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L'artista ed il suo tempo

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L’UNIVERSO PITTORICO DI ANTONIO DA TRADATE

Antonio da Tradate chi era costui? Mi venne incontro in anni lontani nelle parole di un amico, allora sindaco di tale città, il professore Carlo Matteo Uslenghi, che, consegnandomi un libro d’arte1, mi mostrò le riproduzioni di alcuni suoi affreschi, invitandomi a conoscerlo e a studiarlo.

Successivamente un altro amico e collega, Enrico Colombo, che aveva pubblicato un mio studio su un altro tradatese illustre, lo scultore Jacopino, mi rinnovò l’invito, consegnandomi un piccolo repertorio bibliografico e alcune foto scattate nelle chiese del Cantone Ticino da Antonio Sgarbossa, un altro “tradatese” impegnato.

Non fu facile dedicarmi al suo studio, per la lontananza dai luoghi in cui egli operò, ma il prestito interbibliotecario, qualche viaggio nelle biblioteche del capoluogo lombardo e attraverso internet, la traduzione da parte di un’amica, Wally Hoeing Senarega, della voce a lui dedicata in Allgemeines Kunstler Lexikon2 mi permisero di approfondire la sua conoscenza.

Egli lavorava sul finire del XV secolo e l’inizio del XVI nel Cantone Ticino e neiGrigioni.

Nella seconda metà del Quattrocento le maggiori botteghe che operavano in queste valli, per rispondere, per lo più, a una richiesta di immagini a carattere devozionale, erano quelle di Cristoforo e Nicolao da Seregno, con sede a Lugano e operanti, con schemi figurativi tardogotici, su un vastissimo territorio che superava i confini della diocesi di Como fino alle zone ove i Cantoni avevano influenza politica e militare, e di Antonio da Tradate, che risiedeva a Locarno con il figlio Giovanni Antonio Taddeo, suo collaboratore, e lavorava in un’area più circoscritta, nelle città e nelle valli lì intorno, come le Centovalli, il Malcantone e la Val di Blenio3.

Si tratta di una produzione collegiale che fa riferimento a un numero limitato di cartoni, ispirati da modelli arcaici, talmente radicati nell’immaginario comune da sembrare al di fuori del tempo, ripresi probabilmente dalle miniature trecentesche o dalle tavole dipinte tra Tre e Quattrocento per le cappelle delle corti della pianura padana.

Rispetto ai Seregnesi Antonio da Tradate sembra ancorato a un maggior realismo, talvolta anche un po’ rozzo nella bidimensionalità delle figure e nella stereotipicità degli ampi volti, e aperto al nuovo, nella disposizione delle scene e nella loro sequenza, ispirato a modelli architettonici rinascimentali, come quelli di Donato De Bardi e del primo Foppa4.

Per le scarne notizie sulla sua biografia artistica faccio riferimento soprattutto agli studi di Romano Broggini5, ripresi da Andrea Di Lorenzo6 e riportati nel sito ufficiale del turismo ticinese7, oltre che all’Allgemeines Kunstler Lexikon.

Originario della cittadina lombarda, ma residente a Locarno, è citato in tre documenti notarili degli anni 1497, 1510, 1511, come ‘magister’ e ‘pictor’.8 Negli ultimi due è accostato al figlio, Giovanni Antonio Taddeo, anch’egli pittore e abitante a Locarno.

Nel 1490 realizza un affresco votivo nella chiesa del Collegio Papio ad Ascona.

Nel 1492 firma la decorazione del coro della chiesa di San Martino a Ronco e forse gli affreschi della chiesetta di Fosano (Vira Gambarogno).

Degli stessi anni dovrebbero essere gli affreschi di San Michele a Palagnedra, assai simili, la cui firma è frammentaria.

Egli dipinge poi una teoria di Santi nella chiesa di Santa Maria della Misericordia ad Ascona e partecipa alla decorazione di Sant’Ambrogio Vecchio a Prugiasco.

Al primo decennio del secolo successivo è la Presentazione di Gesù al Tempio, nella chiesa di Santa Maria in Selva a Locarno, fresca e innovativa nell’ambientazione architettonica.

Con il figlio, Giovanni Antonio Taddeo, nel 1508 firma l’importante ciclo della chiesa di San Michele ad Arosio, scoperto nel 1948, in parte rovinato dagli interventi compiuti in periodo barocco, ma ancora leggibile.

Nel 1510 firma un affresco a Curaglia (frazione di Medel, vicino a Disentis) come ‘Antonius de Tredate habitator Locarni’. e nel 1511 realizza la decorazione dell’abside della chiesa di Santo Stefano al Colle a Miglieglia, che comprende una teoria di Santi all’ interno di archi e una Crocifissione con un inconsueto paesaggio urbano sullo sfondo.

Come si vede si tratta di un artista prolifico, sicuramente a capo di una grande bottega, abile nell’esecuzione tecnica della pittura ad affresco, legato a schemi figurativi piuttosto arcaici, che trattano le pareti come pagine miniate nel gusto delle cornici, dei tondi, dei riquadri, nella staticità ieratica delle figure ritratte frontalmente, più realistico, pur nella essenzialità della rappresentazione, nella descrizione dei mesi (forse influenzato dalla quotidianità del rapporto con la gente delle valli in cui operava) o nell’immaginazione di scorci architettonici innovativi per la descrizione di scene dei Vangeli.

Spetta allo studioso Piero Bianconi, che ha approfondito e sviluppato le segnalazioni del Rahn della fine dell’Ottocento9, l’aver steso per primo un elenco delle opere certe o attribuibili a questo artista, che definisce ‘fecondissimo artigiano’, che si distingue ‘per il suo sbrigativo manierismo nel quale convivono pacificamente i più vieti goticismi e suggestioni di nuovi modi d’arte’, facilmente identificabile, per ‘le figure dal volto largo e gonfio, si direbbe quasi imbottito; il gusto di certi damaschi lussuosi molto decorativi; il ripetersi di rocce gotiche, colorate e sfaldate, accanto a certe nicchie di sapore rusticamente rinascimentale’10.

Egli dà i luoghi dove il pittore e i suoi aiuti, a volte piuttosto scadenti, hanno lavorato seguendo un itinerario dal fondo delle Centovalli fino alla valle del Reno: ‘Palagnedra, coro della chiesa di San Michele (ora sacrestia); Verscio, coro dell’antica chiesa di San Fedele (ora cappella della Madonna); Ascona, chiesa di Santa Maria della Misericordia (Collegio): Santi sulla parete destra della navata, Padre Eterno sull’esterno del coro; Locarno, Santa Maria in Selva: Presentazione al tempio sulla parete settentrionale; Arbedo, Chiesa Rossa: sulla facciata la figura gigantesca di San Paolo, sulla parete destra della navata, Santi; Malvaglia, chiesa di San Martino: scene della vita di Cristo sulla parete sinistra della navata; Corzoneso: due cappelle sull’antica strada; Negrentino, chiesa di San Carlo: tutti gli affreschi dell’aggiunta: abside, parete della navata, fondo, e archi di separazione; Ponto Valentino: cappella di Sant’Anna; Curaglia: sulla parete di una casa privata, Crocefissione, al centro, e Santa Caterina e Lucia ai lati, come indicano i cartigli in minuscole gotiche.

Ancora nei dintorni di Disentis […]un San Cristoforo sulla chiesa di Platta; un Cenacolo nella cappella dell’ex-ospizio di S. Gall11’.

A queste opere se ne aggiungono altre scoperte e restaurate successivamente, segnalate da studiosi dell’arte della Svizzera italiana12 e presentate nel sito ufficiale del turismo ticinese sotto la voce Antonio da Tradate13.

I luoghi di Antonio da Tradate

 

Bottega misteriosa quella di Antonio: oltre al figlio Giovanni Antonio Taddeo non sappiamo di quali maestranze si componesse; certamente fu molto prolifica, usò spesso immagini similari raggiungendo tavolta esiti più felici di altri.
Il Gilardoni122 riconosce in essa mani diverse che chiama “ il pittore delle foglie di quercia”, “ pittore delle foglie di fiordaliso”, “ il pittore dei visi oblunghi”; tutti operavano attorno al lago Maggiore.

I cicli che ci sono pervenuti completi, soprattutto l’antico coro della chiesa di S. Michele a Palagnedra, mostrano discreta unità compositiva, buona conoscenza della rappresentazione dei temi religiosi secondo la tradizione e valida tecnica pittorica da far pensare che siano stati concepiti da un’unica mente, quella che si firmava con una consapevolezza in sintonia con i tempi nuovi che stava vivendo come Antonius de Tredate habitator Locarni.

Negli anni in cui egli opera, intorno al 1498, Leonardo, alla fine del soggiorno milanese, secondo il matematico Luca Pacioli, suo amico, aveva già terminato il Trattato della pittura, di cui non ci è pervenuto il manoscritto autografo, ma una serie di redazioni abbreviate, dalle quali derivano tutte le edizioni del testo.

Nella sua teoria la pittura occupa il primo posto tra le arti, la considera “scienza e legittima figlia di natura perché […] è partorita da essa natura” e la pone al di sopra della poesia “perché rappresenta ai sensi con più verità e certezza che non fanno le parole o le lettere” e “non ha bisogno di interpreti di diverse lingue […] e subito ha satisfatto all’umana specie non altrimenti che si facciano le cose prodotte dalla natura”.

Nel dipingere “la prima intenzione del pittore è fare che una superficie piana si dimostri un corpo rilevato” e ciò nasce “dalle ombre o dai lumi, o vuol dire chiaroscuro”.

Così nasce l’idea dello sfumato, un graduarsi dell’ombra, che genera l’immagine, che gli permette di esprimere, nelle figure, i moti fisici e i moti dell’animo123.

Antonio da Tradate è lontano da questa concezione, non è attratto da queste vibrazioni cromatiche, ma ugualmente, talvolta è capace di profondità espressiva attraverso il disegno; anche con l’armonia dei colori talvolta sa suggerire emozioni, quindi anche lui si solleva, nei momenti migliori, dalla schiera dei decoratori per toccare l’arte.

 

IL CONTESTO STORICO

Per capire la sua opera bisogna far riferimento ai suoi tempi e ai suoi luoghi, oltre che al retaggio spirituale e culturale dei secoli precedenti.

In Europa, tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento, si afferma un linguaggio artistico omogeneo, il ‘gotico internazionale ’, in linea con la tradizione gotica, ma elaborato in molteplici centri, che, per tutto il secolo, esprime una ricerca originale e costituisce una vera e propria alternativa allo stile rinascimentale.

Di questa temperie spirituale fa parte Antonio.

Le caratteristiche di tale stile sono:‘ il realismo minuto ed epidermico, che analizza tutti gli aspetti del reale e della natura e che convive con esasperazioni grottesche e atmosfere idealizzate; la predilezione aristocratica per una narrazione elegante e pacata; l’ amore per il lusso; l’interesse per l’antico’14.

La sua diffusione viene favorita dai viaggi degli artisti e dalla circolazione delle opere, in particolare taccuini di disegni, manoscritti miniati e oggetti preziosi.
La miniatura, nell’alto Medioevo coltivata negli scriptoria monastici intrecciata ai testi sacri, con valenze di tipo simbolico- Cristo è il Logos, il Verbum, la Parola che trova nei libri la sua diretta espressione-, nel Quattrocento deve la sua fortuna all’accresciuta alfabetizzazione della popolazione.

Circolano romanzi cavallereschi, influenzando la trattazione delle tematiche religiose in senso fiabesco, libri d’ore, testi di botanica, medicina, geometria, poesia e classici.

Vengono prodotti in gran quantità breviari e libri di preghiere, in risposta a un sentimento religioso più individuale e intimo, originato dalla crisi morale e politica della Chiesa cattolica.

Si tratta di oggetti di lusso, destinati a un pubblico circoscritto e privilegiato‘

La loro circolazione, motivata dalla facilità con cui potevano essere trasportati, consentì di creare contatti tra artisti lontani, contribuendo alla creazione di un linguaggio veramente internazionale.

Particolarmente apprezzate erano le botteghe dei miniatori lombardi al servizio di Gian Galeazzo Visconti, la cui produzione, caratterizzata da una straordinaria fusione di realismo e decorativismo, conobbe, in tutta Europa, un successo tale da essere denominata ouvraige de Lombardie, proprio a sottolinearne la precisa matrice stilistica’.15 Nell’Italia settentrionale e soprattutto in Lombardia sono presenti pure taccuini o libri di modelli.

Il più noto è quello- conservato nella Biblioteca civica di Bergamo- di Giovannino de’ Grassi, attivo non solo come miniatore, ma anche come scultore e architetto della fabbrica del Duomo di Milano, cui successe il pittore e miniatore Michelino da Besozzo, nei cui fogli compaiono ampie serie di immagini, riprese dalla realtà e da soggetti scolpiti o dipinti, con funzione didattica per gli appartenenti alla stessa bottega.

Nel Medioevo maturo, il lavoro artistico, per lo più dipendente da incarichi provenienti da conventi o da capitoli vescovili, trova una collocazione più stabile nelle città e si organizza all’interno di corporazioni.

Nella ‘ bottega’, struttura basilare dell’attività artistica, luogo dell’unità delle arti e dei saperi, sotto la direzione di un magister, con un apprendistato che dura dai tre ai dodici anni, avviene la formazione professionale e culturale degli artisti.

Si parte dallo svolgimento dei compiti più umili, come la sistemazione degli strumenti e la preparazione dei materiali (triturazione dei colori, bollitura delle colle…) fino a incarichi più complessi e autonomi.

Si presta grande attenzione alla qualità dei materiali impiegati, per garantire la durata nel tempo delle opere.

Strumento unitario di tutte le arti è il disegno, da modelli o dal vero, e, nel corso del Quattrocento, cresce il numero dei disegni, come rivelano i contratti, accompagnati da disegni, bozzetti, modellini.

Attraverso il disegno si cercano nuove modalità espressive, spesso partendo dagli antichi, e la figura dell’artista si evolve da mero esecutore e imitatore a intellettuale, come si vede nell’Ultima cena (1495-97) di Leonardo da Vinci, nel refettorio di Santa Maria delle Grazie a Milano.

L’artista rinnova la tecnica, spinto dal desiderio di sperimentazione, accollandosi il rischio di renderla meno duratura, e la tradizionale iconografia per accrescere la tensione drammatica, disponendo il Cristo isolato e gli apostoli a gruppi di tre, non allineati, con differenti gesti ed espressioni, per andare al di là della fisionomia e cogliere la loro anima, mentre invece Antonio da Tradate, nello stesso periodo, affresca le chiese del Canton Ticino secondo la tecnica tradizionale, che ben possiede, e schemi figurativi statici e consolidati, forse più consoni alla visione del mondo della sua committenza e del suo ambiente, con gusto più di decoratore e divulgatore che di sperimentatore.

Nel Medioevo fino agli albori dell’età moderna la pittura nelle chiese e sulle facciate degli edifici ha scopo devozionale e funzione didascalica, sia quando narra storie dell’Antico e Nuovo Testamento o fissa immagini di profeti, apostoli, santi, per muovere gli animi dei fedeli alla riflessione sui temi sacri, alla preghiera e alla imitazione, sia quando rappresenta soggetti profani, come i cicli dei mesi, che esaltano le attività degli uomini e li collocano nella natura, di cui sono cultori e custodi, secondo il racconto della Genesi (2, 15).I caratteri di questa pittura nel Quattrocento nel Canton Ticino sono quelli di un’ esecuzione artigianale, ripetitiva e poco raffinata16.

Sui muri delle piccole chiese montane e degli oratori si ripetono numerosissime le figure schematiche di Madonne e di Santi, per lo più anonime, dai colori vivaci e dagli schemi morbidi che richiamano quelli dell’attivissima bottega milanese di Michelino da Besozzo.

Il carattere arrotondato delle figure invece è da mettere in riferimento ai modi dell’arte dell’Alto Reno, apprezzata a Milano, come testimonia la presenza dei maestri di lì originari nel cantiere della Fabbrica del Duomo.

Dalla miniatura deriva il gusto minuziosamente analitico nel trattare le figure e la visione bidimensionale17.

Le terre ticinesi, sul finire del Quattrocento, fanno parte di ‘una regione instabile, perennemente minacciata di frazionamento dal riemergere del potere feudale (nella seconda metà del XV secolo le famiglie Rusca e Sanseverino si ripartiscono con alterne fortune il dominio sulla Val d’Intelvi, sulla Val Lugano, l’area di Locarno, e le valli Maggia e Travaglia) e dalle aspirazioni padane dei Cantoni primitivi.’18 Con il 1521- Mendrisio e Balerna si uniscono alla Confederazione- ha termine il processo di distacco politico delle terre ticinesi dalla Lombardia, di cui hanno assimilato le istanze culturali, civili e le espressioni artistiche.

Dopo un millennio, al tramonto del Medioevo, al declino dell’età viscontea e sforzesca, esse tornano a essere inserite in uno ‘Stato di valico’19, cioè uno Stato che realizza la propria identità attraverso l’integrazione (e non la divisione) di opposti versanti alpini.

Dal punto di vista religioso quelle terre, cristianizzate da principio nell’ambito urbano attorno al III secolo e lungo le vie di comunicazione nel corso del V secolo dall’azione della Chiesa di Milano, nel Quattrocento e all’inizio del Cinquecento, sono sotto la giurisdizione della diocesi comasca, che si estende ‘su di un territorio immenso: penetra a nord, oltre le sponde del Lario, fino all’estremità settentrionale della Valtellina; risale il bacino luganese e si riversa oltre il Monte Ceneri, sulla piana di Bellinzona, Locarno e le valli circostanti.

All’interno di quest’area unitaria, alcuni territori plebani sono tuttavia affiliati alla diocesi milanese; da secoli Campione è sottoposta direttamente all’abate di Sant’Ambrogio…la Leventina rimarrà fino al 1487 (bolla di Innocenzo VIII) appannaggio diretto del Capitolo del Duomo di Milano…Una presenza imponderabile dal punto di vista amministrativo ma tangibile da quello diplomatico e sul piano dell’ortodossia, come attestano le laceranti deposizioni di contadini, boscaioli e casalinghe imputati di stregoneria ad Airolo, Faido e in altri comuni della valle durante tutto il Quattrocento’20.

Per quanto riguarda l’economia negli ultimi secoli del Medioevo il Locarnese era una terra prospera, ricca di boschi, colture, manifatture, come quelle della lavorazione della seta cruda per usi ecclesiastici da parte degli Umiliati o della lana; caccia, pesca, commercio sulle rive del Verbano erano ampiamente praticate e con esse si apriva la porta alla cultura del mondo di allora.

Era pure praticata l’estrazione e l’esportazione di marmo per abbellire le chiese romaniche, le rocche dei nobili, le case borghesi; tra i destinatari dei materiali estratti dalle cave tra Brissago e Ascona erano i cantieri della Fabbrica del Duomo di Milano, di Santa Maria delle Grazie (1492) e Santa Maria di San Celso (1497) nella medesima città.

Ai comuni spettava la costruzione di nuove chiese, il mantenimento dei chierici e gli amministratori di tale patrimonio dovevano tenere un “quadernum” o “ bachulum”, per scrivere entrate e spese21.

 

 

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ISSN 2284-3620

Ultimo aggiornamento: 19 aprile 2016