE[RI] […] CANEPAR[…] ANTON[IUS] […] DE TRE[DATE] [PINGE]BAT” (A.D.L., 1994).

Gli affreschi sono realizzati con gran cura, con tecnica abile e buona preparazione del fondo; le figure sono a grandezza naturale, disposte in modo eccellente, secondo la tradizione tardogotica; i colori, forse un po’ snaturati dal restauro, anche se il restauratore afferma che si trattò essenzialmente di una pulitura, cioè dell’asportazione della sottile crosta vitrea opaca che formava una patina per l’umidità trasudante verso l’interno, sono caldi e vivaci e l’effetto d’insieme è suggestivo e gradevole, di una certa forza, non solo decorativa.

Certo, si tratta d’arte popolare, non profonda, innovativa e sperimentale come quella coeva di Leonardo a Milano in Santa Maria delle Grazie, ma anch’essa suggestiva e coinvolgente.

È abbastanza unitaria, di gradevole effetto nei decori dei tondi, degli archi, delle cornici, che legano scene e personaggi, assecondando l’andamento dei muri, senza lasciare spazi vuoti e rappresenta una visione del mondo - religioso e laico - consolidata dalla tradizione, ma anche inventiva e fantasiosa, gradita alla committenza e ai fruitori, visto il successo, in quella zona di passaggio, tra i contemporanei e il ricordo conservato dai posteri.

La volta a crociera è suddivisa con una decorazione che ricorda la scuola seregnese, ma in modo meno calligrafico e più realistico, soprattutto nella vela principale con il Cristo pantocratore, circondato dalla mandorla del misticismo cristiano, espressione della Sua natura divina e simbolo di resurrezione, e con i simboli degli Evangelisti; le vele laterali raffigurano, in cattedra, a due a due, i quattro Dottori della Chiesa latina; quella prospiciente l’arco trionfale, mutila, San Michele Arcangelo tra i Santi Maurizio (A.D.L., 1994, mentre R.Broggini, 1966, lo identifica con San Vittore) e Abbondio.

Le pareti affrescate sono state a lungo una delle principali forme di catechesi per il popolo di Dio, soprattutto nella Chiesa latina, che concepisce l’immagine come uno strumento pedagogico.

Papa Gregorio Magno, Padre e Dottore della Chiesa –in tale veste raffigurato nella vela sinistra- alla fine del 500 scrive al vescovo di Marsiglia Sereno per rimproverarlo di aver fatto distruggere immagini sacre per impedire che i fedeli le adorassero: ‘Idcirco enim pictura in Ecclesiis adhibetur, ut hi qui litteras nesciunt, saltem in parietibus videndo legant quae legere in codicibus non valent’ (Ep., IX, 209), perché ‘ aliud est enim picturam adorare, aliud per picturae historiam quid sit adorandum addiscere […].Unde praecipue gentibus pro lecitone pictura est’ (Ep., XI, 10)26: alle immagini viene attribuita la stessa funzione della Scrittura, esse diventano Biblia pauperum, Bibbia dei poveri, cioè degli analfabeti.

A queste espressioni si richiamerà sempre la Chiesa Cattolica nel difendere le raffigurazioni sacre e nel.raccomandarle ai missionari francescani e domenicani, evangelizzatori in terre lontane, a scopo di ammaestramento ed edificazione.

A tale atteggiamento si richiama il Vescovo G.

Torti, il 22 dicembre 2001, nell’omelia per la dedicazione dell’altare ad Arosio, nella chiesa di San Michele (fig.3), dopo i restauri iniziati nel 1999: ‘Tra pochi giorni sarà Natale e, sulle pareti della vostra chiesa avrete modo di contemplare gli affreschi che la impreziosiscono.

Vi invito a riconoscervi- dipinti con magistrale semplicità e fede profonda da Antonio da Tradate- i Vangeli dell’infanzia di Gesù, purtroppo rovinati dagli interventi fatti in periodo barocco, ma ancora ben leggibili.

Un presepio originalissimo e di alta qualità.

Vi auguro che, ad imitazione di Maria, sappiate osservare con occhio attento, per conservare e meditare questi eventi della nostra salvezza nel vostro cuore.

Nel suo assieme, il ciclo pittorico costituisce una bibbia dei poveri dipinta all’intenzione di chi non sapeva leggere…’27.

Gli affreschi, risalenti al 1508 e scoperti nel 1948, riguardano molti dei temi classici dell’iconografia cristiana: l’Annunciazione, la Natività, la Vita di Cristo e la sua Passione, fino alla Crocifissione e alla Resurrezione, una Pietà affiancata da Santi e una Vergine Assunta (fig.4), oltre alla popolare rappresentazione dei mesi28.

Tornando alla vela principale della volta a crociera del coro di San Michele a Palagnedra (fig.5), il Cristo pantocratore, principio ordinatore del reale, sintesi degli elementi cosmici e delle coordinate spaziali, unità originaria di tutto il creato29, come principio ordinatore del tempo - cronocratore30 -, è raffigurato circondato da una mandorla di luce, che rappresenta la volta di cristallo (Ez. 1, 22), come il ‘Sole’ della salvezza e della giustizia di Dio che illumina di nuovi significati tutti gli eventi passati e futuri della storia dell’uomo, al centro della composizione seduto in posizione frontale sull’arcobaleno, benedicente con la mano destra e sorreggente il Libro aperto nella sinistra, con la scritta: ‘Ego sum lux mundi via veritas et vita’, in caratteri gotici, in maestà, sorretto dai simboli dei quattro evangelisti, che si rifanno al tetramorfo della visione del profeta Ezechiele (Ez. 1, 10), ripreso dall’immagine dei quattro viventi dell’Apocalisse (Ap.4, 6-7) e da Ireneo di Lione (fine II secolo) per primo collegato ai vangeli (leone-regalità, bue-sacrificio, uomo-incarnazione, aquila-Spirito Santo), mentre sarà San Gerolamo (fine del IV secolo) ad associare gli animali agli Evangelisti.

L’immagine iconografica della Maiestas Domini, concepita in relazione alle controversie cristologiche nel secolo V sulla base del dettato delle Scritture (Ez. 1, 4-28; Isaia 6;,Ap. 4, 1-11), riunisce in un’unica formulazione la visione della gloria che ricevono Jahvè dall’Antica Alleanza e Cristo dal Nuovo Testamento e, proclamando l’identità consustanziale del Padre e del Figlio, costituisce l’immagine per eccellenza della teofania di Cristo, come si legge anche nei commentari esegetici dei Padri della Chiesa31.

Dei tre grandi temi dogmatici della cristologia insegnati dai Padri, l’origo, la passio, la glorificatio32, la rappresentazione di Antonio da Tradate nella vela principale coglie quest’ultimo.

Il forte decorativismo della composizione ricorda quello dei codici miniati.

Cristo è seduto in posizione frontale; l’atteggiamento ieratico è sottolineato dalle forme corpose e statiche soprattutto nella parte alta della figura, mentre un linearismo composto e simmetrico, non eccessivamente calligrafico, prevale nel manto avvolgente, che non toglie volume alla figura, attraverso i toni delle pieghe.

L’horror vacui dell’artista si nota già qui nel limitato spazio dello sfondo gremito di creature con l’aureola, che riprendono la visione di Ezechiele e di San Giovanni nell’Apocalisse.

La mano destra benedicente sembra rozza e sproporzionata: forse una deformazione espressionista per richiamare l’attenzione di chi entra e volge lo sguardo in alto; il gesto è regale e dottrinale al tempo stesso, indica l’autorità del Padre, del Figlio e dello Spirito, nelle tre dita levate, e richiama la salvezza col segno del chiodo lasciato dalla Sua Passione.

La mano ha valenza simbolica, da lei nasce la tecnica, attraverso cui l’uomo piega la terra a rispondere ai suoi bisogni, dopo la colpa originaria che l’ha cacciato dal Paradiso Terrestre, serve ad incoronare (la mano del Padre incorona il Figlio nel mosaico absidale di S. Prassede a Roma, 817- 824), ad aiutare o colpire (Maestro della Madonna Strauss, Imago Pietatis con la Vergine Maria e Maria Maddalena, c.1400, Firenze, Galleria dell’Accademia), ad indicare o a trasmettere la vita (Michelangelo, Creazione di Adamo, Roma, Cappella Sistina 1508-1512), qui ad accogliere e benedire, aprendo alla speranza.

La sinistra tiene il libro aperto a ricordare che la salvezza si è compiuta e il messaggio dottrinale ricorda che Lui è la luce del mondo, la via, la verità e la vita.

Lo schema compositivo è quello di un triangolo i cui vertici sono il volto e le due mani, posato su un trapezio i cui vertici sono le ginocchia e i lembi del manto.

L’andamento sinuoso dei bordi del mantello suggerisce un percorso visivo che va dal viso, ieratico e sereno, versione dolce e lombarda del Sacro Volto [si costituì come immagine canonica nel corso dei secoli V e VI: tratti regolari, espressione calma e soave, ma al tempo stesso grave (ad es. icona del Cristo Pantocratore, S. Caterina sul monte Sinai, monastero, VI secolo), ripresa nelle repliche del mandilio, immagine acheropita di Cristo inviata al re di Edessa dallo stesso Gesù, secondo la leggenda di Abgar, trasferita a Costantinopoli nel 944 e costantemente replicata, anche dopo la sua sparizione nel 120433, visibile, quando viene esposto, a S. Bartolomeo degli Armeni in Genova, e simile alla reliquia della Veronica, che costituiva l’attrazione principale dei pellegrini che si recavano a Roma nel Basso Medioevo, molto conosciuta in Occidente, perché anch’essa molto copiata, scomparsa dopo il Cinquecento, ma da alcuni riconosciuta in quella conservata nel convento dei cappuccini di Manoppello in Abruzzo, mentre da altri ritenuta custodita in San Pietro34], alla mano destra benedicente, alla sinistra con il libro, alla base del trono.

I piedi non calzati, a ricordare l’umanità e l’umiltà del Salvatore, pur in quest’immagine che reca gli attributi della potenza (trono, a imitazione delle figure imperiali), che poi sarà estesa anche alla Vergine e talvolta ai Santi, emergono dalle pieghe della veste e poggiano sulla mandorla di luce, in corrispondenza dei simboli degli evangelisti Luca e Marco.

A mo’ di piedistallo, secondo il dettato delle Scritture, i simboli degli evangelisti sostengono con le mani levate e contigue la cornice con la Maestà del Signore.
I cartigli con scritte in caratteri gotici, a carattere didattico e dottrinale, proseguono le linee dell’arcobaleno, quasi a dare solidità al trono di Dio, e si dispongono simmetricamente, con andamento lievemente sinuoso, dando armonia alla composizione e suggerendo un ritmo ascensionale che asseconda l’andamento triangolare della vela, fino al vertice superiore con il volto del Cristo nell’apice.

Le figure degli evangelisti sono notevoli dal punto di vista iconografico (dovevano certamente impressionare i contadini e i pastori delle Centovalli!): forme umane alate coperte da vesti damascate e morbidi mantelli, con le teste degli animali simbolici, leone per S. Marco volto a destra verso l’uomo alato per S. Matteo, bue per S. Luca volto a sinistra verso l’aquila per S. Giovanni.

Esse ricordano quelle dell’ultimo ventennio circa del Quattrocento di Losone, riprese anche a Verscio e altrove, e sono una ‘derivazione tarda e ben conosciuta dell’antico tetramorfo (Ez.1, 5-11; Ap.4, 6-8)’35.

Ezechiele nel descrivere la sua visione degli esseri che reggono il trono di Dio si è forse ispirato ai karibu – da cui i biblici kerubim, cherubini -, esseri alati dalle forme umane e animali che erano scolpiti come cariatidi alle porte dei templi e dei palazzi reali babilonesi a tutela dell’area sacra: ‘ ciascuno aveva aspetto d’uomo, e aveva ciascuno quattro facce e quattro ali.

Le loro gambe erano diritte e i loro piedi erano come zoccoli di un torello, scintillanti come il luccicare di un bronzo levigato.
Sotto le ali avevano braccia umane ai quattro lati; avevano facce e ali tutti e quattro.

Le ali erano accoppiate a due a due.

Essi avanzavano senza girarsi, ciascuno avanzava diritto davanti a sé.

Le forme delle facce erano di uomo; poi le forme di leone sul lato destro, di bue sul lato sinistro e ciascuno di essi forme di aquila.

Le loro ali erano distese verso l’alto; ciascuno aveva due ali che si toccavano e due che velavano i loro corpi.’ Queste quattro figure - il quattro è simbolo tra l’altro della totalità dello spazio con i quattro punti cardinali – sono ripresentate nell’Apocalisse e trasformate liberamente dalla tradizione cristiana in immagini simboliche dei quattro evangelisti, in preciso riferimento alla loro opera (simbolo, metto insieme, faccio coincidere): attributo di Matteo, il cui vangelo insiste sull’umanità di Cristo, è un uomo alato; attributo di Marco, nel cui testo la voce del Battista assume la forza di un ruggito, è il leone; attributo di Luca, che più a lungo tratta del sacrificio di Cristo, è il bue (animale sacrificale); attributo di Giovanni, che osò guardare in faccia la divinità, è l’aquila.

I quattro animali del tetramorfo sono stati messi in rapporto diretto con la vita di Cristo, secondo la narrazione evangelica: Mt.- nascita di Cristo –uomo; Lc.- morte di Cristo – bue; Mc.- resurrezione di Cristo –leone; Gv.-ascensione di Cristo –aquila.

Dal punto di vista iconografico essi appaiono rappresentati con il nimbo, le ali e il libro del vangelo aperto o chiuso (placca in avorio con l’Agnus Dei su una croce con gli emblemi degli evangelisti, XI secolo, New York, Metropolitan Museum)36; appaiono anche nelle allegorie della Chiesa trionfante sotto forma di mostro con le quattro teste dei rispettivi animali (rilievi del secolo XIV nella cattedrale di Worms).

Nel Medioevo gli evangelisti erano quasi sempre simbolizzati dai loro stessi attributi animali o da una combinazione antropo-zoomorfica (Antonio da Tradate) o come semplici figure alate con un cartiglio sul petto, con il loro nome, o ergentisi sulle spalle dei profeti maggiori, Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele, a indicare la superiorità del Nuovo sull’Antico Testamento o associati alle figure dei Dottori della Chiesa (vela della volta della chiesa superiore del Sacro Speco, Subiaco, seduti su cattedre gotiche; Antonio da Tradate).

Altra antica rappresentazione è quella dei quattro fiumi del Paradiso che partendo da una fonte o da un’urna (Cristo) si aprono verso i quattro punti cardinali37.

Nelle vele laterali sono assisi in cattedre dalla elaborata struttura, affiancate sull’esterno da scaffali con libri che risaltano per i colori complementari, separate da una torre, simbolo di vigilanza e ascesa e, come asse del mondo e anello di congiunzione tra l’uomo e Dio, assimilata alla Chiesa e alla Vergine Maria, dietro a sobrie e pratiche scrivanie il cui unico decoro sono le scansie con libri aperti o chiusi, i quattro Padri e Dottori (1298) della Chiesa Latina con in mano un rotolo che di solito, secondo l’iconografia antica, conteneva una loro particolare sentenza, simbolo della loro sapienza e del loro ruolo di maestri dei fedeli.

A sinistra sta S. Gregorio Magno, papa ‘lucidissimo’38 dal 590 al 604, solerte mediatore tra longobardi e bizantini, sapiente commentatore della Bibbia, promotore della vita pastorale del clero, agiografo e predicatore, in atto di argomentare e con le insegne del pontificato, il triregno e la sopraveste damascata a motivi di ghiande e foglie di quercia, e S. Gerolamo (347 c.-420), apostolo del patriziato romano, erudito, polemista e autorità incontestata nel campo degli studi biblici39, infatti la sua traduzione e revisione della Bibbia in latino, la Volgata, dopo il concilio tridentino diverrà il testo ufficiale della Chiesa Cattolica.

Dei due modi in cui viene solitamente rappresentato – in studio o penitente nel deserto con il leone a cui avrebbe tolto una spina – Antonio da Tradate, per motivi di simmetria compositiva, sceglie il primo: un anziano dai capelli e la barba bianca, in posizione statica, autorevole e composta e con il mantello monastico (fig.6).

Alla base della vela due angeli con cartigli.

Nella vela destra, in modo speculare, con differenze non sostanziali dal punto di vista iconografico sia per quanto riguarda le strutture che gli atteggiamenti, sono assisi in cattedre, chiuse da differenti baldacchini, S. Ambrogio (339 c.- 397), vescovo di Milano, campione della lotta teologica antiariana, maestro di spiritualità e di vita liturgica, difensore dei poveri e della libertà della Chiesa40, in abiti designanti il suo ufficio, e S. Agostino (354 – 430), il più grande pensatore della patristica, secondo alcuni, ‘dottore della grazia’41, pure in abiti e insegne vescovili.

Ai vertici inferiori della vela ancora angeli con cartigli (il destro è scomparso, c’è solo l’intonaco del restauro).

Nella vela frammentaria S. Michele Arcangelo, il patrono della chiesa, con la spada in quanto capo delle milizie celesti e custode del Paradiso e la bilancia in quanto pesatore delle anime nel Giudizio, tra Sant’Abbondio (V sec.), nato a Salonicco, valente teologo, vescovo e patrono di Como, in posizione frontale, con le insegne e gli abiti del suo ufficio42, e S. Maurizio (III sec.), martire insieme ai suoi commilitoni della legione Tebea, perché si rifiutò di compiere riti propiziatori pagani o di sterminare cristiani inermi, secondo tradizioni oralmente trasmesse, protettore di eserciti, degli alpini, della Guardia Svizzera…, lievemente ruotato sulla sinistra, con vessillo e corazza43.

Nella parete laterale nord (fig.7) in alto, fra due tondi, che sembrano forare lo spazio per la tridimensionalità della loro struttura (R. Broggini, 1966), con profeti con cartigli, ci sono l’incontro con la Veronica, in una via crucis affollata di personaggi; la loggia con gli Apostoli (da sinistra) Pietro, Giacomo maggiore, Matteo, Andrea, Bartolomeo, Filippo; nello zoccolo i mesi da gennaio a maggio.

Nella parete centrale è affrescata la Crocifissione e nello zoccolo i mesi di giugno e luglio.

Nella parete sud ci sono in alto l’orazione nel Getsemani, fra due tondi con profeti con cartigli, e al centro il loggiato con gli Apostoli, da sinistra, secondo R. Broggini,1966: Taddeo, Mattia, Tomaso, Simone, Giacomo minore, Giovanni, a mio avviso invece, per motivi iconografici: Giuda Taddeo, Simone, Tomaso, Giacomo minore, Mattia, Giovanni e nello zoccolo i mesi da agosto a novembre (dicembre è stato perduto dall’apertura di una porta) (fig.9).

Il restauro ha permesso di recuperare parte del sottarco, con tondi con profeti, una Sant’Agata (III sec.), patrona delle balie e delle madri che allattano, con i segni del suo martirio e in abiti preziosi di foggia medioevale (fig.10), e della parete della navata ove, come ex voto erano dipinti un San Michele e una Madonna di Rè (C. Mazzi, 1966), simile all’immagine miracolosa di Rè solo nel cartiglio, con la scritta dottrinale: ‘In gremio matris sedet sapientia patris’, più propriamente una Madonna in trono(fig.11).

La struttura degli affreschi del coro è legata a una salda tradizione figurativa- è la visione del mondo dal punto di vista della Chiesa Cattolica, la proclamazione,attraverso le immagini del proprio credo, facendo riferimento a chi l’ha proclamato, studiato, divulgato-: al centro la Crocifissione; sulla volta sovrastante il Cristo in maestà; ai due lati scene della Passione (Incontro con la Veronica, Orazione nell’orto degli ulivi, tra i tondi dei maggiori Profeti), la sequenza degli Apostoli - con le figure delle vele, per la loro fissità e schematicità, probabilmente la parte più arcaica del ciclo (R. Broggini, 1966) -, secondo la prassi antica di averli attorno al coro, per pregarli, fra l’altro, di proteggere i nascituri44, nella pratica chiamata apostolà, in cui se ne sceglieva il nome; nello zoccolo le cornici con il ciclo dei mesi.

Il porticato in cui gli Apostoli sono racchiusi è schematico e essenziale, le linee dei cassettoni del soffitto, che emergono dagli archi sorretti da colonnine quadrangolari, formano con le linee di fuga delle piastrelle del pavimento un motivo parallelo e divergente d’intento decorativo, che fa apparire la struttura una sorta di scatola chiusa-aperta sui fedeli, con un’illusione di profondità, volta a contrastare l’imponenza, la fissità, la corposa ieraticità delle figure bidimensionali, pur nell’accurata descrizione dei panneggi dalle pieghe ben cadenzate e simmetriche.

C’è un gusto scenografico nella fissità della postura ben descritta dalla linea ora rigida ora sinuosa delle vesti e dei mantelli, nell’uso dei damaschi, 1, p.204. minuziosamente riprodotti, che pur rimandano, nella loro rigidità, ai cartoni usati, da ricordarmi, tra gli artisti contemporanei, Emanuele Luzzati, da poco scomparso, i suoi costumi fantasiosi e ricercati e la sua scelta della bidimensionalità figurativa.

Da sinistra si susseguono Pietro, con, nella destra, le chiavi del Paradiso, simbolo del potere conferitogli da Gesù e, nella sinistra, un libro chiuso.

Il cartiglio con il nome conferitogli da Gesù (il suo vero nome era Simone) è in alto, a sinistra; porta un mantello rosso su un abito verde ed è a piedi scalzi, come gli altri, a indicare la sua umanità e umiltà.

Egli detiene numerosi patronati: su pescatori e pescivendoli, per il suo antico mestiere; su muratori, per il nome attribuitogli; su portieri e uscieri, perché raffigurato con le chiavi del Paradiso; sui mietitori, perché la sua festa cade quando si effettua la mietitura; è inoltre invocato contro la rabbia45

Al secondo posto sta Giacomo Maggiore, figlio di Zebedeo e fratello di Giovanni Evangelista, di temperamento impulsivo, chiamato da Gesù ‘figlio del tuono’, presente alla resurrezione della figlia di Giairo, nel Getsemani, alla trasfigurazione, sul monte Tabor; patrono della Spagna e del Guatemala.

E’ rappresentato con uno dei suoi attributi, il bastone del pellegrino, nella destra e un libro chiuso nella sinistra, segno della sua testimonianza; la veste è gialla e il mantello scuro, con lumeggiature.

Egli è invocato contro i reumatismi e nella benedizione dei raccolti; è protettore dei pellegrini e dei viaggiatori, dei cavalieri, dei profumieri, dei farmacisti e dei fabbricanti di cappelli46

Terzo è Matteo, nominato anche Levi, esattore delle tasse, chiamato da Gesù a Cafarnao, mentre faceva il suo lavoro, apostolo ed evangelista, rappresentato con il libro chiuso tra le mani, in abito scuro e mantello giallo.

Egli è venerato come patrono dai contabili, dagli impiegati del dazio, dagli esattori, dai doganieri, dagli agenti di cambio, dai ragionieri italiani, dagli addetti alla statistica, dalle guardie di finanza italiane e dagli agenti del fisco francesi47.

Quarto è Andrea, fratello maggiore di Simon Pietro (per questo è rappresentato con capelli e lunga barba bianchi, mentre l’altro è grigio), pescatore a Cafarnao, nella liturgia bizantina ‘primo chiamato’, perché seguì Gesù subito, quando il Battista indicò in Lui, l’Agnello di Dio, e portò anche Pietro a Lui; ha un abito verde e mantello di porpora, laminati.

La croce del suo martirio, divenuta suo attributo dal secolo X, anche se nessuna fonte parla esplicitamente di essa in tal senso, potrebbe avere un significato simbolico, essendo la lettera greca ‘X ’ iniziale del nome di Cristo.

Egli è patrono dei pescatori, dei pescivendoli e dei fabbricanti di corde; viene invocato contro i crampi, la dissenteria, la gotta, il torcicollo e protegge diverse nazioni e città48

Quinto è Bartolomeo, nome patronimico, ‘figlio di Tolmai’, di Natanaele, di cui parla Gv.1, 45-51.

La Legenda aurea (testo agiografico scritto da Jacopo da Varagine nel 1298) dà una sua precisa descrizione, cui Antonio da Tradate sembra attenersi, ‘ capelli neri e crespi, pelle bianca, grandi occhi, naso dritto, barba spessa con qualche pelo bianco’49, ha un abito scuro, laminato, un mantello damascato, e, nella mano destra, l’insegna del suo martirio, il coltello con cui fu scorticato vivo, nella sinistra un libro aperto con una massima, simbolo del suo apostolato.

Egli è patrono di numerose categorie di lavoratori collegati alla pelle o al martirio da lui subito: conciatori, fabbricanti di guanti, fabbricanti e commercianti di pelli, rilegatori di libri, sarti e macellai; è invocato per le malattie di nervi, convulsioni, ernia e per gli esorcismi50.

Sesto è Filippo, d’aspetto giovanile, con un legno squadrato nella destra (l’asse verticale della croce, uno dei suoi attributi51, supponendo che abbia subito il martirio della crocifissione) e il libro chiuso nella sinistra, in abito giallo e mantello scuro, laminato.

Egli è patrono dell’Uruguay e di alcune città52.

La teoria degli Apostoli prosegue nella parete laterale sud con Giuda Taddeo, festeggiato in Occidente con S. Simone il 28 ottobre, in Oriente il 19 giugno, che pare da identificare con il Taddeo (o Lebbeo) che l’evangelista Matteo (10, 2-4) cita nella lista degli Apostoli e che così dovrebbe essere indicato nel cartiglio (R. Broggini,1966).

La letteratura apocrifa (Passione di Simone e Giuda) descrive la sua attività nella Persia, la sua predicazione, la fondazione del vescovado di Babilonia e un’antica tradizione ecclesiastica (Tertulliano, Origene…) vede in lui l’autore di una delle lettere accolte nel canone del Nuovo Testamento, la Lettera di Giuda (25 versetti), ma potrebbe trattarsi di un altro Giuda, ‘fratello di Giacomo Maggiore’ e ‘fratello del Signore’53.

Qui è rappresentato in abito scuro, laminato, con mantello giallo e libro chiuso nella sinistra.

Segue Simone (R. Broggini, 1966, indica Mattia, ma lo strumento del suo martirio indicherebbe Simone), cananeo, appartenente al partito degli zeloti, ostili ai romani.

Di lui il Vangelo non aggiunge altro e non è noto che cosa fece dopo la Pentecoste.

Le fonti apocrife (Memorie apostoliche di Abdia, Legenda Aurea) lo dicono fratello di Giuda Taddeo - normalmente sono raffigurati insieme – e di Giacomo Minore, figli di Alfeo e di Maria di Cleofa; inoltre sostengono che Simone e Giuda predicarono in Persia, dove furono uccisi dai sacerdoti pagani.

Altre tradizioni lo dicono segato in due come Isaia54.Qui è rappresentato in abito giallo e mantello scuro, laminato, in modo speculare rispetto all’apostolo precedente, ma con i colori invertiti, in un motivo a chiasmo che riprende quello del pavimento e del soffitto della struttura che li ospita e lega, dal punto di vista figurativo, le loro immagini, mentre gli altri Apostoli, soprattutto nella parete nord, appaiono più isolati e remoti.

Egli impugna nella mano destra una sega, creduta strumento del suo martirio, e nella sinistra un libro; è invocato dagli addetti alla segatura di marmi e legnami55.

Segue Tomaso, menzionato in tutti i quattro Vangeli e in particolare in quello di Giovanni, che aggiunge al suo nome ‘quello chiamato Didimo’, cioè gemello (dall’aramaico to’ma, che è il nome con cui è conosciuto). Giovanni cita tre episodi su di lui: morto Lazzaro, quando è pericoloso per Gesù e i suoi tornare in Giudea, decide di seguirlo, dicendo: ‘Andiamo anche noi a morire con lui’(Gv. 11,16); alla vigilia della Passione dubbioso Gli chiede: ‘Signore non sappiamo dove vai, e come possiamo conoscere la via?’ ottenendo la risposta: ‘Io sono la via, la verità e la vita’(Gv.14, 5-6);,infine, incredulo della Resurrezione: ‘ Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito al posto dei chiodi, e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò’ (Gv.20,25), ma pronto a credere, quando Gesù si manifesterà: ‘Mio Signore e mio Dio’(Gv.28,29).

Null’altro si conosce su di lui, se non i racconti dei testi apocrifi, secondo cui fu martire in India.

I suoi attributi, oltre al libro, sono una squadra (doveva costruire un palazzo in India ed è patrono degli architetti, carpentieri, falegnami, geometri, muratori, tagliapietre ed anche artisti56), una lancia (a ricordo del suo martirio) e talvolta la cintura (donatagli da Maria a prova della sua Assunzione; vedi: Palma il Vecchio, Assunzione della Vergine, 1513 circa, Venezia, Galleria dell’Accademia)57.

Qui indossa veste purpurea e mantello rosso, tiene la cintura, nella mano destra, e un libro chiuso, nella sinistra; i suoi colori e la sua imponenza catturano l’attenzione, come l’immagine seguente, che risalta per i colori complementari del mantello, di Giacomo il Minore, autore di un’epistola canonica, identificato con Giacomo ‘il Giusto’, che visse da asceta e fu il primo vescovo di Gerusalemme, martirizzato da Anano nel 62, secondo Giuseppe Flavio58.

Indossa veste gialla e manto verde; impugna nella destra il bastone del fullone, strumento del suo martirio, e nella sinistra il libro; è patrono di droghieri, farmacisti, cardatori e fabbricanti di cappelli; è invocato per alleviare le sofferenze degli agonizzanti e, con Filippo, è protettore dell’Uruguay e di città59.

C’è poi Mattia, che prese il posto lasciato da Giuda Iscariota, dopo l’ascensione di Cristo, secondo il racconto degli Atti degli Apostoli(1, 15-26).

Era stato uno dei settantadue discepoli del Signore; dopo la notizia della sua designazione non si sa più nulla dai testi canonici; leggende dicono che sarebbe stato l’evangelizzatore della Cappadocia60, altre tradizioni che sarebbe stato lapidato dai Giudei.

Sotto suo nome sono stati composti alcuni libri apocrifi; qui è rappresentato con abito scuro e mantello giallo, tiene nella sinistra un libro chiuso.

Segue, mutilo nella parte inferiore, per l’apertura di una porta, Giovanni, il discepolo prediletto, il principale testimone della vita pubblica di Gesù (protagonista della pesca miracolosa e della moltiplicazione dei pani, testimone con Pietro e Giacomo della trasfigurazione sul monte Tabor e della veglia di Gesù nell’orto degli ulivi),e l’unico presente sotto la sua croce; scrisse il IV Vangelo, tre epistole e l’Apocalisse; è raffigurato come giovane imberbe, con abito giallo e mantello scuro e nelle mani il calice con il serpente, che, secondo una fonte apocrifa, uscì dal calice contenente un veleno, che fu costretto a bere per non aver sacrificato agli dei, dopo la sua benedizione61.

Egli è patrono delle amicizie, dell’associazione professionisti di pubbliche relazioni, degli scrittori cattolici, dei teologi, dei librai, dei rilegatori di libri, degli incisori di rame, dei tipografi, dei cartolai, dei fabbricanti di carte, degli artisti e delle vedove; è invocato contro le scottature e nei casi di avvelenamento62.

Il riquadro sovrastante, circondato dai tondi dei profeti, Cristo nell’orto, come gli altri due affreschi narrativi del ciclo, incontro con la Veronica, durante la salita al Calvario, e Crocifissione, è meno ieratico e arcaico della teoria degli Apostoli e delle figure della volta, più realistico e fresco nel rapporto tra i personaggi, che, in queste scene, suggeriscono pathos e movimento, interagendo nel rimando degli sguardi o con gli atteggiamenti.

Siamo a Gerusalemme, il giovedì santo, dopo cena, nell’orto di Getsemani, in riva al torrente Cedron, alle falde del monte degli ulivi, delimitato su tre lati da un recinto.

E’ un momento di solitudine di Gesù, che si è appartato per pregare con i tre apostoli che avevano assistito alla Trasfigurazione sul monte Tabor, Pietro, Giovanni e Giacomo, che invece si addormentano.

La solitudine è rappresentata dalla lontananza delle figure poste sui due lati della scena; compatto il gruppo degli apostoli raggruppati in uno schema circolare con inscritto un triangolo – i tre volti assopiti -, lievemente decentrata l’immagine di Cristo, che volta le spalle agli amici e riceve il conforto dell’angelo consolatore, dopo aver accettato la volontà di Dio, secondo il racconto di Luca (Lc.22,43).

La Crocifissione posta nella parete centrale tra due alte finestre è fortemente drammatica e densa di personaggi.

Il restauratore sottolinea la particolare finezza di toni della figura di Cristo, in terra verde, e ricorda che nella parte centrale l’affresco era invaso da fungo rosa, nella parte alta, a sinistra, da fungo nero; pure nella parete sinistra in basso erano tracce di fungo rosa, nei mesi di marzo, aprile e maggio e si decise di eliminarle dietro parere della Commissione federale.

Per le parti più deteriorate (parte destra della Crocifissione, parete destra, in basso, spicchio corrispondente della vela) si orientò il restauro in modo da non confondere le parti restaurate da quelle autentiche ‘pur ridando unita’ all’ambiente e leggibilità alle scene’ (Carlo Mazzi, 1966).

Così, ove necessario, furono riprese parti essenziali, mentre, dove non c’erano elementi giustificativi sufficienti, si intonò soltanto.

La pulitura nella Crocifissione ha permesso di leggere la scena, prima invisibile, del diavoletto che prende l’anima del cattivo ladrone.

L’illustrazione dell’evento della crocifissione, narrato brevemente nei vangeli: ‘lo crocifissero’ (Mc.15, 25; Mt. 27, 35; Lc. 23, 33; Gv. 19, 18), fu un tema centrale dell’arte medioevale e nella sua rappresentazione Antonio da Tradate si attiene alla tradizione (fig.8).

Questo tipo di condanna di origine orientale era considerato nell’impero romano una forma ignobile di pena capitale (Ebr. 12, 2; 13, 13), un supplizio riservato agli schiavi (Fil. 2, 8); il condannato veniva legato o inchiodato a un semplice palo o a una croce e sulla testa si poneva un titulus con il nome e la sentenza (Antonio da Tradate pone sopra Gesù: “I N R I”: Iesus Nazarenus Rex Iudeorum, secondo Gv. 19, 19-20: ‘Vi era scritto: Gesù Nazareno, il Re dei Giudei.

Or, molti dei Giudei lessero quest’iscrizione, essendo il luogo dove fu crocifisso Gesù vicino alla città.

Ed era scritto in ebraico, in latino e in greco’; Mt. 27, 37: ‘Al di sopra del capo posero la scritta causa della sua condanna: QUESTI E’ GESU’ IL RE DEI GIUDEI’; Mc.15, 26: ‘E l’iscrizione che riferiva il motivo della sua condanna era: “Il re dei Giudei.”; Lc. 23, 38: ‘Vi era sopra di lui questa iscrizione, in latino, in greco ed in ebraico: “Questi è il re dei Giudei!”’); non è attestato, in origine, un sostegno per i piedi (suppedaneum).

Sulla base della testimonianza di Giovanni (20, 25) e di Luca (24, 39) si può ritenere che le Sue mani e i Suoi piedi siano stati inchiodati.

L’inclinazione della testa e la bocca leggermente aperta richiamano il giovanneo: ‘Poi, chinato il capo, spirò’, dopo che gli era stata offerta in cima ad una canna d’issopo una spugna intinta nell’aceto, quando aveva detto, perché si adempissero le scritture (Sal.69, 22), ‘ Ho sete’ e presolo: ‘ Tutto è compiuto’(Gv.19, 28-30).

Secondo Gv.19, 34, alle piaghe delle mani e dei piedi si aggiunse la quinta piaga della lancia nel costato, segno del compiuto sacrificio.

Gesù crocifisso è il punto centrale anche della teologia paolina: ‘ Noi predichiamo un Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei e follia per i pagani’ (1 Cor. 1, 23); la croce è ‘ follia per coloro che si perdono, ma per coloro che si salvano è la potenza di Dio’ (1 Cor. 1, 18); soltanto lo Spirito di Dio permette all’uomo di superare lo scandalo della croce, o meglio, di riconoscervi una salvezza che è opera della follia di Dio, follia di amore che è suprema sapienza (1 Cor.37,25; 2, 11-16)63.

Il Vangelo di Nicodemo riferisce in più il perizoma e la corona di spine sul capo (10, 2-4).

I concetti più importanti che hanno esercitato un influsso anche sulla genesi delle rappresentazioni d’arte, dall’epoca paleocristiana e altomedioevale, sono la vittoria di Cristo sulla morte, la croce come segno di trionfo e di parusìa (il secondo avvento di Cristo nel Giudizio finale) e l’analogia tra il sacrificio della messa e il sacrificio della croce.

I Padri della Chiesa, per finire, hanno visto nella croce di Cristo le quattro dimensioni del mondo, il simbolo dell’universalità della redenzione64.

Tutto questo c’è dietro all’affresco di Antonio da Tradate, fedele in modo cronachistico al racconto evangelico, come gli altri artisti precedenti, ad esempio quelli che per i benedettini dipinsero la chiesa del Sacro Speco a Subiaco, ma anche ai contenuti dottrinali: è nella parete principale del coro sopra la mensa e sotto la mandorla della Maiestas Domini in una serie di rimandi che si rifanno soprattutto al testo evangelico di Giovanni, in cui sembra che Gesù muova verso la sua passione con maestà.

Il legno della croce, legno salvatore, legno della vita, ‘albero della vita’ (Apoc. 22, 2. 14. 19) si innalza fino al culmine della parete, quasi a sovrastare il dolore dell’evento appena compiuto; i bracci della croce cui sono fissate le braccia di Gesù sembrano estendersi ad abbracciare tutta la composizione, tutti gli artefici e i destinatari dell’evento; la forma della parete e la compostezza della composizione richiamano il manto di certe Madonne della Misericordia, che si apre ad ombrello a proteggere i fedeli, come qui il sacrificio di Cristo abbraccia e redime tutta l’umanità.

La scena, affollata, si dispone orizzontalmente su tre piani: in alto il culmine del calvario con Gesù che ha reso lo spirito e i due ladroni disposti obliquamente a suggerire movimento e profondità spaziale e, d’intorno, nelle loro vesti bianche o damascate, gli angeli che per devozione raccolgono in calici il sangue sparso dalle mani e dal costato di Gesù o l’anima del buon ladrone, in atteggiamento composto e rasserenato, e il diavolo che rapisce quella del cattivo ladrone, contorto e scuro in volto, tra vessilli svolazzanti nelle mani di soldati con la sigla dell’autorità politica responsabile dell’esecuzione, il Senato e il Popolo Romano, S.P.Q.R.; uno, a sinistra, porta l’effige dello scorpione, animale in genere funesto, che evoca immagini di morte e distruzione (ma talvolta anche raffigurato come amuleto portafortuna): nelle Sacre Scritture diviene simbolo di potenze demoniache che tormentano l’uomo (emblema della tentazione in immagini che ritraggono santi eremiti in preghiera, nel deserto, come San Gerolamo); nelle raffigurazioni dei mesi è l’attributo di ottobre e qui rappresenta un’allusione al paganesimo65.

Al centro si ergono i cavalieri, sul dorso dei loro animali, in diversi atteggiamenti ai piedi di Gesù; in basso, da sinistra, il gruppo drammatico delle tre Marie in gesti di abbandono composto e contenuto, l’uomo che ha offerto a Gesù su una canna la spugna intinta d’aceto, Maria e Giovanni e, a destra, un gruppo di personaggi con abiti damascati non ben leggibili perché molto deteriorati, prima del restauro.

La Crocifissione è il momento più drammatico, intenso e coinvolgente dell’intero ciclo.

Ai suoi piedi, nello zoccolo alla base delle tre pareti, il ciclo dei mesi, tema di provenienza miniaturistica, dai Libri d’Ore, molto popolari nel tardo Medioevo- generalmente contenevano un calendario con le attività mensili (gennaio: i doni del nuovo anno; febbraio: la vita nel villaggio d’inverno; marzo: il lavoro nei campi-la semina; aprile: l’amor cortese; maggio: la processione; giugno: la mietitura; luglio: ancora la mietitura; agosto: la caccia; settembre: la raccolta dell’uva; ottobre: l’aratura e la semina; novembre: la raccolta delle ghiande; dicembre: la caccia al cinghiale) e otto miniature con le preghiere associate alle diverse ore del giorno66 - molto diffuso nelle Alpi, nelle Prealpi e nel Cantone Ticino e affrontato anche dai maestri Seregnesi Cristoforo e Nicolao, a Mesocco, ad esempio, nella chiesa di Santa Maria del Castello.

I riquadri costituiscono una specie di calendario popolare e documentano dal vivo l’operato e la vita quotidiana della civiltà contadina in quella zona sul finire del Quattrocento.

La pulitura ha permesso di riscoprire il mese di gennaio (fig.12), sulla parete nord, che rappresenta un uomo all’interno di un ambiente riscaldato da un camino, intento a mangiare e bere, seduto dietro un banchetto imbandito con frugalità, ma con tutti i prodotti della sua terra.

E’ una pittura semplice, ingenua, popolare, didascalica.

Segue febbraio (fig.13) con l’immagine di un contadino in un esterno agreste con conici monti stilizzati come quelli dell’orazione nell’orto, in corta tunica rossa orlata di verde come il personaggio precedente, ma con un copricapo diverso, verde, simile a un triregno intento a potare la vigna con il falcetto e ad aguzzare i pali.
Segue l’allegoria di marzo (fig.14), che, in barca, su acque mosse, soffia il vento nella vela.

Aprile (fig.15) è un giovane cortese, in camicia verde e corta sopravveste rossa orlata da ricami, con, nelle mani guantate e tenute discoste dal corpo, due mazzi di fiori.
Porta babbucce nere appuntite e si trova su un prato limitato dal solito stilema dei monti conici rossi.

Maggio (fig.16) allude alla caccia al falcone e ci presenta un cavaliere in camicia, cappello con falda bianchi e sopravveste rossa che tiene nella destra il rapace e con la sinistra le briglie nel solito paesaggio di prati e monti.

Giugno (fig.17), nella parete centrale, rappresenta un mietitore colto in modo dinamico mentre tiene saldamente e taglia con la falce le spighe, con fazzoletto annodato in testa e ampio camice, nel paesaggio consueto.

Luglio (fig.18), talmente deperito da essere ‘interpretato’ dal restauratore in alcune parti e in altre mutilo, rappresenta un contadino intento alla cura dei campi maturi (battitura del grano), con un copricapo di paglia a forma di scodella rovesciata.

Agosto (fig.19) ‘malaticcio’67 con interessante cuffia con gala in testa e soprabito riccamente bordato tiene nelle mani guantate un bastone e una piccola borsa.

Settembre (fig.20) è intento a preparare le botti per il vino, con il cappello appeso a un chiodo e mazze nelle mani.

Ottobre (fig.21), mutilo e ‘interpretato’ in alcune parti dal restauratore, sembra dedicato alla raccolta dei frutti (castagne); Novembre di difficile lettura, malgrado l’interpretazione di Carlo Mazzi, per analogia con il riquadro corrispondente di Ronco sopra Ascona, nella chiesa di San Martino, eretta su un terrazzo a oriente del villaggio, consacrata nel 149168 (fig.22) rappresenta un contadino con una gerla piena dell’ultimo raccolto della terra; manca Dicembre per l’apertura di una porta.

A Ronco sopra Ascona, nella chiesa di San Martino, nella parte firmata nel 1492 da Antonio da Tradate (…1492 die ultimo augusti hoc opus Antonius de Tredate pinxit de ista parte69), cioè la teoria degli Apostoli e il ciclo dei mesi, la rappresentazione del mese di luglio (fig.23) è sostituita dalla figura a Palagnedra riferita a giugno; quella del mese di agosto è simile, ma il personaggio è ritratto più in primo piano e con il capo diversamente inclinato (fig.24): i toni sembrano migliori di quelli del ciclo precedente, ma ciò potrebbe essere dovuto al restauro; quella del mese di settembre è simile, ma il movimento del bottaio diverso, a riprova dell’attenzione per la realtà dell’artista (fig.25); ottobre, non completamente leggibile, è analogo e in parte suggerisce il completamento dell’immagine di Palagnedra: il contadino con il bastone scuote l’albero che lascia cadere le castagne (fig.26); novembre, come già detto, rappresenta la raccolta degli ultimi frutti della terra e il contadino è munito di gerla e rastrello (fig.27); dicembre rappresenta il contadino che squarta il maiale, con ingenuità e realismo, tanto che potrebbe essere l’insegna di un macellaio e ben figurerebbe, in riproduzione, in un museo sul lavoro quotidiano nel tardo Medioevo nel Verbano (fig.28).

Rispetto alle coeve o di qualche decennio precedenti rappresentazioni del medesimo tema in Italia settentrionale, in altre sedi, ad esempio, al ciclo dei mesi nel palazzo Schifanoia a Ferrara, eseguito tra il 1467 e il 1470, su commissione di Borso d’Este, dai migliori artisti ferraresi ed elaborato dal bibliotecario di corte Pellegrino Prisciani,cultore di astronomia, divisi in dodici settori su tre fasce sovrapposte - nell’inferiore le attività umane in riferimento alla città e al buon governo del duca; nella mediana i segni zodiacali con le personificazioni astrali dei tre decani; nella superiore il trionfo delle divinità pagane che determinano il corso del mese – quella di Antonio da Tradate rappresenta un universo culturale diverso - non il mondo laico della classe dominante del Quattrocento, orientata verso nuovi modelli, appassionata di classicità, di scienze occulte, d’astrologia, considerata uno strumento di conoscenza razionale, ma quello religioso della tradizione, per cui la nascita di Cristo rivoluziona l’ordine temporale e cosmico dell’antichità e quindi il ciclo dei mesi fa parte di un programma iconografico nel quale il tema è quello del trascorrere del tempo e del progresso della storia umana tra l’incarnazione e la seconda venuta di Cristo (ad esempio a Parigi, a Chartres…): queste opere servono a rafforzare il messaggio dell’ufficio divino, in quanto il lavoro dell’anno è consacrato a Dio e il tempo del lavoro umano è il tempo di Dio70; la loro presenza nell’area dell’altare, secondo alcuni studiosi 71, ha una funzione strategica in quanto il calendario designa l’officiante come mediatore nel luogo in cui si compie, durante la liturgia, il congiungimento tra il tempo umano e il tempo di Dio - è di una arcaicità (confronta con: ‘Raffigurazione dei mesi’. Aratea, Vienna, Öst. Nat. Bibl., 387, c. 90v72), essenzialità, semplicità, e, talora, rozzezza quasi primitive, ma si riscatta nel suo intento didascalico, nella coerenza con il quadro d’insieme e nell’attenzione realistica dei soggetti e degli utensili del loro lavoro.

La sua rappresentazione fornisce un’interessante schematica documentazione dei costumi, della vita quotidiana della civiltà contadina e cortese e della tecnologia medievale.

Quanto ai costumi, nel Quattrocento prevale la tendenza a ridurre il numero degli indumenti che si indossano per uscire e il modo di vestire cambia a seconda dell’età: vecchi, dottori ed ecclesiastici portano vesti lunghe (così sono rappresentati gli Apostoli e i Padri della Chiesa), mentre i giovani abiti più corti, accompagnati da cappelli e cappucci bizzarri e di fogge svariatissime; la preziosità della stoffa – panno d’oro, broccato, velluto –, dello stesso tipo sia per gli uomini che per le donne, o la sua rusticità distingue il ceto sociale del personaggio (talvolta però i signori vestivano con stoffe di pregio anche i loro servitori, a indicare il prestigio della propria casata).

L’orientamento lavorativo e campestre dei cicli modifica il linguaggio figurativo e si passa da una rappresentazione passiva e frontale a una prevalenza della figura vista di profilo e colta nell’atto di svolgere un’attività; inoltre, ben presto, si affermano repertori iconografici regionali, influenzati dalla tradizione artistica, dal clima e dall’agricoltura.

I cicli italiani si diversificano per vari motivi: per la sopravvivenza di temi di tradizione classica, come Giano bifronte in gennaio (Aosta; Bobbio; Lucca, duomo; Parma, battistero; Fidenza; Arezzo; Ferrara) o lo Spinario a marzo (Firenze; Lucca, San Frediano; Pisa; Sessa Aurunca; Perugia, fontana Maggiore); per la presenza di temi di origine bizantina, come Febbraio pescatore (Firenze; Pisa; Parma, duomo; Sessa Aurunca; Perugia), Marzo guerriero e Aprile con l’ariete sulle spalle (Venezia, San Marco); infine per la dolcezza del clima, la ricchezza dell’agricoltura e l’importanza dell’allevamento dei maiali vi è una precoce potatura a febbraio, la mietitura a giugno, la trebbiatura a luglio, il bottaio ad agosto (Parma, battistero), la ortofrutticoltura a giugno e a ottobre, la macellazione e lo sventramento del maiale a novembre o a dicembre e il trasporto della legna a dicembre o a gennaio.

Al contrario i cicli della Francia, con clima più freddo e umido, collocano a febbraio il vecchio che si riscalda davanti al fuoco, generalmente a giugno la fienagione, a luglio e ad agosto la mietitura e battitura del grano; vi è anche il tema del personaggio che seduto a mensa taglia una focaccia a gennaio, nonché una serie di varianti regionali, come l’alimentazione dei buoi a novembre (Poitou-Saintonge) o quella dell’alternanza di mesi e segni dello zodiaco in medaglioni (Borgogna).

La Spagna realizza un repertorio proprio, come la trebbiatura con tribulum, l’aratura autunnale e il motivo dell’assetato, e detiene il primato della rappresentazione di Giano bifronte a gennaio.

Nella produzione della Germania la mietitura è in agosto e sono presenti pagliai.

In Inghilterra il repertorio, fortemente condizionato, come in Germania, dai manoscritti, prevede scavi a marzo, sarchiatura in giugno e una collocazione dei lavori di ciascun mese spostata più avanti nel corso dell’anno per il rigore del clima.

Prevale in queste rappresentazioni un gusto per il dettaglio e l’aneddoto in senso realistico, che progressivamente porta anche alla perdita dell’antico carattere allegorico di alcuni temi come Giano e la Primavera e alla loro trasformazione in senso narrativo come banchetto di Giano, Giano vicino al fuoco e passeggiata primaverile.

Dietro i differenti modi di rappresentazione si nasconde spesso anche un’ideologia sociale che distingue tra mesi pertinenti al signore (Gennaio: signore al banchetto; Maggio: cavaliere) e mesi propri dei contadini73.

A Palagnedra il restauro ha permesso di recuperare parte del sottarco con tondi di profeti e, in un arcatella, Sant’Agata, in un lungo, ricco abito di damasco color porpora e oro, dalle ampie e profonde maniche di foggia medievale che tiene nella mano destra un coltello insanguinato (la tradizione parla di una tenaglia) e mostra i seni che le furono recisi, perché, votata a Cristo, rifiutò ripetutamente il console Quintiano cui era stata promessa e di onorare gli dei pagani; è patrona di balie, nutrici, fonditori di campane, infermieri, tessitrici siciliane ed è invocata contro le malattie del seno, gli incendi e le eruzioni vulcaniche74; inoltre è stata recuperata parte della parete della navata ove Carlo Mazzi afferma che eran dipinti come ex voto un San Michele e una Madonna di Rè.

Non so su che cosa egli basi quest’ultima affermazione, perché le due immagini della Madonna con Bambino sono differenti: la Madonna di Rè è una Madonna del latte (l’immagine della Virgo lactans, diffusa dall’arte paleocristiana, fu recuperata nel secolo XII e incontrò successo a partire dal XIII, in coincidenza con la diffusione promossa dai crociati delle icone cretesi della Galaktotrophúsa, che stimolò un’ampia produzione di immagini devozionali, in cui Maria è indicata come Mater omnium, cioè nutrice adottiva del genere umano, in grado di intercedere come advocata tra il fedele e Dio75), rigida e stilizzata, bizantina nelle linee del mantello che, dal capo, scende sulle spalle, inoltre il Bambino è più schematico e longilineo; l’unica somiglianza sta nella scritta del cartiglio, che quest’ultimo tiene con la mano sinistra, quello rappresentato da Antonio da Tradate, saldamente e più realisticamente, sembra offrire con le due mani: In gremio Matris sedet sapientia Patris, in caratteri maiuscoli quella di Rè, gotici minuscoli quelli di Palagnedra.

Più propriamente B. Anderes (1980, p. 213), nel descrivere tutto il ciclo, che definisce ‘il capolavoro’del pittore, parla soltanto di un S. Michele e di una Madonna in trono sulla parete nord della navata, dove numerose sono le incisioni praticate dai pellegrini.

La Madonna dell’affrescatore lombardo, la cui raffigurazione, come ex voto, potrebbe essere stata condizionata dal committente e la cui lettura potrebbe essere stata snaturata dall’intervento del restauratore, è gradevole e armonica; il tema è svolto con ritmi ampi e pacati, a suggerire la regalità di Maria, ma anche con realistica e immediata freschezza, con qualche riferimento all’arte gotica, nella svettante colonnina del trono che ricorda una torre (Maria è turris eburnea nelle litanie in suo onore), nell’andamento delle pieghe del manto, orientata però a un maggiore realismo, nell’attenzione ai particolari dell’arredo, dell’abbigliamento e degli atteggiamenti (la fodera damascata della parte alta del seggio, che sembra far da baldacchino, in uso di solito per la cattedra del vescovo o del pontefice, qui a sottolineare la maestà di Maria; i calzini rossi del Bambino, una nota di costume locale o una scelta stilistica per richiamare l’attenzione dei fedeli sulla sua figura serena e rilassata nel grembo della Madre o a rammentare il rigore del clima del Sopraceneri, insomma un’attenzione ai particolari minuti della vita di ogni giorno, pur nella rappresentazione del Figlio di Dio; la mano protettiva che Maria poggia sulla spalla del bimbo nel mostrarlo al mondo, il gesto garbato nello stringere il fiore, che pare un garofano, il cui nome latino, dianthus, deriva dal i greco e significa ‘fiore di Dio’, alludendo all’immagine di Cristo e alla sua Passione76).

 

 

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Ultimo aggiornamento: 19 aprile 2016